martedì 20 dicembre 2016


L’AMBIGUA  STORIA  DEL  PROPORZIONALE
da "Il dubbio", 20/12/2016


Allora, torneremo al sistema elettorale proporzionale? A un bel sistema proporzionale esplicito e dichiarato, senza gli equivoci e i sotterfugi del pasticciaccio in vigore? E’ possibile, forse anche probabile, la voglia è diffusa e fortissima (“...ci siamo, tranquilli...”, Giuliano Ferrara, “Il Foglio”, 14/12/2016), (“...la prossima legge elettorale rischia di essere...più proporzionale di tutte le precedenti”, Antonio Polito in una analisi politologica peraltro non proprio inappuntabile , “Corriere della Sera”,  14 dicembre 2016). Un cammino da gambero, ma sarebbe sbagliato  - oltre che inutile - prendersela (Riccardo Magi, “L’Unità”,13/12/2016)  con la “retorica” proporzionalista e i suoi “proseliti” di destra come di sinistra, sempre attenti a garantirsi perché tutti (o quasi) i 23 partiti e partitini tra cui si distribuiscono possano arraffare un seggio (almeno) in un parlamento  fatto a spicchi  come  un panettone.  La faccenda è molto più seria, ha una storia lunga, puntuale e ferratissima nelle sue motivazioni e ragioni.
Il proporzionale venne introdotto in Italia nel 1919, dal governo Nitti, su pressione del Partito Popolare Italiano - il neonato partito dei cattolici - e del Partito Socialista Italiano. Rispetto alla legge elettorale vigente dal 1912, la nuova normativa estendeva il diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 21 anni o avessero prestato il servizio militare. Il sistema tradusse in forza parlamentare il consenso delle due organizzazioni politiche di massa, che nei collegi uninominali si trovavano  in difficoltà di fronte ai candidati liberali, radicati sul territorio e quindi ben conosciuti, attraverso non la propaganda  ma il contatto diretto. Con questo cambiamento il voto non andava più al singolo, all’uomo, al candidato, ma all’anonimo partito che lo aveva designato. Non sono pochi quelli che hanno osservato come, alla fine,  dell’innovazione si sia giovato soprattutto il Partito Fascista, con la sua spregiudicata e aggressiva propaganda.
Il metodo proporzionale era stato inventato in Francia, nel 1846,  per favorire lo sviluppo dei partiti, da Victor Considerant, un acceso fourierista e socialista estremo, politico e saggista di rilievo. Il meccanismo da lui disegnato puntava a far nascere una Assemblea che esprimesse il più fedelmente e, per dire, il più fotograficamente possibile, l’immagine dell’insieme del corpo elettorale. Nato per favorire il voto delle nuove masse urbane e operaie, poco o nulla rappresentate da sistemi che privilegiavano invece ricchi e potenti, il proporzionale è dunque strettamente legato alla storia dei grandi partiti “moderni”. In Inghilterra, dove pure le masse operaie venivano acquistando un non meno forte peso, non attecchì: il sistema uninominale britannico seppe adeguarsi alle nuove necessità, in un equilibrio che mentre non ostacolava la crescita civile delle masse (basti pensare, ovviamente, al Partito Laburista) fece sì che i partiti non abbiano prevaricato coi loro apparati burocratici. In Inghilterra, il premier è anche il leader indiscusso del suo partito, l’applicazione in Europa (e particolarmente in Italia) del proporzionale ha fatto sì che il segretario del partito abbia un peso politico superiore al deputato, che non è più il rappresentate della “nazione” senza vincoli di mandato,  ma un anonimo portavoce del suo partito, e per lui si prospetti persino (accade oggi in Italia, su sollecitazione di Berlusconi) il “vincolo di mandato”. Il  deputato è - in quanto tale -  sempre più un numero, non una personalità idealmente legata ad un rapporto fiduciario con i suoi elettori. Anche il capo del governo ha un rapporto ambiguo con il segretario del partito.
