venerdì 27 maggio 2016



POPULISMI, ELITES, ISTITUZIONI
(da "L'Opinione", del 27/52016)

Ahimè, sì, i populismi dilagano.  Anche in Austria, dove pure le ultime elezioni hanno segnato un loro arresto, il torbido rigurgito fa presa su metà del paese. Negli Stati Uniti i sondaggi danno il populista estremo (forse il più estremo), Trump, in testa rispetto alla Clinton. Per  quanto la si potesse (e la si possa) stimare per la sua sicura conoscenza dei più intimi segreti della politica e dunque per una esperienza che non potrebbe che essere necessaria al suo paese e al mondo, è stato forse  un errore candidare Hillary: anche in America, l’opinione pubblica è stanca della politica e delle sue più solide e accreditate personificazioni, del  suo eterno establishment,  e persino un uomo così poco credibile come Trump può  convincere e conquistarsi  un consenso,  magari solo rabbioso e in negativo: un  consenso protestatario, che mette  in discussione l’antica e solida certezza, di cui – anticipando sull’uscita di un suo libro – ci fa partecipi con un suo articolo sul “Foglio” ( 31 marzo u.s.)  Mattia Ferraresi. A suo avviso, al centro dell’esperienza storica degli U.S.A. “abita l’idea dell’unione, un tutto organico che supera lo schema degli interessi di parte, proiettando sullo schermo della storia umana una nuova dimensione del  vivere civile, lontana dalle faziose degenerazioni europee”: oggi,  tale secolare certezza appare scossa e fragile. La Francia ha la sua consolidata dinastia Le Pen e, infine, tra pochi giorni vedremo se l’ondata populista e antipolitica travolgerà anche la Gran Bretagna, provocando una “Brexit” che avrà effetti  catastrofici, non solo per la Gran Bretagna ma per l’Europa tutta.

Populismi, dunque: veri e propri  tsunami  psicologici, sociologici o antropologici, in ogni parte del mondo (anche il Sud America ha, in questo senso, i suoi guai).  Porteranno sicuramente, quanto meno, una lunga stagione di insicurezze, politiche ed economiche, che potremmo definire il rovescio o la contropartita della globalizzazione: perché proprio alla globalizzazione (tecnologica ed economica...) viene attribuita la responsabilità finale dell’inquietante fenomeno.  Ma, attenzione: è  responsailità, o non piuttosto merito? Non mi stupirei se qualcuno, alla fine, arrivasse a sostenere che  il fenomeno dell’insorgenza dei populismi è un dato positivo, basta saperlo leggere. Benedetto  Croce diceva che non si fa storia del “negativo”. Anche in quanto sta accadendo oggi e che ci pare incomprensibile e, in definitiva, irrazionale, forse si potrà (o si dovrà) trovare una ragione “positiva”, una “giustificazione”.  Insomma, prima o poi forse anche qui troveremo una conferma dell’hegeliano “ciò che è reale è razionale”.

E’ comunque vero  che qualcosa, se non l’intero mondo come lo conoscevamo fino a ieri, si sta dissolvendo.  Poiché non  sembra possibile (o non sembra a me  possibile) dipanare un filo rosso che ci conduca a capire quanto avviene, mi  rifaccio ad un esempio noto: la dissoluzione dell’Impero romano con la penetrazione  (e definitiva loro installazione) dentro i suoi confini di popolazioni che non potevano certo competere, per sviluppo civile. Gli stessi protagonisti o coevi di quelle vicende si chiesero sgomenti  come  potesse  accadere che Roma, la millenaria e sacra capitale, venisse saccheggiata da orde di barbari (410 p.co, ad opera dei Visigoti di Alarico) ).  Fu Sant’Agostino a trovare una risposta. Vera o “falsa” che fosse, frutto di una fantasia politica unica ed eccezionale, la visione agostiniana plasmò di sé le vicende successive, la storia dell’Europa intera. Le “invasioni barbariche” diedero luogo a formazioni culturali diverse ma positive, nuclei di  formazioni nazionali e culturali che hanno anche esse fatto la storia, sono stati fenomeni  grandiosi.

