venerdì 19 febbraio 2016
BENEDETTO CROCE? PIU’ MONTAIGNE CHE HEGEL
Da “L’Opinione”, 20
febbraio 2016
Il 25 febbraio è la ricorrenza dei centocinquanta anni dalla
nascita di Benedetto Croce. L’immagine del filosofo napoletano è ormai, specie tra le giovani generazioni, sfocata, per loro Croce
è un desparecido culturale. Non è il solo, del resto. L’epoca è frettolosa, qualcuno
definisce l’attuale una “società liquida”, viviamo nello spazio del twitter, di
un social o di un selfie che soddisfino il nostro narcisismo o – forse – ci
rassicurino che davvero ci siamo.
In controtendenza, Giuseppe Galasso è più ottimista,
sostiene che l’odierno eclisse del filosofo non è una “sepoltura”, un “epilogo”; trattasi
bensì, “come per ogni altro grande nome, del passare dalla tumultuosa contingenza
del tempo alla perenntà dei classici, alla perenne attualità delle voci che
(...) percepiscono ed esprimono qualcosa di sempreverde e imperituro circa
l’essenza e l’esperinza della storia, ossia del mondo e dell’uomo”. Lui stesso seconda il passaggio dalla cronaca alla
storicità, mettendoci a disposizione un ponderoso volume (oltre 500 pagine), edito
dal Mulino, nel quale raccoglie “molti dei numerosi saggi”, di diversa intonazione
e spessore, dedicati al filosofo di cui, se non discepolo, è sicuramente
attento studioso e cultore (Giuseppe Galasso: “La memoria, la vita, i valori”.
Itinerari crociani. A cura di Emma Giammattei. Società editrice Il Mulino, MMXV,
2015). Galasso aveva già fornito una “delineazione complessiva e unitaria” del
pensiero del filosofo nel suo “Croce e lo spirito del suo tempo” (“Il
Saggiatore”, 1990).
Impossibile tirarne qualche somma
nel poco spazio (e tempo) a disposizione, ma il libro sta bene in biblioteca, i
saggi appaiono utilissimi da scorrere e consultare, ben ripartiti come sono in ampie, omogenee sezioni:
“La storiografia e l’estetica”, “Etica e politica”, “Tra Napoli e l’Europa”, “Per
una biografia contestuale”... E subito il primo dei saggi mi offre uno spunto
di riflessione assai ghiotto: tratta, a sua volta, di un saggio del filosofo,
una di quelle scritture “secondarie”, di contenuto - almeno ad una prima
lettura – erudito, che intervallano, come parentesi svagate, le opere filosofiche o storiografiche di
maggior respiro. Su queste briciole si è appuntata sovente l’ironia dei critici
di Croce, pronti ad accusarlo di essere più che altro un erudito di storia locale, di
cose e vicende napoletane. Galasso ci racconta tutta un’altra storia. Croce scrisse
il “Saggio su Pulcinella” nell’agosto 1898 e l’amico Gentile, ricorda Galasso, “si
compiacque con lui perché mescolava questo argomento ‘agli studi gravi’”, un giudizio
condiviso da Antonio Labriola.
In realtà – osserva Galasso – di
poco grave nell’interesse di Croce per Pulcinella c’era...poco”. Nello stesso
periodo il filosofo stava raccogliendo e sistemando i suoi studi attorno alla Repubblica
napoletana del 1799, ma era anche intento a “definire la propria posizione”
sulle dottrine di Marx; e, contemporaneamente, curava l’edizione di scritti di
Francesco De Sanctis. Proprio quest’ultima impresa fu la matrice del suo
interesse per la maschera napoletana. Nel “diario della scuola” del grande
critico, Croce legge un articolo, scritto nel 1872, in cui, come tema di studio
degli allievi, De Sanctis aveva proposto il “carattere di Pulcinella”: lo
svolgimento datone da Giorgio Arcoleo era piaciuto al critico, che lo aveva
fatto pubblicare. Croce approfondisce la questione in pagine scrupolose, ma
anche geniali. Arriva a concludere che la celebre maschera era non un
“individuo artistico, ma una serie d’individui variamente determinati e
coloriti dai varii attori e scrittori comici che per più secoli si sono avvalsi
di quella figura”. Insomma - continua Galasso - Croce indagava non su un tema di erudizione
napoletana, ma su un problema “critico”, anzi “essenzialmente estetico”, che si veniva a trovare già “pienamente sulla
strada che Croce (..) si avviava a prendere e che lo avrebbe condotto, con l’ ’Estetica’,
alla fondazione del suo ‘sistema’ filosofico”. Il saggetto poco “grave” introduceva
e forse fondava temi squisitamente teorici,
come “la riduzione del tipologico, del genere letterario, delle
schematizzazioni figurative e psicologiche, delle generalizzazioni sociologiche
e antropologiche alla varietà storica effettiva e individuale dei casi
letterari, delle figure artistiche, delle rappresentazioni estetiche, delle
espressioni e dei personaggi più o meno riuscitamente poetici, da cui
generalizzazioni, schematizzazioni, tipologie, generi sono dedotti per un
lavoro, per Croce, doppiamente infecondo di unificazione e astrazione”. Di altri saggi crociani su temi “eruditi” si
potrebbe dire, penso, qualcosa di analogo, a segno della unitarietà del
pensiero, schiettamente filosofico o profondamente storiografico, su cui sempre
si muoveva Croce.