Via via, il proporzionale è venuto degenerando, grazie alle sottigliezze di un ragionamento teorico formalmente ineccepibile. Se il sistema elettorale deve “rappresentare” il più dettagliatamente possibile tutte le tendenze politiche - ma anche culturali e magari religiose - la conseguenza sarà lo sgretolamento progressivo, l’adattamento coatto del sistema alla più variegata molteplicità di soggetti,  ciascuno dei quali richiedente un suo adeguato spazio, una adeguata fettina del panettone parlamentare. L’obiettivo di Considerant era di compattare il più possibile la rappresentanza attorno ai partiti di massa e alle loro ideologie creatrici di identità collettive; il risultato finale è esattamente l’opposto, lo spappolamento elettoralistico in nome e per conto di identità spesso inesistenti, evocate con l’obiettivo, appunto, di guadagnarsi una fettina del mercato elettorale. La conseguenza, ovvia, è la debolezza del governo, preda  sovente di posticcie e labili “coalizioni” e ostaggio di un molteplicità di poteri  di veto. Secondo Polito, il formarsi di coalizioni spesso del tutto eterogenee ha dato origine, almeno in Italia, ad un leaderismo fragile e ricattabile: il che è vero, tenendo altresì presente che una coalizione eterogenea è di per sé instabile e inaffidabile; nulla a che vedere con la variegata complessità dei partiti anglosassoni, tenuti saldamente assieme dalla norma etico-politica di fondo secondo la quale al centro del sistema c’è l’esecutivo, non il parlamento. Questa norma impone compattezza sia al partito di maggioranza  dietro il suo leader (il premier) sia all’opposizione e al suo governo-ombra.  
Tra i  critici nei confronti del proporzionale Magi  cita Luigi Einaudi il quale, nel 1946, ammoniva che esso, “moltiplicando i partiti, favorisce il trionfo non delle maggioranze ma delle minoranze” e, mentre “irrigidisce” i partiti sempre più arroccati su quella pretesa di identità che viene invocata per giustificare il meccanismo, non fornisce “la valvola di sicurezza contro colpi di mano”, “come quella – ricorda Magi – del 1922”. Avrebbe anche potuto  menzionare  Pannella, con la sua “Lega per l’Uninominale”.  Peraltro, non ha nemmeno senso l’appello rivolto da Magi al PD  perché ritorni alla sua “vocazione maggioritaria”  e respinga “l’algebra proporzionalista condita con una spruzzatina di maggioritario”. L’invocazione non è valida, per il semplice motivo che il PD è anche esso un partito frammentato e disgregato tra correnti, personalizzazioni e scismi che possono far prevedere scissioni anche formali (né sarebbe la prima volta che ciò accade, sempre in nome dell’ ”unità delle masse”...).
Non si può avviare un discorso serio sul tema del sistema elettorale, sbandierare il nobile obiettivo di reitrodurre l’uninominale maggioritario , facendo riferimento a forze che sono anche esse ormai  “dentro” il sistema politico-istituzionale: se si vuole davvero che, attraverso una profonda, rivoluzionaria  riflessione storico-teorica-politica, si possa ritrovare il cammino verso una democrazia coerente e rispondente ai canoni su cui essa può reggersi e prosperare, vale a dire il chiaro rapporto tra candidati ed elettori, occorrerà  collocarsi sul fonte intransigentemente alternativista, e da questa sponda avviare una - pur essa intransigente - polemica ed una coraggiosa iniziativa di respiro transnazionale. I radicali pannelliani denunciarono la crisi delle nordiche socialdemocrazie novecentesche  ammonendo che il “socialismo in un solo paese” è una sciocchezza, oggi ci dicono che la democrazia non si salva in un solo paese, l’Italia o qualsasi altro si voglia scegliere. A suo tempo proposero  la creazione di una “Organizzazione della e delle Democrazie”. Non riuscirono, ma la via non può essere che questa.




lunedì 21 novembre 2016

Ho disponibili molti numeri (anche alcune annate complete) del "N.Y. Review of book" e del "Times Review of books", per gli anni 1990.2000 circa. Disponibile a donarli, senza spese per me.

