martedì 20 dicembre 2016


L’AMBIGUA  STORIA  DEL  PROPORZIONALE
da "Il dubbio", 20/12/2016


Allora, torneremo al sistema elettorale proporzionale? A un bel sistema proporzionale esplicito e dichiarato, senza gli equivoci e i sotterfugi del pasticciaccio in vigore? E’ possibile, forse anche probabile, la voglia è diffusa e fortissima (“...ci siamo, tranquilli...”, Giuliano Ferrara, “Il Foglio”, 14/12/2016), (“...la prossima legge elettorale rischia di essere...più proporzionale di tutte le precedenti”, Antonio Polito in una analisi politologica peraltro non proprio inappuntabile , “Corriere della Sera”,  14 dicembre 2016). Un cammino da gambero, ma sarebbe sbagliato  - oltre che inutile - prendersela (Riccardo Magi, “L’Unità”,13/12/2016)  con la “retorica” proporzionalista e i suoi “proseliti” di destra come di sinistra, sempre attenti a garantirsi perché tutti (o quasi) i 23 partiti e partitini tra cui si distribuiscono possano arraffare un seggio (almeno) in un parlamento  fatto a spicchi  come  un panettone.  La faccenda è molto più seria, ha una storia lunga, puntuale e ferratissima nelle sue motivazioni e ragioni.
Il proporzionale venne introdotto in Italia nel 1919, dal governo Nitti, su pressione del Partito Popolare Italiano - il neonato partito dei cattolici - e del Partito Socialista Italiano. Rispetto alla legge elettorale vigente dal 1912, la nuova normativa estendeva il diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 21 anni o avessero prestato il servizio militare. Il sistema tradusse in forza parlamentare il consenso delle due organizzazioni politiche di massa, che nei collegi uninominali si trovavano  in difficoltà di fronte ai candidati liberali, radicati sul territorio e quindi ben conosciuti, attraverso non la propaganda  ma il contatto diretto. Con questo cambiamento il voto non andava più al singolo, all’uomo, al candidato, ma all’anonimo partito che lo aveva designato. Non sono pochi quelli che hanno osservato come, alla fine,  dell’innovazione si sia giovato soprattutto il Partito Fascista, con la sua spregiudicata e aggressiva propaganda.
Il metodo proporzionale era stato inventato in Francia, nel 1846,  per favorire lo sviluppo dei partiti, da Victor Considerant, un acceso fourierista e socialista estremo, politico e saggista di rilievo. Il meccanismo da lui disegnato puntava a far nascere una Assemblea che esprimesse il più fedelmente e, per dire, il più fotograficamente possibile, l’immagine dell’insieme del corpo elettorale. Nato per favorire il voto delle nuove masse urbane e operaie, poco o nulla rappresentate da sistemi che privilegiavano invece ricchi e potenti, il proporzionale è dunque strettamente legato alla storia dei grandi partiti “moderni”. In Inghilterra, dove pure le masse operaie venivano acquistando un non meno forte peso, non attecchì: il sistema uninominale britannico seppe adeguarsi alle nuove necessità, in un equilibrio che mentre non ostacolava la crescita civile delle masse (basti pensare, ovviamente, al Partito Laburista) fece sì che i partiti non abbiano prevaricato coi loro apparati burocratici. In Inghilterra, il premier è anche il leader indiscusso del suo partito, l’applicazione in Europa (e particolarmente in Italia) del proporzionale ha fatto sì che il segretario del partito abbia un peso politico superiore al deputato, che non è più il rappresentate della “nazione” senza vincoli di mandato,  ma un anonimo portavoce del suo partito, e per lui si prospetti persino (accade oggi in Italia, su sollecitazione di Berlusconi) il “vincolo di mandato”. Il  deputato è - in quanto tale -  sempre più un numero, non una personalità idealmente legata ad un rapporto fiduciario con i suoi elettori. Anche il capo del governo ha un rapporto ambiguo con il segretario del partito.