Vorrei portare, a riprova, una mia riflessione. Tra le opere
storico-erudite di Croce c’è un libro a me carissimo ma non molto considerato
dalla critica. Si tratta di “Vite di avventure, di fede e di passione”. Uscì
nel 1935, io ne posseggo l’edizione Adelphi del 1989, curata proprio da Galasso.
Sono sei biografie, rispettivamente dei medievali Filippo di Fiandra e Cola di
Monforte; dei rinascimentali Galeazzo Caracciolo, “Isabella di Morra e Diego
Sandoval de Castro” e Diego Duque de
Estrada; e infine del settecentesco Carlo Lauberg; quest’ultima è la vita “di un rivoluzionario”. Alle sei biografie Croce premise una
avvertenza: “Mi è accaduto, nel corso delle mie letture e indagini, di sentirmi
attirato dalle figure di alcuni uomini, le cui vite, ricche di vicende e di
contrasti, trabalzate e trapiantate dalla fortuna in paesi lontani e diversi,
impersonavano drammaticamente le condizioni e le lotte politiche e morali dei
tempi loro. Mi pareva che, a ben raccontarle, si potesse appagare
l'immaginazione, che si diletta dello straordinario e inaspettato, senza perciò
deludere le richieste della seria intelligenza storica”. E’ qui esplicitata una
avvertenza metodologica fondamentale. “L’immaginazione”, avverte il
filosofo, si “diletta” ed “appaga” dello
“straordinario e dell’inaspettato”: l’espressione sarebbe piaciuta a G.B. Marino,
per il quale “è dell’artista il fin la meraviglia”. Però, avverte subito il
filosofo, nell’appagare “l’immaginazione” si dovrà stare attenti a non
“deludere le richieste della seria intelligenza storica”. Prosegue, ribadendo
il suo rifiuto delle “deplorevolissime”, “cosidette biografie romanzate” e
fornendoci precise indicazioni sui criteri da lui seguiti nello stendere le
sue: “attenersi scupoloamete alla documentazione”, essere rigorosi nella
“ricostruzione biografica”, “riattaccare i casi degl’individui ai problemi
delle loro età; e tuttavia “appagare in certa misura la fantasia mercé la
particolarità dei fatti e la vivezza del racconto”. Ma non è, questo, esattamente
il problema che attanagliò il Manzoni quando intraprese la stesura del suo
“romanzo storico”?
Perché mi è sempre parso che questo lavoro, tenuto per
secondario se non per marginale, dovesse essere invece inteso come quasi un
culmine dell’opera crociana? Perché qui,
così come nel saggio su Pulcinella, Croce cerca di raggiungere e rappresentare un
ideale - tutto filosofico - di
“soggettività” umana concreta e storicamente impegnata, sfuggendo e rifiutando
esplicitamente da una parte l’astrattezza dell’”individuo” illuministico,
dall’altra la vuotezza delle categorizzazioni sociologiche o erudite e
classificatorie. In queste opere Croce
insegue nel concreto e tenta di “verificare” le sue stesse teorie estetiche ed
etiche: fondare, “creare”, far vivere il “soggetto” umano nella sua complessa,
concreta realtà è l’ideale segreto del suo pensero, dell’intera sua opera. E’
lo sviluppo e la maturazione di quella sua giovanile memoria su “La storia
ridotta sotto il concetto generale dell'arte” (1893). Ha inizio da qui una
fervida avventura da cui la cultura italiana uscì rinnovata. L’erudizione si
innalza a filologia, storiografia: filosofia “in nuce”.