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da "Il dubbio”, 09/12/2016

Che ne  faremo della sinistra (non solo italiana)?

Le dimissioni di Matteo Renzi e - in parallelo - il gran rifiuto  di Franҁois  Hollande  sono vicende  molto diverse tra loro, nel  testo e nel contesto.  Ma qualcosa in comune lo hanno:  segnano l’uscita di scena  di due esponenti di primo piano di una sinistra comunque maltrattata e agonizzante,  se non morta e cancellata dalla cronaca ma fors’anche dalla Storia. E si parla non solo della o delle sinistre europee. Secondo Aldo Cazzullo (“Corriere della Sera”, 3 dicembre scorso), “il crollo della sinistra mondiale è pressoché completo”, dall’America  che boccia il neo-keynesiano Sanders come il “liberal” Obama (negli USA  i “liberal” sono la malvista sinistra) alla Spagna di Rajoy o alla Turchia stretta  nel pugno di ferro di Erdogan.  E molto deve dire anche il declino dei socialisti polacchi alla Kwasniewski  o dei  brasiliani Dilma e Lula.  Sempre per Cazzullo, persino la morte di Fidel Castro va intesa  come un tassello della crisi globale  delle sinistre  (e dei loro miti).  
Tutte allo sbando:  da quelle più intransigenti, dogmatiche  e nostalgico/retro a quelle populiste,  fino alle socialdemocrazie rese affabili e duttili dalle varie Bad Godesberg  succedutesi   soprattutto nel  nord-Europa. Naturalmente, la faccenda è triste e provoca comprensibili  rimpianti. Non manca però chi si ostina testardamente  a prognosticare e progettare  un futuro di rinnovamento e ripresa  dei grandi  ideali che hanno plasmato la storia per quasi due secoli: i partiti che li rappresentano o li hanno rappresentati  devono  risollevare le gloriose bandiere, ritrovare la loro identità profonda, cioè  la  difesa e promozione della uguaglianza sociale fino - secondo la componente comunista -  alla scomparsa totale delle classi.  Senza  spingersi così lontano  e anzi in contrapposizione, per Ezio Mauro (“La Repubblica”, 5 dicembre scorso), “ci sarebbe bisogno di una sinistra di governo”, certamente “moderna, occidentale, europea...”. Sul dibattito tra fautori del progressismo livellatore e quelli che auspicano invece la sana concorrenza della deregulation globale, è difficile prendere posizione: economisti e studiosi di ogni calibro e provenienza hanno detto la loro senza mai trovare un punto d’accordo comune, lasciando ai politici e al loro rude pragmatismo il compito di individuare una qualche via d’uscita, magari riesumando il vecchio e disinvolto metodo del  dare un colpo alla botte e uno  al cerchio.
Ricordo però qualche pagina del “Manifesto di Ventotene” che  aiuta a spiegare i problemi delle sinistre. Il “Manifesto” è sicuramente, in molte sue parti, invecchiato e inutilizzabile, ma ricordo bene l’impressione che mi  fece, quando lo lessi la prima volta, l’affermazione che gli Stati nazionali usciti dalla guerra sarebbero divenuti dominio delle sinistre “sindacali” (non ho il testo sottomano, ma credo di ricordare con esattezza questo termine – “sindacali” – per