HEIDEGGER E CROCE
da “il dubbio”, 12/1/2017
Nella vulgata mediatica (che si esibisce non solo
nel web ma dovunque, spudoratamente
occhieggiando persino di tra le pagine del più ponderoso trattato accademico di
gnoseologia o di etica) il filosofo per eccellenza del '900 è Heidegger. E si
capisce: è tedesco, ha insegnato a Friburgo, può essere considerato l'erede
della grande tradizione egemone, tra Kant ed Hegel, del pensiero non solo
tedesco ma europeo. Eppoi è oscuro, ermetico, profetico, con le sue passeggiate
solitarie per scoscesi holzwege esplora
orizzonti infiniti e imperscrutabili, emana un sentore demoniaco e stregonesco,
dà soddisfazione a tanti piccoli superuomini che sulle sue orme si sentono
accolti nella ristretta schiera degli eletti capaci di attingere alle fonti del
pensiero "autentico" - lo "essere-per-la-morte" - come
cavalieri del Graal lontani dal volgo di coloro che non sanno districarsi
dal"chiacchericcio" dell'inautentico. Tutto un po' elitario se non
proprio nazista, e dunque gratificante.
Ben diverse
le fortune di un pensatore più o meno contemporaneo del grande tedesco, l'abruzzese-napoletano
Benedetto Croce. Davanti a lui i sofisticati accademici storcono il naso,
snobbandolo senza riguardi: troppa concretezza, niente slanci metafisici,
niente fascino accattivante, troppo rompiscatole, sempre un po' rétro, ecc.
Magari un po' troppo amato da non filosofi, forse per ripicca i filosofi e gli
accademici gli contrapponevano e gli contrappongono, ancor prima che Heidegger,
Giovanni Gentile. Personalmente invece ritengo che se c'e' un erede di - per
dire - Nietzsche, l'araldo della modernità, è proprio il provinciale don
Benedetto che Nietzsche non lo amava, come non amava la "décadence"
che al portavoce di Zaratustra si è
sempre ispirata.
Croce arriva
alla filosofia non meditando in biblioteca sui testi canonici ma attraverso un chiuso e introverso dramma
esistenziale. Nel 1883, quando aveva appena diciassette anni, lui e la sua famiglia vennero travolti dal
devastante terremoto di Casamicciola. Il ragazzo restò sepolto per ore sotto le
macerie ma si salvò, i familiari morirono. L’orfano venne accolto dai cugini
Silvio e Bertrando Spaventa, ma lo choc
perdurò a lungo, e a lungo Benedetto fu
tentato dal suicidio. Lui stesso ha raccontato come il ricordo della terribile
esperienza lo avesse perseguitato a lungo e come riuscì a salvarsi dal lacerante travaglio
spirituale. Nella solitudine, cominciò a
meditare sui valori della vita, di una vita degna di essere vissuta
positivamente. Forse per questa via - quasi un espediente terapeutico – il non
ancora filosofo abbozzò alcuni concetti destinati nel tempo a divenire i cardini
del suo “sistema”, il sistema della “filosofia dello spirito”. Croce non era credente, non si affidò a dio, ma
forse allora venne scoprendo che solo la verità, la bellezza, la giustizia e
l'individuale ma solido utile sono
valori/categorie costitutivi del mondo, della realtà, del pensiero che la
pensa. Più che la dialettica hegeliana o le classificazioni herbartiane, i
quattro “momenti” della vita dello spirito su cui poi Croce lavorò con indefesso
rigore filosofico nascono dalla meditazione sulla sua esperienza personale.
Questa intuizione sfociò nella teoria di una
dialettica dei distinti, caratterizzata dalla compresenza - in ognuno
dei quattro “momenti” dello spirito - del positivo e del negativo: il bello e
il suo contrario - il brutto -, il vero e il falso, ecc. Modernissima, anzi rivoluzinaria
la sua scoperta dell’utile come “momento” autonomo della vita spirituale.
In questo
pensiero non c’è alcuno snobismo, per Croce ogni uomo (o donna, si capisce) pensa
e fa filosofia nel suo concreto, vario, agire quotidiano. Il filosofare del filosofo è solo lo sforzo continuo e tormentoso di
“schiarire” il pensiero, il concreto pensare dell’uomo. E’ qui, credo, il fondamento del suo storicismo. Sulle
orme di Vico, Croce ritiene che ciò che l‘uomo può davvero conoscere è solo
quel che egli stesso ha edificato, e che dunque solo la storia/storiografia può
far rivivere, rendere attuale,
contemporaneo.
Per
Nietzsche, se Dio è morto tutto diventa possibile: una risposta che ci consegna
ad un nichilismo assoluto. Anche per Croce Dio è storicamente morto (ma il
portato del cristianesimo sopravvive a quella morte) però l’uomo deve, in conseguenza,
farsi responsabie del suo agire, nell’ambito di una rigorosa etica della
responsabilità e del dovere cui si devono le “are” e i “templi” che segnano il
percorso storico della civiltà. Per questo, Croce detesta e respinge ogni forma
di “decostruzionismo”, di “denuncia” delle cosiddette “menzogne della civiltà”
di cui si nutrono molte mode pseudofilosofiche, espressione di un estetismo
egocentrico e narcisista, quello che impregna il pensiero del tardoromantico
Heidegger.
Anche Croce
ebbe le sue contraddizioni: la prima quando, nella disperazione dell’impotenza
dinanzi al vittorioso dilagare delle dittature europee, si rifugiò nell’ideale
di una metastorica “religione della libertà” comunque e sempre
vittoriosa sugli accidenti della storia; la seconda quando, già ottantenne,
dovette arrendersi al riconoscimento della presenza - al di là e
precedentemente rispetto alle categorie dello spirito - di un “verde”, inconscio e inafferrabile albero
della vita, di cui si nutre ogni forma dello spirito.
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