Forse Croce ne ha paura, teme di esserne invischiato e
catturato, la mette alla prova in opere “minori”. Ma le sue “Vite” sono un
eccezionale capolavoro di “teoria” etico-estetica applicata: anzi, della sua
teoria filosofica complessiva. Grazie a scritti come questi, Croce dovrebbe
essere messo a confronto, più che con Hegel, con un moralista della statura di
Montaigne. Vi pare poco, in un’epoca - la nostra - di astrazioni,
generalizzazioni, classificazioni senza
corpo, né anima né etica? Almeno questo
ammestramento vale la pena di sottolinearlo, per i centocinquanta anni della
sua nascita.
giovedì 18 febbraio 2016
CARDUCCI: COME E’ MODERNO, QUESTO SCONOSCIUTO
“Il Foglio”, 13 febbraio 2016
“Effetto curioso, trovarsi a leggere Carducci
a Parigi. Mi piacerebbe sapere quale sia la stima che i critici e gli scrittori
francesi, gli italianisti di quel paese, hanno del poeta nostro dal timbro più
prossimo al loro Hugo. Forse nemmeno lo conoscono, ne avranno sentito parlare
da letterati italiani che di Carducci
spicconano quotidianamente l’immagine tra insofferenza e ironia: un po’
quanto accaduto anche al poeta francese (André Gide: ‘Hugo,
hélas!’) ma con una differenza, che Hugo resta nella pelle dei transalpini come
Carducci non è più, da tempo, per noi: forse perché loro sono sempre un po’
robespierriani e massoni anticlericali, noi lo siamo stati per un tempo troppo
breve. Le storie e le antologie della poesia novecentesca italiana aprono
(proprio in polemica anticarducciana) col Pascoli, eletto a primo dei moderni.
Carducci resta di là, l’ultimo dell’ottocento.
Io, dopo aver ballato e bevuto per metà della notte a
Piazza della Bastiglia, il 14 luglio, mi ritrovai a declamare quel ‘Ça ira’ che
da ragazzo mi dava i brividi: ‘Lento sui colli di Borgogna splende/e in val di
Marna a le vendemmie il sole;/il riposato suol piccardo attende/l’aratro che lo
inviti a nuova prole.//Ma il falcetto su l’uve iroso scende…’. Partendo per
Parigi, avevo messo in valigia l’antologia curata da Luigi Baldacci per gli
Oscar Mondadori (1983-1998), di dimensione e peso perfetti per una rilettura estiva. Ottima anche per introduzione e apparati - forse il
meglio che si sia scritto sul Carducci poeta
- peccato che scarti il ‘Ça ira’.
C’è invece ‘Piemonte’, uno dei bersagli preferiti dell’ironia anticarducciana. E in effetti ‘Piemonte’
appare una oleografia costruita su temi d’obbligo, un catalogo di luoghi comuni
incastrati uno sull’altro con zeppe
retoriche. Nulla che possa sollevarla nel cielo della lirica pura, ‘moderna’.
Ma in quest’ode tanto irreparabilmente scolastica c’è un ritmo, anzi un suono
(proprio un suono, percepibile nettamente ad una declamazione) con “immagini sonore” grandiose - come dire?, alla
Fattori, alla De Carolis - che sotto i
nostri occhi si muovono e vivono. Tutto un vedere che prelude, buttiamola lì,
al cinematografo. E, in questo, c’è
poesia autentica. Come in Hugo.“
Così iniziava un mio articoletto inviato da Parigi,
in un’estate di alcuni anni fa, a una rivista letteraria italiana cui collaboravo.
Sono righe non così lontane nel tempo, e
il giudizio su Carducci non si sollevava
dal cliché critico corrente all’epoca.
Non so quanto il cliché sia cambiato, da allora, ma forse il criterio di
una mia rilettura è diverso. Mi ci fa riflettere un robusto saggio sul poeta recentemente uscito per le
edizioni Salerno, sempre attente alle
biografie letterarie: “Francesco Benozzo, ‘Carducci’, pagg. 298, 16 euro”. Docente di filologia romanza ma anche musicista e poeta, Benozzo lavora con
passione e acribia, in particolare, nel difendere e ripulire il poeta dagli
“stereotipi critici che hanno appiattito
e museificato, a partire dalle antologie scolastiche, la sua immagine”...”Pre-digerito
e ri-presentato come poeta-professore monolitico e dal profilo riconoscibile e
tranquillizzante, egli fu invece - avverte Benozzo - personaggio irregolare,
caratterizzato da sfaccettature
molteplici, lacerato da contraddizioni e incoerenze” e, pur nella inderogabile fedeltà
ai suoi ideali profondi, “ tormentato da continui conflitti con se stesso” (...e
saranno le “eterne risse” che il poeta evoca in “Davanti a San Guido”...) . Benozzo
rivendica al Carducci - giustamente - il
ruolo di intellettuale di alto profilo per i vasti, profondi e - nonostante la
stroncatura crociana - originali studi letterari e filologici che il professore
di Via Zamboni 33 - l’Ateneo bolognese -
coltivò assiduamente. Mi pare però di poter dire che al centro della sua
attenzione non vi sia la questione
critica che a me pare essenziale, la domanda circa il significato della poesia
di Carducci nell’attuale panorama culturale e anche strettamente poetico.