indicare la caratteristica saliente degli Stati usciti dalla sanguinosa prova). A lungo, in Italia fu al governo la DC, e la previsione sul predominio delle sinistre “sindacali”mi parve  non rispondente a verità. Invece, la definizione era  azzeccata. Nel secondo dopoguerra, i sindacati, socialcomunisti o cattolici, hanno goduto di un potere via via sempre più forte, come mai in precedenza. Divennero i protagonisti assoluti di una dialettica partecipativa e cogestionale nella quale erano visti come  controparte privilegiata del governo, qualunque fosse il suo colore. Fu il tempo, nei fatti se non di diritto, del “consociativismo”, in cui un progetto di legge veniva  previamente sottoposto al  beneplacito delle parti sociali, vale a dire i sindacati. Era ovvio che fosse così, il dopoguerra vide  l’esplosione, anche in Italia, di una forte  classe  operaia  legata alle grandi industrie, che trovava come suo punto di riferimento  i partiti di massa, più o meno marxisti che fossero, e alle loro avanguardie, i sindacati. Cose analoghe  accadevano anche in Francia o altrove.  Gli Stati vennero “occupati” dalle sinistre “sindacali”. Una abnorme concezione istituzionale.
Oggi la classe operaia, nel suo complesso, è sparita o ha perso gran parte del suo antico potere. Non è più la marxiana “classe generale”, portatrice ed espressione dei  valori della Storia. E’ dunque ugualmente ovvio che i partiti legati alla dialettica social/nazionale siano in forte declino: non hanno più una funzione specifica da assolvere, né possono vantare responsabilità e doveri  al di là della difesa degli interessi  particolari dei segmenti sociali  che rappresentano (o dicono di rappresentare).  La richiesta di farli rinascere, di ricostituirli o ricostruirli, è fuori  luogo, non ha senso. La vera faglia, il punto di frattura tra conservazione e innovazione, la nuova frontiera tra passato e futuro, è quella tra l’isolazionismo  nazionalista, il protezionismo, l’identitarismo (anche razzista) da una parte e, dall’altra, la flessibilità inevitabile della rivoluzione digitale e dei nuovi lavori, l’internazionalizzazione dei diritti (e dei doveri) civili e umani, l’apertura  verso l’altro, la trasversalità. Le migrazioni sono un fenomeno epocale, che deve essere governato nella sua ricchezza e fecondità, anche con il suo inevitabile meticciato culturale e antropologico.  Dunque, un socialismo possibile e auspicabile è solo quello transnazionale, il socialismo dei diritti dell’uomo 2.0. Gli appelli alla “ricostruzione” della o delle sinistre ingabbiate nei  confini degli Stati nazione sono retorica, indice di una incapacità di vedere e analizzare i problemi del nostro tempo.
Purtroppo, un partito, o partiti che li avvertano e si preparino ad affrontarli non ci sono:  tra la rovina delle vecchie élites e classi dirigenti nazionali, non si sente il vagito di un soggetto politico transnazionale adeguato alla bisogna. Siamo ancora, quando va bene, al tempo delle analisi. Speriamo che non sia una perdita di tempo.


