lunedì 21 novembre 2016

Ho disponibili molti numeri (anche alcune annate complete) del "N.Y. Review of book" e del "Times Review of books", per gli anni 1990.2000 circa. Disponibile a donarli, senza spese per me.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

da "Il dubbio”, 09/12/2016

Che ne  faremo della sinistra (non solo italiana)?

Le dimissioni di Matteo Renzi e - in parallelo - il gran rifiuto  di Franҁois  Hollande  sono vicende  molto diverse tra loro, nel  testo e nel contesto.  Ma qualcosa in comune lo hanno:  segnano l’uscita di scena  di due esponenti di primo piano di una sinistra comunque maltrattata e agonizzante,  se non morta e cancellata dalla cronaca ma fors’anche dalla Storia. E si parla non solo della o delle sinistre europee. Secondo Aldo Cazzullo (“Corriere della Sera”, 3 dicembre scorso), “il crollo della sinistra mondiale è pressoché completo”, dall’America  che boccia il neo-keynesiano Sanders come il “liberal” Obama (negli USA  i “liberal” sono la malvista sinistra) alla Spagna di Rajoy o alla Turchia stretta  nel pugno di ferro di Erdogan.  E molto deve dire anche il declino dei socialisti polacchi alla Kwasniewski  o dei  brasiliani Dilma e Lula.  Sempre per Cazzullo, persino la morte di Fidel Castro va intesa  come un tassello della crisi globale  delle sinistre  (e dei loro miti).  
Tutte allo sbando:  da quelle più intransigenti, dogmatiche  e nostalgico/retro a quelle populiste,  fino alle socialdemocrazie rese affabili e duttili dalle varie Bad Godesberg  succedutesi   soprattutto nel  nord-Europa. Naturalmente, la faccenda è triste e provoca comprensibili  rimpianti. Non manca però chi si ostina testardamente  a prognosticare e progettare  un futuro di rinnovamento e ripresa  dei grandi  ideali che hanno plasmato la storia per quasi due secoli: i partiti che li rappresentano o li hanno rappresentati  devono  risollevare le gloriose bandiere, ritrovare la loro identità profonda, cioè  la  difesa e promozione della uguaglianza sociale fino - secondo la componente comunista -  alla scomparsa totale delle classi.  Senza  spingersi così lontano  e anzi in contrapposizione, per Ezio Mauro (“La Repubblica”, 5 dicembre scorso), “ci sarebbe bisogno di una sinistra di governo”, certamente “moderna, occidentale, europea...”. Sul dibattito tra fautori del progressismo livellatore e quelli che auspicano invece la sana concorrenza della deregulation globale, è difficile prendere posizione: economisti e studiosi di ogni calibro e provenienza hanno detto la loro senza mai trovare un punto d’accordo comune, lasciando ai politici e al loro rude pragmatismo il compito di individuare una qualche via d’uscita, magari riesumando il vecchio e disinvolto metodo del  dare un colpo alla botte e uno  al cerchio.
Ricordo però qualche pagina del “Manifesto di Ventotene” che  aiuta a spiegare i problemi delle sinistre. Il “Manifesto” è sicuramente, in molte sue parti, invecchiato e inutilizzabile, ma ricordo bene l’impressione che mi  fece, quando lo lessi la prima volta, l’affermazione che gli Stati nazionali usciti dalla guerra sarebbero divenuti dominio delle sinistre “sindacali” (non ho il testo sottomano, ma credo di ricordare con esattezza questo termine – “sindacali” – per indicare la caratteristica saliente degli Stati usciti dalla sanguinosa prova). A lungo, in Italia fu al governo la DC, e la previsione sul predominio delle sinistre “sindacali”mi parve  non rispondente a verità. Invece, la definizione era  azzeccata. Nel secondo dopoguerra, i sindacati, socialcomunisti o cattolici, hanno goduto di un potere via via sempre più forte, come mai in precedenza. Divennero i protagonisti assoluti di una dialettica partecipativa e cogestionale nella quale erano visti come  controparte privilegiata del governo, qualunque fosse il suo colore. Fu il tempo, nei fatti se non di diritto, del “consociativismo”, in cui un progetto di legge veniva  previamente sottoposto al  beneplacito delle parti sociali, vale a dire i sindacati. Era ovvio che fosse così, il dopoguerra vide  l’esplosione, anche in Italia, di una forte  classe  operaia  legata alle grandi industrie, che trovava come suo punto di riferimento  i partiti di massa, più o meno marxisti che fossero, e alle loro avanguardie, i sindacati. Cose analoghe  accadevano anche in Francia o altrove.  Gli Stati vennero “occupati” dalle sinistre “sindacali”. Una abnorme concezione istituzionale.
Oggi la classe operaia, nel suo complesso, è sparita o ha perso gran parte del suo antico potere. Non è più la marxiana “classe generale”, portatrice ed espressione dei  valori della Storia. E’ dunque ugualmente ovvio che i partiti legati alla dialettica social/nazionale siano in forte declino: non hanno più una funzione specifica da assolvere, né possono vantare responsabilità e doveri  al di là della difesa degli interessi  particolari dei segmenti sociali  che rappresentano (o dicono di rappresentare).  La richiesta di farli rinascere, di ricostituirli o ricostruirli, è fuori  luogo, non ha senso. La vera faglia, il punto di frattura tra conservazione e innovazione, la nuova frontiera tra passato e futuro, è quella tra l’isolazionismo  nazionalista, il protezionismo, l’identitarismo (anche razzista) da una parte e, dall’altra, la flessibilità inevitabile della rivoluzione digitale e dei nuovi lavori, l’internazionalizzazione dei diritti (e dei doveri) civili e umani, l’apertura  verso l’altro, la trasversalità. Le migrazioni sono un fenomeno epocale, che deve essere governato nella sua ricchezza e fecondità, anche con il suo inevitabile meticciato culturale e antropologico.  Dunque, un socialismo possibile e auspicabile è solo quello transnazionale, il socialismo dei diritti dell’uomo 2.0. Gli appelli alla “ricostruzione” della o delle sinistre ingabbiate nei  confini degli Stati nazione sono retorica, indice di una incapacità di vedere e analizzare i problemi del nostro tempo.
Purtroppo, un partito, o partiti che li avvertano e si preparino ad affrontarli non ci sono:  tra la rovina delle vecchie élites e classi dirigenti nazionali, non si sente il vagito di un soggetto politico transnazionale adeguato alla bisogna. Siamo ancora, quando va bene, al tempo delle analisi. Speriamo che non sia una perdita di tempo.