La critica carducciana è, anche quando positiva,
sempre carica di riserve, di cautele, di distinguo, di sottili antipatie. Forse è per questo che
Benozzo se ne tiene un po’ alla larga (ne riporta pochissime citazioni). In piena indipendenza e
scioltezza di giudizio, dunque , Benozzo può sbilanciarsi fino ad attribuire
alla produzione carducciana un carattere
di modernità e vitalità quando, a complemento del “tormentato” (o anche de
l’”inattuale”, su cui Benozzo insiste) ,
inserisce la definizione di “sperimentale”. La ritroverò nella introduzione di
Baldacci alla sua antologia. Sperimentale, Carducci? Ma non era, secondo una
famosa definizione di Croce, il “poeta della storia”, e dunque già lui un po’ responsabile
della sua postuma imbalsamazione dentro ad uno stabile, immutabile cliché?
E’ sferzante, Benozzo, quando parla di questo cliché
pedantesco e ufficiale, appiccicato all’aulico professore universitario con una “operazione di addomesticamento” mirante a proporne, tra istituzioni
scolastiche e scelte antologiche
“parziali e tendenziose”, una immagine
“ecumenica e conciliatrice”. Una
“deplorevole azione di chirurgia plastica” , di cui anch’io provai i soporiferi
effetti: il Carducci che più mi è sottopelle
è il Carducci imparato a memoria per
obblighi scolastici, anno dopo anno. Credo che fosse lui, allora, il poeta più
letto nelle scuole, assieme al Pascoli della “Cavallina storna” o al Leopardi
del “Sabato del villaggio”. Dei tre
stereotipi, nessuno ha retto al vaglio del tempo. Chi dei tre ha più guadagnato nel
riposizionamento critico è però,
curiosamente, Pascoli: al di là della cavallina storna delle antologie
scolastiche, Pascoli è indicato come la porta, o la sottile fessura attraverso la
quale passano la modernità linguistica e la cultura del decadentismo, proprio
in contrapposizione con la cultura e la poesia di Carducci, attardato
postromantico.
Lo spartiacque tra i
due poeti è tuttora, pur limato da revisioni
e puntualizzazioni, un punto fermo della
critica letteraria. Di fronte all’esibita
(quanto - ora lo sappiamo - supposta) salute e sanità dell’imbalsamato Carducci ecco la altrettanto esibita malattia del Pascoli, di quel suo fanciullino che si
ritira dal mondo, si chiude tra le
dilette, piccole myricae, evocate con una sottile voce vibrante di singhiozzi e
suoni arcani: il poeta romagnolo non è sano, è malato, malato di una malattia -
la décadence - penetrata profondamente
anche nel novecento letterario (e oltre). La “modernità” di Pascoli è in
questa sua - alla francese - “morbidité”,
la morbosità che portò Croce a non
amare la poetica del fanciullino,
certamente non freudiano né hillmaniano ma regressivo, “che dà ragione - osservava Contini - della “discesa
della percezione sotto la soglia della coscienza comune” e di un
“plurilinguismo che può includere anche l’onomatopea e in genere il linguaggio
inarticolato”: fenomeni propri - osservo io - di una situazione esistenziale
anche “borderline”, al limite dell’afasia neuropsichiatrica. Ne sarebbe presto seguito, in una
consequenzialità strenuamente teorizzata, l’abbandono della metrica tradizionale,
bollata come convenzione coatta che ostacola una sincerità inseguita e
perseguita fino all’estremo dell’automatismo
surrealista. Tutto bene, ma restando ancora provincialmente lontani, ahimè,
dalla sarcastica spinta del Queneau che
teorizzava “de prosodie impaire et de
vers-librisme ...” (“Le
vol d’Icare”, 1968).