venerdì 14 ottobre 2016

TRUMP? COME RADIO PAROLACCIA
da "L'Opinione"
ottobre 2016


Più di 800 ore ininterrotte di bestemmie, insulti, oscenità,  provenienti  da ogni angolo del Paese. Fu  la trasmissione radiofonica più lunga e volgare della storia: quasi 50mila minuti di sconcezze  trasmesse in 35 giorni da Radio Radicale, ribattezzata per l’occasione “Radio parolaccia”. Era il 10 luglio del 1986, Radio Radicale versava  in gravi difficoltà economiche.  Di fronte a costi di gestione sempre più alti,  era arrivata al punto di rischiare la chiusura. I dirigenti  decisero di sospendere tutti i programmi, per lasciare la parola - senza filtri di sorta - agli ascoltatori: installarono 30 segreterie telefoniche, invitando gli italiani a registrare un messaggio di un minuto con le proprie opinioni sulla radio.  Successe l’imprevedibile.  Attraverso il microfono ininterrottamente aperto, migliaia di sonosciuti vomitarono scurrilità, bestemmie, insulti, in un crescendo che si nutriva e si esaltava di se stesso. Ne uscì un’immagine del paese inedita,  inaspettata, insospettabile.
Chi ricorda ancora quell’incredibile episodio non dovrebbe avere molto da meravigliarsi, oggi,  per le scurrilità profferite da Donald Trump durante i dibattiti con Hillary Cinton o in ogni altra occasione pubblica gli venga offerta. Le sue parolacce, i suoi insulti, le sue battute  sessiste  o antifemministe non sono più volgari o grevi di quelle che uscivano dai microfoni di Radio Radicale. Qualcuno, in quel lontano 1986, cercò una spiegazionedell’insolito evento (allora non c’era il web o i “social”, twitter e affini), la Lega di Bossi doveva nascere (nel 1997 o, secondo alcuni, nel 1995), ovviamente Grillo faceva ancora il capocomico, non il capopolo, e il suo linguaggio sboccato era funzionale al suo lavoro. Perciò i più dei commentatori  misero la trasmissione sul conto dell’ eccentricità attribuita a Marco Pannella, ai radicali e alle loro irridenti iniziative. Mi pare che furono in pochi ad azzardare un giudizio pienamente politico. E invece l’evento radiofonico  se non prevedeva, certo precorreva una crisi socioculturale più profonda e generale di quanto si potesse immaginare. Il fatto che oggi il candidato alla Presidenza della Repubblica Americana, nata dal pensiero di gente di raffinata cultura e comportamenti  come come  Alexander Hamilton, James Madison e John Jay (per non parlare di Benjamin Franklin) possa raccogliere una audience vastissima con  un linguaggio che fa inorridire non solo i benpensanti  è un fatto  incredibile, che trova un paragone – appunto - solo  nel precedente  di Radio Radicale.
 O meglio, sembra che sia così: in realtà anche questa vicenda si colloca in un quadro  assai vasto e profondo, quello della crisi del rapporto tra elites (non solo quelle italiane, evidentemente) e opinione pubblica. Il  rigetto della politica e delle sue classi dirigenti è un fenomeno di portata epocale, che investe soprattutto le democrazie (se non altro perché le dittature e i regimi tirannici sono molto sbrigative nel reprimerlo). E finalmente commentatori, politologi ed esperti cominciano a sospettare che non  sia da prendere sottogamba, perché potrebbe scivolare lungo  derive assai pericolose: qualcnuno è arrivato finalmente a porsi la inquietante domanda se non sia a rischio lo stesso concetto di democrazia,quella che si è plasmata,  come la conosciamo, da secoli.
Per  mero promemoria, vale la pena segnalare che i radicali di Marco Pannella da tempo vanno denunciando il pericolo. E non solo lo hanno denunciato e lo denunciano, ma  cercano quanto meno di individuare i possibili rimedi. Innanzitutto, occorre comprendere quali siano le radici della disaffezione dell’opinione pubblica verso le elites e le loro politiche: per i radicali le ragioni stanno nella inadeguatezza delle Istituzioni statuali in vigore. Basta tornare indietro di poco nel  tempo per ricordare quanto le Istituzioni “nazionali” fossero sentite come “valori” inattaccabili e creatori di consenso, di sentimenti popolari e positivi. “Dulce et decorum est pro patria mori”, scandivano i romani. Oggi, quel sentimento patriottico è scomparso. “Morire per la patria” può apparire un segno di mera follia, le cerimonie sui morti in questa o quella guerra vengono seguite sempre più distrattamente. L’uomo di oggi e di domani si sente molto più apolide, internazionale ecc., che nazionalista. Il nazionalismo dei partiti di destra estrema è solo un riflesso di antiche paure o di inconsci pregiudizi e terrori piuttosto  che indice di attaccamento positivo alla patria, alla terra “natia”, ecc. Sul piano corrente, non sono pochi quelli che osservano come la cosidetta “fuga dei cervelli”, su cui si perdono molte lamentazioni, è semplicemente la ricerca di una opportunità migliore di vita, resa possibile dalla caduta di molte barriere tra i popoli: sarebbe dunque un fatto benefico, positivo, da apprezzare. Il suo interfaccia è nella perdita di “senso” delle elites nazionali, che ancora guardano al passato, e non capiscono il presente e le sue profonde pulsioni.