Via via, il proporzionale è venuto degenerando, grazie alle sottigliezze di un ragionamento teorico formalmente ineccepibile. Se il sistema elettorale deve “rappresentare” il più dettagliatamente possibile tutte le tendenze politiche - ma anche culturali e magari religiose - la conseguenza sarà lo sgretolamento progressivo, l’adattamento coatto del sistema alla più variegata molteplicità di soggetti,  ciascuno dei quali richiedente un suo adeguato spazio, una adeguata fettina del panettone parlamentare. L’obiettivo di Considerant era di compattare il più possibile la rappresentanza attorno ai partiti di massa e alle loro ideologie creatrici di identità collettive; il risultato finale è esattamente l’opposto, lo spappolamento elettoralistico in nome e per conto di identità spesso inesistenti, evocate con l’obiettivo, appunto, di guadagnarsi una fettina del mercato elettorale. La conseguenza, ovvia, è la debolezza del governo, preda  sovente di posticcie e labili “coalizioni” e ostaggio di un molteplicità di poteri  di veto. Secondo Polito, il formarsi di coalizioni spesso del tutto eterogenee ha dato origine, almeno in Italia, ad un leaderismo fragile e ricattabile: il che è vero, tenendo altresì presente che una coalizione eterogenea è di per sé instabile e inaffidabile; nulla a che vedere con la variegata complessità dei partiti anglosassoni, tenuti saldamente assieme dalla norma etico-politica di fondo secondo la quale al centro del sistema c’è l’esecutivo, non il parlamento. Questa norma impone compattezza sia al partito di maggioranza  dietro il suo leader (il premier) sia all’opposizione e al suo governo-ombra.  
Tra i  critici nei confronti del proporzionale Magi  cita Luigi Einaudi il quale, nel 1946, ammoniva che esso, “moltiplicando i partiti, favorisce il trionfo non delle maggioranze ma delle minoranze” e, mentre “irrigidisce” i partiti sempre più arroccati su quella pretesa di identità che viene invocata per giustificare il meccanismo, non fornisce “la valvola di sicurezza contro colpi di mano”, “come quella – ricorda Magi – del 1922”. Avrebbe anche potuto  menzionare  Pannella, con la sua “Lega per l’Uninominale”.  Peraltro, non ha nemmeno senso l’appello rivolto da Magi al PD  perché ritorni alla sua “vocazione maggioritaria”  e respinga “l’algebra proporzionalista condita con una spruzzatina di maggioritario”. L’invocazione non è valida, per il semplice motivo che il PD è anche esso un partito frammentato e disgregato tra correnti, personalizzazioni e scismi che possono far prevedere scissioni anche formali (né sarebbe la prima volta che ciò accade, sempre in nome dell’ ”unità delle masse”...).
Non si può avviare un discorso serio sul tema del sistema elettorale, sbandierare il nobile obiettivo di reitrodurre l’uninominale maggioritario , facendo riferimento a forze che sono anche esse ormai  “dentro” il sistema politico-istituzionale: se si vuole davvero che, attraverso una profonda, rivoluzionaria  riflessione storico-teorica-politica, si possa ritrovare il cammino verso una democrazia coerente e rispondente ai canoni su cui essa può reggersi e prosperare, vale a dire il chiaro rapporto tra candidati ed elettori, occorrerà  collocarsi sul fonte intransigentemente alternativista, e da questa sponda avviare una - pur essa intransigente - polemica ed una coraggiosa iniziativa di respiro transnazionale. I radicali pannelliani denunciarono la crisi delle nordiche socialdemocrazie novecentesche  ammonendo che il “socialismo in un solo paese” è una sciocchezza, oggi ci dicono che la democrazia non si salva in un solo paese, l’Italia o qualsasi altro si voglia scegliere. A suo tempo proposero  la creazione di una “Organizzazione della e delle Democrazie”. Non riuscirono, ma la via non può essere che questa.