L’adesione alle categorie estetiche e culturali della poetica postpascoliana (postmallarmeana,
post-surrealista) elevate a canoni universali ed eterni, metastorici, fa sì che
la poesia italiana contemporanea si sia piuttosto chiusa su se stessa; schemi
estrinseci, sovrapposti per sola pulsione ideologica, le vietano il contatto con il corpo delle cose, con la realtà, l’evento
più o meno storico o cronachistico.
Tradendo, senza rendersene conto, le
ragioni stesse su cui dice di fondarsi e di volersi giustificare, si
riduce per lo più ad uno scivolare vischioso sulla superficie, a un farfugliare
sull’immediato che teme e rifugge l’avventura, l’esplorazione
del mondo ma anche del sé: tra quelle righe l’inconscio non corre nessun
rischio, siamo lontani anche dal fanciullino pascoliano - che
un po’ nevrotico lo era davvero - e figuriamoci da Rimbaud, il Rimbaud-pellicano
che si lacera il petto per nutrire i suoi figli (i versi, in questo caso): “Il
s'agit d'arriver à l'inconnu par le dérèglement de tous les sens. Les
souffrances sont énormes, mais il faut être fort, être né poète, et je me suis
reconnu poète”. Il concetto crociano - bellamente rifiutato in sede teorica!... - della
poesia come lirica pura viene qui diligentemente
applicato come formula, forse come alibi per
nascondere una inerzia intellettuale. Contratta, intimidita, socializzata e casalinga, la
poesia contemporanea italiana diventa
ripetitiva, monocorde e monotona. Obbligatoriamente prosastica, scarsa
di immagini, di sonorità, di una qualunque evidenza. Plumbea, a volte anche lutulenta. Addirittura compiacendosene, si perde nel gratuito (il fanciullino è un
Peter Pan che sfugge alle responsabilità, no?). Dopo aver sperimentato e
adottato un bel po’ di canoni estetici della più diversa origine, non ha ancora
un suo “status” riconoscibile. Non lo vuole, ne ha paura.
Da questa situazione di
indeguatezza (e inutilità?) viene recuperato - ma resta sotto esame - Dino
Campana, si salva Amelia Rosselli -
baccante sfrenata nella cui psiche ferita l’automatismo verbale è conseguenza di una profonda sensibilità per i conflitti,
di una sofferta, reale dissociazione - o il Penna dall’erotismo compulsivo e fuorilegge,
mentre gli “sperimentali” (“neosperimentali”?) Sanguineti, Zanzotto (o il carissimo e amatissimo Adriano Spatola,
che dello sperimentalismo fece ragione di vita) sono pur sempre epigoni di Pascoli, anche se imprigionano
il suo fanciullino in una rigorosa ed
intellettualistica afasia schizofrenica, scoperta e compiaciuta, da primi della
classe. Tutti costoro, comunque, si ritrarrebbero schifati se qualcuno facesse
loro il nome di Carducci, mentre di sicuro parecchi hanno scritto il loro bel
saggetto sul Pascoli, efficacissimo per l’ingresso al club dei poeti ammessi. L’unico che tenti la presa diretta sulle “cose”, rifacendosi peraltro - al di là
degli omaggi formali che gli vengono porti da ogni parte - al magistero dantesco,
è Pasolini: e infatti, se non altro per la “retorica”, a Carducci si avvicina,
a volte.
L’osservazione vale per
la poesia italiana che dipende - anche se inadeguatamente - dal magistero
francese di Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé e, forse, Valery, filtrati - appunto
- attraverso il fanciullino pascoliano e, poco dopo, attraverso l’accademia
dell’ermetismo. Per fortuna, queste categorie non hanno valore universale: la poesia anglosassone, inglese come
americana, ha conservato il gusto per la “narrazione” piena, per la corposità
del reale e dell’evento, anche con Eliot
(figlio non di Baudelaire ma di
Laforgue) e con i più recenti Seamus
Heaney o Tony Harrison in Inghilterra, con Pound, Robert Lowell, ma anche i “beat” - tra Ginsberg e Gary Snyder - o il recente Frank O’Hara in America (per quel
tanto che ne conosco, almeno). Qui basti
ricordare specificamente Harrison, con il suo realismo, il suo gusto per
la satira, l‘osceno, il concreto insomma, in un “impasto - vedi la prefazione a
una antologia einaudiana (“V, ed altre
poesie”, a cura di Massimo Bacigalupo, 1996) - di
violenza, sentimento, critica sociale, rappresentazione teatrale” di cui non
trovo riscontro in Italia se non,
ancora, in Pasolini. Anche la poesia anglosassone ha il suo antidoto al
gursto troppo narrativo: ma non è Baudelaire o Mallarmé, è Emily Dickinson.