La gente, contro le pretese di queste ormai vuote e inutili elites si sfoga come può, con con un comportamento riottoso, intollerante, e magari con lo sfottò, la sguaiataggine. Trump si è semplicemente fatto portavoce di queste insofferenze:  nessuno può pensare che quest’uomo stia rivendicando i grandi valori del “Federalist”. Il suo stile è diverso, ma i valori di cui si fa portatore sono – al più - quelli del Klu-klux-klan.

giovedì 11 agosto 2016





HEIDEGGER: L’ANTISEMITISMO E  E LA POLITICA
(da "Il Foglio", 12/08/2016)




E se qualcuno cercasse di persuaderci  che Martin Heidegger, forse l’ultimo filosofo dell’Essere, è pensatore fortemente politico? Inarcherebbero le sopracciglia i suoi ammiratori: “Ecco che ritorna fuori quella storia dell’antisemitismo”. Beh, è vero: la questione dell’antisemitismo di  Martin Heidegger è scottante e controversa. Che il filosofo  considerato tra i massimi se non il massimo  del novecento possa essersi  macchiato di una colpa così infamante appare impensabile, inaccettabile. Fino ad oggi le prove  sembravano schiaccianti, specie dopo la pubblicazione dei primi “Quaderni  neri”, taccuini nei quali  il pensatore tedesco  annotava  le idee man mano che gli si presentavano, senza altro ordine che quello puramente cronologico. I “Quaderni  neri” offrono  testimonianze ritenute  inconfutabili. Oltre a un repertorio di espressioni  ricalcate sulla più volgare iconografia dell’Ebreo avido e“calcolatore” vi  appaiono espressioni  più  pesanti che fanno dell’Ebreo un personaggio metafisico, partecipe, ma in negativo, della “storia dell’Essere”. Ne avevo  già scritto,  sul “Foglio” .
 
Ma è ora in libreria, passata finora sotto silenzio, una raccolta di saggi che si propongono di smantellare le critiche e di dimostrare l’assoluta estraneità del filosofo rispetto a quelle pesanti accuse: F.W. von Herrman – F. Alfieri: “Martin Heidegger. La verità sui ‘Quaderni  neri’ “, 459 pagg., Morcelliana 2016, 35 euro.  Francesco Alfieri è Docente presso la Pontificia Università Lateranense. Difficile riassumere questa ponderosa  silloge che si presenta con l’avallo di Hermann Heidegger e di Arnulf Heidegger, “Amministratore del Nachlass di Martin Heidegger”. I saggi recano altre  autorevoli  firme, quelle di Leonardo Messinese e di Claudia Gualdana.

Di sicuro, le argomentazioni che vi sono offerte sono molto abili e hanno un forte  crisma di credibilità; quello che è meno convincente e a mio avvio inficia le ricostruzioni è che tutti i saggisti puntano a dimostrare come le accuse rivolte a Heidegger  sono il frutto di una sorta di congiura tessuta in perfetta malafede, soprattutto da persone ignoranti di filosofia, al più pennaioli dilettanti.  Né persuade la tesi  secondo la quale i “Taccuini” sono scritture private, che non possono essere poste allo stesso livello di importanza delle grandi opere teoretiche del filosofo. Heidegger  fu sempre esplicitamente molto attento a queste sue riflessioni, seppur  d’occasione,  non sembra le abbia trattate come un “notebook”  per  insignificanti, incidentali appunti.

Ma in definitiva, per quanto sia allettante e appaia attuale, la polemica sull’antisemitismo è , nel quadro di una complessiva analisi (o critica) del pensiero heideggeriano , vicenda secondaria. I saggisti del volume di cui stiamo parlando sono unanimi nel respingere l’idea che il loro filosofo possa essere sottoposto ad una critica “in termini politico-ideologici”  invece  che “in modo puramente oggettivo e scientifico”: per loro, “Il pensiero heideggeriano della storia dell’essere o della storia dell’evento non ha nulla a che vedere con un pensiero politico-ideologico ma è (...) un pensiero fenomenologico-speculativo”. E invece, a mio (modesto) avviso di non filosofo di professione, la filosofia heideggeriana è  impregnata di politica, anche se in una formulazione ellittica, di alto stampo metafisico, e sollecita risposte politiche: anzi, ha storicamente  provocato  forti, seppur  indirette risposte politiche. 