Non so se oggi c’è in giro un equivalente di sant’Agostino capace di spiegarci quanto  sta accadendo: comunque non si torna indietro dalla globalizzaione, tutte le tecnologie della comunicazione spingono per il suo ulteriore sviluppo. In questo quadro, due sono – mi pare - i problemi da risolvere, i nodi da sciogliere per avviare una storia “diversamente” normale: il problema delle élites e quello delle istituzioni. In un recente editoriale sul Corriere della Sera (25 maggio u.s.) Antonio Polito sosteva “l’alternativa alle secessioni europee [cioè alla diaspora provocata dai populistmi, n.d.r.] dovrebbero essere loro, i governi dell’Europa Carolingia, del nocciolo duro, dei sei paesi fondatori...”. Ma come è possibile chiedere a quanti  sono profondamente coinvolti  nella crisi di risolverla? Anche loro sono parte del problema.  Però, poi, a fianco della crisi delle élites c’è la crisi delle Istituzioni, in primo luogo degli Stati Nazionali. Questo problema è particolarente grave in Europa: nessuno dei Paesi europei, dall’Italia alla Francia alla stessa Germania o all’Inghilterra gode più della fiducia dei suoi cittadini, ed è delegittimato al ruolo che pretende di rappresentare nel concerto internazionale.

Dunque, i populismi non sarebbero che un effetto – non una o “la” causa – della crisi attuale. E non è sicuro che la globalizzazione sia un fenomeno solo negativo, su cui rovesciare tutte le responsabilità.  Allora, dove cercare le radici della crisi? E soprattutto, come individuare una soluzione, o un “pacchetto” di soluzioni possibili e affidabili? Ma qui il serpente si morde la coda. Perché la risposta dovrebbe essere: “occorrono élites lungimiranti e coraggiose...”. Appunto.

sabato 14 maggio 2016



GRAMSCI,  CHI  ERA  COSTUI?

(da "Il Dubbio)

Il 27 aprile ricorreva l’anniversario della morte di Antonio Gramsci  (22-1-1891/27-4-1937). Una data dimenticata, un quotidiano ha annotato: “Per la prima volta dopo 79 anni dalla sua scomparsa il Partito Democratico non gli ha reso omaggio. Nessuna corona di fiori, nessuna cerimonia, nessun ricordo lasciato sulla sua tomba”.
La cosa apparirà, ai più giovani o ai distratti, irrilevante: Gramsci, chi era costui? Ma chi ricorda gli anni che seguirono la pubblicazione dei “Quaderni del Carcere”  non potrà non avvertire come l’odierna dimenticanza  – non casuale, con tutta evidenza -  è quanto meno irriconoscente verso il pensatore e uomo politico che nel dopoguerra più fortemente e durevolmente ha connotato l’azione del Partito Comunista, riscuotendo eccezionale attenzione e  interesse nel mondo della cultura e della politica, non solo italiano. I “ Quaderni del carcere” sono la raccolta dei testi, degli appunti,  delle note che Antonio Gramsci ebbe la possibilità di scrivere a partire dal febbraio del 1929 e fino al 1935, durante la sua prigionia nelle carceri fasciste (1927-1937). Erano normali quaderni, ne sono stati recuperati 33 ma c’è chi dice che fossero in realtà 34 e che uno sia stato eliminato da Palmiro Togliatti, perché contenente passi contrastanti con la linea del P.C.I. o memori della divergenza che separò i due in un momento topico del movimento comunista europeo.
A lungo si è detto  che Gramsci andrebbe collocato tra i massimi pensatori del secolo, degno di essere affiancato a Machiavelli per la profondità delle ricerche etico-politiche (ma anche letterarie e vastamente culturali). Comperai e lessi avidamente i quattro sobri ed eleganti  volumi apparsi, per la casa editrice Einaudi, tra il 1948 e il 1951. In questa edizione i testi erano organizzati secondo un ordine tematico, nel 1975 ne uscì,  curata da Valentino Gerratana,  una edizione critica, rinnovata e  con un'accurata ricostruzione cronologica della loro storia.
La varietà degli interessi coltivati da Gramsci è davvero impressionante – politica, storia, letteratura, filologia -  sopratutto avvertendo che i suoi studi potevano avvalersi di una bibliografia molto ristretta, con i libri previamente sottoposti alla censura carceraria. Il nucleo centrale del suo pensiero fu l’analisi del concetto di “egemonia”: «Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente». Vi è distinzione fra direzione – egemonia intellettuale e morale – e dominio, che è esercizio della forza repressiva. Per esercitare l’egemonia occorre  che il “gruppo sociale” sia capace di realizzare una forte alleanza con altre forze, imponendo la propria concezione del mondo. L'esercizio rivoluzionario dell'egemonia  avviene inizialmente  a livello della sovrastruttura – in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale, morale – ma poi si diffonde nella società nel suo complesso investendo anche la struttura economica, cioè il «blocco storico»,che in Gramsci indica l'insieme della struttura e della sovrastruttura, ossia i rapporti sociali di produzione ma anche i loro riflessi ideali e ideologici. Si intende che per Gramsci il “gruppo sociale” cui affidare il compito rivoluzionario dell’egemonia sulla società - a partire da quella italiana - doveva essere il proletariato, la classe operaia/contadina.