La nostra poesia di
oggi, anche nelle sue formulazioni teoriche, è poesia di soggetto - di un riluttante soggetto che non affronta il
gran tema della soggettività - non di
oggetto. L’oggetto, se vi appare, è sotto forma di narrazione prosastica, su moduli ripetitivi e, soprattutto, anodini,
non caratterizzati. Questa poesia respinge la caratterizzazione, non conosce
l’oggettivazione, nemmeno nella formula eliotiana del “correlativo oggettivo”
che nomina, o evoca, una cosa la cui presenza stimoli la nascita di una
emozione: per Eliot, cogliere i correlativi oggettivi di un'emozione è l'unica via per renderla letterariamente.
La poesia contemporanea italiana invece resta volutamente immersa nella più
umbratile emozione. C’è, sotto questa forma, una formula teorica, per la quale
la poesia ha come sua funzione e modalità quella, appunto, di cogliere l’emozione nella sua estrema purezza,
nel suo primo spontaneo nascere. In questa teorizzazione si intrecciano un
certo gusto del “primitivo”, una pedissequa ripetizione di una lontana illuminazione
surrealista, la convinzione che l’arte sorgiva del bambino – del fanciullino - sia l’arte più vera e sincera. Forse, mentre
ci si aspettava di essersene liberati per sempre, siamo di nuovo in una “retorica”.
Si ripete qui un po’ la
situazione, il contesto che il giovane Carducci si trovò ad affrontare e cui si
ribellò, di uno sfatto sentimentalismo romanticheggiante, estenuato e senza
forma. Carducci reagì aggrappandosi ad un classicismo formale e letterario,.
Quel classicismo pedantesco, libresco e fumido di lucerna finì però,
straordinariamente, con l’incontrare e interpretare un aspetto specifico ed
importante del decadentismo europeo, quella sua ricchezza di stilismi e stilemi
linguistici che la critica ha bollato (o esaltato, secondo il punto di vista)
come “artificio” o, come osserva Walter
Binni nella “nota” premessa alla antologia del Baldacci, “compiacimento
tecnico-stilistico”, oppure anche, nel suo famoso saggio sulla poetica del
decadentismo, materiale “eloquente” più che “poetico”. Con tutta la cautela
possibile, io il classicismo carducciano lo metterei in parallelo con quello
che ci rievoca un certo Flaubert, forma specifica dell’ “esotismo”; o, con
maggiore pregnanza , con quello che sostanzia la pittura di un non
disprezzabile (e oggi “recuperatissimo”) Alma Tadema (1836-1912) il pittore al
quale, e alla cui scuola, venne dedicata nel 2007, al Museo Archeologico Nazionale
di Napoli, una grande mostra intitolata appunto “Nostalgia dell’Antico”: anche
qui, dell’”antico” inteso come “esotismo”. Il clima del tempo era quello, diffuso e
nutrito di certezze progressiste (classicismo contro spiritualismo
cristiano...), perché Carducci avrebbe dovuto sottrarsene? E quel clima non
viene oggi considerato un binario non secondario della modernità , parallelo a
quello messo in atto dall’impressionismo
francese? Certamente, Carducci guardava più alla Germania che alla Francia,
frequentava Heine e Platen più di Baudelaire (e, nel caso, più Hugo che
Baudelaire), secondo una deriva intellettuale usuale ai suoi tempi. E’
possibile anche che il poeta maremmano non
fosse adeguatamente consapevole del significato teorico di questo suo
classicismo decadente ma, almeno a mia conoscenza, credo che solo Huysmans, Baudelaire
o Maeterlinck avessero chiara
consapevolezza critica del proprio operare. Mi pare si possa dire che la
coscienza (o autocoscienza) della decadenza, del “decadentismo”, si presenti inizialmente
in forme frammentarie e disorganiche in questo o quell’artista. Come dire che,
alla fin fine, Carducci poté essere un precursore, e proprio per questo non
consapevole pienamente della direzione dei suoi passi. La tesi è plausibile anche se respinta dal
Binni, per il quale Carducci non fuoriesce mai dall’estetica (e dall’etica) romantica.
.