La politicità di Heidegger è nel cuore stesso di tre  suoi temi essenziali: il rifiuto della modernità e della sua tecnica (all’interno del quale trovano posto, forse anche solo per incidens, leconsiderazioni dal tono antisemita); la condanna del  pensiero “inautentico”, legata strettamente alla tesi, centralissima nelle sue opere più importanti, dell’”essere-per-la morte”, un tema  presente in vasti  settori della “destre” estreme d’Europa, con il loro macabro élitismo. La riflessione sulla tecnica è segnata da un profondo pessimismo, dalla convinzione -   del  resto condivisa da altri pensatori, Marcuse e la Scuola di Francoforte,  Hannah Arendt, Hans Jonas, il nostro Emanuele Severino, ma anche  largamente diffusa,  almeno fino a ieri,- nella Chiesa cattolica - che  la tecnica moderna sia manifestazione  della logica nichilistica che pervade e sostanzia  il mondo industrializzato e capitalistico, non – come a me invece sembra -  l’ultimo (teleologico?) sviluppo di quella caratteristica che è propria dell’homo abilis, quella del pollice opponibile e della mano prensile, adatta a maneggiare strumenti e a fabbricare tecnologia,  caratteristica che lo distingue dalla scimmia antropomorfa dalla mano ancora atta ad un comportamento da  arboricolo.

Quante scelte concretamente politiche sono state assunte, in Europa e più latamente nell’Occidente industrializzato e globalizzato, su questa linea, magari contemporeaneamente – e contraddittoriamente - alla richiesta di liberalizzazione delle tecniche di mutazione genetica per  piante di largo uso alimentare? Non è un caso che proprio in Europa, in una cultura che direttamente o indirettamente si  rifà al pensero di Heidegger , si manifesti  la maggiore contrarietà a questa “liberalizzazione” tecnologica.



martedì 9 agosto 2016



PANNELLA: VERSO  UN  DIRITTO ”UNIVERSALE”?
                                                      da l'"Opinione" del 9 agosto 2016