Bersaglio di una polemica - accanita ma non volgare, dotta e di altissimo livello - fu, per Gramsci, Benedetto Croce, anche per lui il più autorevole intellettuale dell'epoca. Il borghese  Croce, secondo Gramsci, aveva elaborato gli strumenti culturali più raffinati per escludere il movimento operaio e socialista dallo svolgimento della cultura italiana risorgimentale e postrisorgimentale, ponendosi a difesa  dell'egemonia culturale che il blocco sociale dominante esercitava nei confronti del movimento operaio italiano. Croce combattè il marxismo,  negandone la validità nell'elemento decisivo: il riconoscimento del valore scientifico  del “plusvalore”  - la differenza tra il valore delle merci prodotte dal lavoratore e il valore della forza-lavoro del lavoratore stesso - che, nell’analisi marxiana è invece centrale. Secondo Gramsci, per lo storicismo crociano la storia è storia dello Spirito: seguendo il Vico, la realtà è storia e tutto ciò che esiste è necessariamente storico ma - conformemente alla natura idealistica della sua filosofia - la storia  non è la vicenda concreta delle nazioni e delle classi. Anche la sua dialettica dei “distinti” è un  depotenziamento delle grandi contraddizioni storiche che invece la dialettica hegeliana considerava in tutta la loro drammaticità.
Rifiutando l’interpretazione del Risorgimento fatta da Croce, Gramsci insisteva sul concetto di un Risorgimento “tradito” da una borghesia che pavidamente aveva escluso dal processo unitario le classi lavoratrici, operaie e contadine. In questa analisi, Gramsci si allineava sul pensiero di molti altri storici e intellettuali – alla Gobetti , diciamo –  ugualmente critici delle vicende risorgimentalie postrisorgimentali, in quanto gestite da una borghesia intrinsecamente trasformista.
La complessa concezione, che Gramsci indagò ripercorrendo a fondo la storia politico-sociale italiana, divenne la bandiera, l’arma ideologica con la quale il P.C.I. togliattiano si sforzò di creare le condizioni del suo avvento al potere, cercando  di riprodurre quelle che Gramsci aveva indicato come ottimali per conquistare un Risorgimento, una Indipendenza nazionale davvero rivoluzionaria, completamente diversa da quella ottenuta, tra compromessi e repressioni antipopolari, dalla borghesia: l’alleanza cioè tra i contadini del sud e l’operaiato del nord. Su questo schema il P.C.I. riprese in mano e agitò la “questione meridionale”. Il meridionalismo delle sinistre venne contrastato dalle lucide ricerche di una cultura liberale ancora efficace, di cui si fecero interpreti lo storico Rosario Romeo con i suoi studi  sul Risorgimento, ricchi di dati e cifre incontestabili, o la rivista “Nord e Sud” di Chinchino Compagna. La DC si spaccò tra una sinistra che guardava con simpatia le analisi gramscian-comuniste e un gruppo dirigente “moderato”, attento alle ragioni di un liberalismo legato alle tendenze capitalistiche mondiali prevalenti anche se attenuato dalle esigenze sociali cui la DC era ovviamente attenta.

Il fondatore del Partito Comunista italiano, l'intellettuale, il filosofo e giornalista riposa nel cimitero acattolico di Roma, tra artisti e poeti. Tra i tanti celebri omaggi tributatigli nel tempo, memorabile e semprte vitale quello di Pier Paolo Pasolini, che gli dedicò il poemetto in versi "Le ceneri di Gramsci".