Poeta molto “formale”
dunque, Carducci, sul piano della lingua
e degli stilemi ma, per una delle contraddizioni che formano la sua
personalità, anche poeta della cosa, della realtà. In primo luogo, la realtà “storica”, inseguita ed esplorata appassionatamente.
La storia è (qui Croce ha ragione) il suo habitat, la location preferita: la storia antica, la medioevale, la
contemporanea. Ma senza il filone storicista che corre dal Foscolo (“Italiani,
vi esorrto alle storie!”) al Manzoni
filologo del seicento, al Settembrini e al De Sanctis, il Risorgimento non
sarebbe stato. L’Italia nasce e prende corpo e volto sulle sue icone storiche.
Perché stupirsi? Tanta della lirica storico-patriottica del Carducci si muove
nella stessa direzione della pittura storica del suo tempo, se non come il ben
più drammatico Fattori almeno come i Pietro Aldi o Amos Cassioli degli
affreschi a Palazzo Pubblico di Siena. E, in fondo, anche Delacroix dipinge
allegorie, fantasie storiche, epos del suo tempo (“La libertà guida il popolo”,
1831).
Il discorso può
allargarsi, in Carducci oltre la storia c’è la geografia, il paesaggio del
presente. Potremmo farlo discorrendo della questione di una pittura italiana e
del suo rapporto con il processo unitario. A Firenze, nel 1861, la prima Esposizione Nazionale
Italiana avrebbe dovuto apporre un
sigillo iconico al progetto politico-culturale dell’Italia unificata ma, per
quanto riguarda la pittura, fu un insuccesso perché, a seconda delle regioni, vennero
messi in mostra “ora il formalismo di matrice accademica, ora le novità della
corrente realista, ora i generi apprezzati dalla borghesia”. Siamo di fronte ad
una ricerca variata quanto sincera.
Invece, per la critica moderna del primo Novecento i nostri artisti ottocenteschi
non erano riusciti ad allinearsi alle innovazioni francesi; ovviamente, in
primo luogo, all’impressionismo. Nel
1937 Roberto Longhi, stabilendo un “bilancio fallimentare dell’Ottocento
nostrano”, augura metaforicamente la buona notte “al signor Fattori”. Non sembra
di sentire qualche critico letterario mentre parla di Carducci, poeta sì, ma con riserva? Anche in questo settore si ripete insomma (a scapito innanzitutto del Carducci) lo
schema della stroncatura novecentesca, condita di disprezzo e ironia. Se si
guardasse con un po’ più di attenzione ci si accorgerebbe invece che pittura e
poesia (carducciana, si intende) marciavano in parallelo, consapevolmente, per
darci il volto reale, vero, del
paesaggio e dell’umanità italiana del tempo, nella sua complessità e varietà.
La “Raccolta del fieno in maremma” di Fattori (1867) è la splendida traduzione
visiva del “pio bove” ma anche ci suggerisce lo sfondo dei cipressi di Bolgheri;
così come un Segantini ci porta dinanzi agli occhi il “Mezzogiorno alpino”
(“Nel gran cerchio de l’alpi...”, con quel che segue), e un nebbioso De Nittis
londinese ci rende perfettamente l’atmosfera di “Alla stazione, in una mattina
d’autunno”. E non dovrebbe essere neppure difficile scoprire tra i versi di Carducci un
tocco (impressionista) di immagini affocate come un Turner.
Con l’epopea risorgimentale
l’Italia si unifica ma subito si divide in segmenti - segmenti geoculturali
- ciascuno alla ricerca di se stesso, della sua specifica rappresentatività”:
in ritardo sociologico rispetto alla borghesia parigina, a Milano la Scapigliatura
cerca comunque di aprire un discorso
sulla modernità all’europea; a
Castigliocello, ospiti dell’assolato casale
di Martelli, i macchiaioli rinnovano,
sottoponendolo a una lucida critica “politica”, il portato del Quattrocento
toscano; a Napoli fiorisce una cultura che rielabora il classico pompeianesco e,
con Gemito, lo declina verso Rodin,
mentre un folklore di consumo si solleva
a kitsch mitteleuropeo con Fortuny o Michetti. Esplode il “caso” Sicilia, che alla fine si accamperà,
con i suoi miti ctoni (la
“sicilitudine”), quasi al centro della vicenda letteraria e culturale italiana,
mentre l’isolata Trieste mette potentemente
a frutto le sue radici austroungariche
ed ebree volgendole decisamente verso
l’Italia se non addirittura verso Firenze.
