venerdì 14 ottobre 2016

TRUMP? COME RADIO PAROLACCIA
da "L'Opinione"
ottobre 2016


Più di 800 ore ininterrotte di bestemmie, insulti, oscenità,  provenienti  da ogni angolo del Paese. Fu  la trasmissione radiofonica più lunga e volgare della storia: quasi 50mila minuti di sconcezze  trasmesse in 35 giorni da Radio Radicale, ribattezzata per l’occasione “Radio parolaccia”. Era il 10 luglio del 1986, Radio Radicale versava  in gravi difficoltà economiche.  Di fronte a costi di gestione sempre più alti,  era arrivata al punto di rischiare la chiusura. I dirigenti  decisero di sospendere tutti i programmi, per lasciare la parola - senza filtri di sorta - agli ascoltatori: installarono 30 segreterie telefoniche, invitando gli italiani a registrare un messaggio di un minuto con le proprie opinioni sulla radio.  Successe l’imprevedibile.  Attraverso il microfono ininterrottamente aperto, migliaia di sonosciuti vomitarono scurrilità, bestemmie, insulti, in un crescendo che si nutriva e si esaltava di se stesso. Ne uscì un’immagine del paese inedita,  inaspettata, insospettabile.
Chi ricorda ancora quell’incredibile episodio non dovrebbe avere molto da meravigliarsi, oggi,  per le scurrilità profferite da Donald Trump durante i dibattiti con Hillary Cinton o in ogni altra occasione pubblica gli venga offerta. Le sue parolacce, i suoi insulti, le sue battute  sessiste  o antifemministe non sono più volgari o grevi di quelle che uscivano dai microfoni di Radio Radicale. Qualcuno, in quel lontano 1986, cercò una spiegazionedell’insolito evento (allora non c’era il web o i “social”, twitter e affini), la Lega di Bossi doveva nascere (nel 1997 o, secondo alcuni, nel 1995), ovviamente Grillo faceva ancora il capocomico, non il capopolo, e il suo linguaggio sboccato era funzionale al suo lavoro. Perciò i più dei commentatori  misero la trasmissione sul conto dell’ eccentricità attribuita a Marco Pannella, ai radicali e alle loro irridenti iniziative. Mi pare che furono in pochi ad azzardare un giudizio pienamente politico. E invece l’evento radiofonico  se non prevedeva, certo precorreva una crisi socioculturale più profonda e generale di quanto si potesse immaginare. Il fatto che oggi il candidato alla Presidenza della Repubblica Americana, nata dal pensiero di gente di raffinata cultura e comportamenti  come come  Alexander Hamilton, James Madison e John Jay (per non parlare di Benjamin Franklin) possa raccogliere una audience vastissima con  un linguaggio che fa inorridire non solo i benpensanti  è un fatto  incredibile, che trova un paragone – appunto - solo  nel precedente  di Radio Radicale.
 O meglio, sembra che sia così: in realtà anche questa vicenda si colloca in un quadro  assai vasto e profondo, quello della crisi del rapporto tra elites (non solo quelle italiane, evidentemente) e opinione pubblica. Il  rigetto della politica e delle sue classi dirigenti è un fenomeno di portata epocale, che investe soprattutto le democrazie (se non altro perché le dittature e i regimi tirannici sono molto sbrigative nel reprimerlo). E finalmente commentatori, politologi ed esperti cominciano a sospettare che non  sia da prendere sottogamba, perché potrebbe scivolare lungo  derive assai pericolose: qualcnuno è arrivato finalmente a porsi la inquietante domanda se non sia a rischio lo stesso concetto di democrazia,quella che si è plasmata,  come la conosciamo, da secoli.
Per  mero promemoria, vale la pena segnalare che i radicali di Marco Pannella da tempo vanno denunciando il pericolo. E non solo lo hanno denunciato e lo denunciano, ma  cercano quanto meno di individuare i possibili rimedi. Innanzitutto, occorre comprendere quali siano le radici della disaffezione dell’opinione pubblica verso le elites e le loro politiche: per i radicali le ragioni stanno nella inadeguatezza delle Istituzioni statuali in vigore. Basta tornare indietro di poco nel  tempo per ricordare quanto le Istituzioni “nazionali” fossero sentite come “valori” inattaccabili e creatori di consenso, di sentimenti popolari e positivi. “Dulce et decorum est pro patria mori”, scandivano i romani. Oggi, quel sentimento patriottico è scomparso. “Morire per la patria” può apparire un segno di mera follia, le cerimonie sui morti in questa o quella guerra vengono seguite sempre più distrattamente. L’uomo di oggi e di domani si sente molto più apolide, internazionale ecc., che nazionalista. Il nazionalismo dei partiti di destra estrema è solo un riflesso di antiche paure o di inconsci pregiudizi e terrori piuttosto  che indice di attaccamento positivo alla patria, alla terra “natia”, ecc. Sul piano corrente, non sono pochi quelli che osservano come la cosidetta “fuga dei cervelli”, su cui si perdono molte lamentazioni, è semplicemente la ricerca di una opportunità migliore di vita, resa possibile dalla caduta di molte barriere tra i popoli: sarebbe dunque un fatto benefico, positivo, da apprezzare. Il suo interfaccia è nella perdita di “senso” delle elites nazionali, che ancora guardano al passato, e non capiscono il presente e le sue profonde pulsioni.

La gente, contro le pretese di queste ormai vuote e inutili elites si sfoga come può, con con un comportamento riottoso, intollerante, e magari con lo sfottò, la sguaiataggine. Trump si è semplicemente fatto portavoce di queste insofferenze:  nessuno può pensare che quest’uomo stia rivendicando i grandi valori del “Federalist”. Il suo stile è diverso, ma i valori di cui si fa portatore sono – al più - quelli del Klu-klux-klan.