Infine, un Liberty non del tutto liberato dalla tradizione italica non può
ignorare il peso della arretratezza sociologica di un paese rurale - con solo punte di efficace innovazione
(Expo Torino 1912) - e si intreccia a un verismo declinato verso il
regionalismo e il naturalismo.
In questo complesso mosaico delle cento Italie,
Carducci parte dal classicismo toscano per
immedesimarsi con la avventurosa mitopoiesi risorgimentale o postirisorgimentale.
Ma finisce anche per approdare con accenti solitari nel cuore di una Europa che
comincia a sentire la crisi della tradizione e dei suoi valori, e con
i suoi metallici versi barbari si muove ad incontrare quasi un Mallarmé. Seppur stremato, svela anche la sua anima tardoromantica, se
non proprio decadente: “Alla stazione, in una mattina d’autunno” ci propone, come uscendo da un fumido
dipinto londinese di De Nittis, il tema
della donna, l’amante, che se ne va, salendo sulla “vaporiera” (è un Carducci un
po’ “preraffaellita”, restio alla terminologia dell’uso), il simbolo della
modernità che irrompe. Benozzo allinea paralleli con altri scrittori e poeti
che trattano del tema del treno con tutta la sua simbologia. Non ricorda però un brano letterario peraltro
famoso, che si muove sui due temi della poesia carducciana: parlo di quella
Anna Karenina che si suicida buttandosi sotto un treno, sorella più drammatica
della dama che, nella poesia carducciana, si limita a scomparire , con la “bianca faccia” e il “bel velo”, “nella
tenebra” di un lacerante addio. Carducci è partecipe di questo drammatico e
sconvolgente processo culturale, e lo rispecchia nei suoi versi. La “modernità”
, che a
Parigi poté apparire come il
naturale portato di una evoluzione sociologica preparata e sviluppata in tempi
lunghissimi e dunque sentita come inevitabile, era in Italia un concetto
lontano, un miraggio dai contorni confusi, che occorreva definire
“in progress”: dunque, a fatica.
Nell’elaborare una possibile risposta ai quesiti
posti dal suo tempo, Carducci arrivò anche a penetrare in un altro risvolto,
più difficile e non sempre affiorante alle coscienze, il risvolto della crisi
del linguaggio che si avverte nella poetica europea del secondo ottocento, una poetica
della dissonanza: è la poetica di D.G. Rossetti (“...watered with the wasteful
warmth of tears...”) come di G.M. Hopkins, per quel che ne conosco. O, poco
dopo, di un Mallarmé , come anche, certamente, di Pascoli. Così, alla fine, Pascoli
e Carducci sono, in Italia le due soluzioni possibili di un attualissimo problema
linguistico e musicale. Nei loro due
differenti esiti - le Myricae come le Odi Barbare - rispondono agli
interrogativi della modernità incalzante . Sarei quindi un po’ diffidente della
usuale risposta che viene data alla questione del rapporto dei due poeti col
loro tempo: Carducci l’ultimo dell’ottocento, Pascoli l’innovatore, colui che
apre le porte della modernità.
Ma, alla fine, potremmo anche accettare la definizione
di Carducci come l’ultimo poeta dell’Ottocento. Perché no? L’Ottocento è stato,
per l’Italia, un gran secolo, un secolo di sperimentazioni e rivoluzioni culturali
e politiche, con scontri di altissimo livello tra classi dirigenti contrapposte
o non compiutamente convergenti, intorno a progetti e verso obiettivi ignoti,
difficili, inaspettati e mai prima incontrati, che si venivano determinando, chiarendo
e affinando, dinanzi ai loro occhi e alle loro menti solo un secondo prima della loro
realizzazione. “Abile ad inserirsi sulle principali tendenze culturali
nell’arco di vari decenni” (Guido Capovilla, in”Storia della Letteratura
Italiana”, Vol. VIII, 2005), Carducci coglie
la tumultuosa complessità del secolo e tenta di restituirsene - a se stesso,
innanzitutto - il senso, o un senso. Fu una impresa, data la materia, ardua, ma avvincente,
degna di un intellettuale “tormentato” e “inattuale” ma anche, a pieno titolo, poeta “sperimentale”. Benozzo titola l’ultimo capitolo del suo
saggio: “Leggere Carducci al di là del carduccianesimo”. Penso che l’importante
massa di documenti sciorinati e i tesi ragionamenti che li accompagnano e
spiegano sarebbero meglio collocati sotto un titolo un po’ diverso: “Leggere finalmente
Carducci, al di là dell’anticarduccianesimo”.
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