“Diritti civili”, “diritti umani”. Le due espressioni corrono parallele nelle vicende culturali e politiche del XX secolo, a volte anche incrociandosi così da creare qualche ambiguità e indeterminatezza sulle rispettive specificità.  Semplificando, si potrebbe dire che i “diritti civili” sono diritti “storici”, approfondimento e/o correzione -  in senso ritenuto più liberale  -  delle istituzioni di questo  o  quel determinato Paese  già  codificate nella legislazione  positiva, mentre i diritti “umani” sembrerebbero diritti metastorici,  attinenti all’uomo di “natura”, che si muove  e agisce attraversando confini, Paesi, legislazioni positive, ecc.; una figura indistinta eppur viva nell’immaginario universale. Credo che a questa categoria  ci si riferisca con l’espressione “diritti  naturali storicamente determinati”, che ho  sentito frequentemente  ripetere – anche se non era sua – da Marco Pannella. “Diritti naturali storicamente determinati”:  non dunque l’accredito a diritti “naturali” metafisici e a-storici, secondo la formula del giusnaturalismo alla Rousseau, ma richiamo a “principi” che di volta in volta l’uomo, la società, reclama,  in una forma solo formalmente  utopica e “astratta”.  Il diritto alla libertà religiosa va difeso e promosso rimuovendo ostacoli che possano frapporsi - per volontà politica o per insofferenze di tipo fondamentalista -  in un determinato Paese, ma  il diritto alla vita - non sempre evocato e rispettato, purtroppo -  è inteso come universale, metastorico,  prescindente  da  nazionalità, razza o  religione. Ho troppo semplificato? Forse, ma non inutilmente, spero.
Come ho accennato, i confini  tra le due sfere di diritti è a volte vago e uno specifico diritto può essere attribuito all’una o all’altra.  Certamente, però, le lotte per i diritti “civili” e/o “umani”  sono una caratteristica del  xx secolo, la loro fioritura come tema di confronto/scontro  civile, etico ma soprattutto politico può essere fatta risalire ai movimenti per i diritti civili (appunto) nati in America negli anni ‘50.  In precedenza  erano esistiti movimenti o culture che promuovevano diritti (civili o umani) ma si trattava all’inizio, e lo fu a lungo, di formule dal richiamo astratto, generale. La Rivoluzione francese nacque per rivendicare i diritti dell’individuo, eretto a vero interprete dela storia, ecc., e quindi portatore di diritti naturali (tra i quali venne annoverato il diritto alla proprietà privata). Con le lotte di liberazione nate nei campus universitari americani negli anni cinquanta del secolo scorso  vennero invece messe a fuoco esigenze specifiche, molto determinate, le esigenze di libertà e di equiparazione di minoranze fino ad allora non riconoscite, fossero i neri o le donne o gli omosessuali. Il tutto nel quadro della rivendicazione della pace mentre l’America stava combattendo una delle guerre più disastrose della sua storia, la guerra del Vietnam, non sentita come guerra “giusta” ma come residuo di  cultura e di storia colonialista. E non è un caso che l’opposizione più significativa ed innovativa alla guerra fu quella dei monaci buddisti  che si davano fuoco nelle piazze, nudi corpi simbolo di pace con giustizia: da loro e per loro nacque in gran parte il movimento antimilitarista “occidentale”, non comunista ed anzi anticomunista che i radicali pannelliano importarono in Italia.
Le lotte per i diritti civili ed umani hnno per la prima volta messo in discussione e respinto il concetto e la possibilità di un diritto positivo da considerare intangibile.  Con i diritti civili e/o umani il soggetto uomo è venuto prendendo sempre più confidenza con se stesso, rifiutando alle radici la pretesa assolutista del diritto codificato, ma ponendosi a sua “alternativa”. Attenzione: quel che veniva respinto non era lo Stato, come chiedeva, più o meno apertamente, l’individuo illuminista, ma le pretese ingiuste e inaccettabili dello Stato. Allo Stato quei movimenti chiedevano anzi di collaborare, di essere rispettoso, lui, delle proprie leggi, delle leggi dell’umanità. Nei momenti estremi, questa esigenza di un diritto che tenesse conto precipuamente il nuovo soggetto, ha assunto atteggiamenti che hanno toccato punte coraggiosamente e rischiosamente  provocatorie, come ci hanno mostrato in un lontano passato gli obiettori di coscienza della cultura americana protestante, e in tempi a noi vicini le  simboliche foto di rivoltosi che bloccavano con il loro corpo un carro armato. Sono fotografi e celebri – quella scattata nella piazza di Tienanmen, la prima) - che hanno mosso la simpatia universale nei confronti dell’inerme individuo che si opponeva alla anonima forza bruta posta a difesa della legge, della “norma” positiva. Qui parliamo di “soggetto” più che di individuo. L’individuo di estrazione illuminista reclamava alcuni “diritti” generali ma anche generici; Il soggetto/protagonista  delle lotte contemporanee ha quei diritti che si sarà conquistato con le sue forze, esponendosi personalmente, con il suo corpo, simbolicamente affratellato con il corpo del monaco buddista vietnamita. L’individuo illuminista rivendicava diritti in nome dell’umanità, il soggetto contemporaneo si batte innanzitutto perché lui stesso, nella sua persona, possa ottenere quei diritti che ritiene gli competono. Dietro il suo singolare esempio e le sue lotte anche altri potranno godere dei diritti conquistati. Nasce qui, ora, un nuovo rapporto tra il singolo e lo Stato. I diritti (storicamente deteminati...) vengono “contrattati” volta per volta dai due interlocutori, non pregiudizialmente ostili reciprocamente.
Questa prassi è figlia, ci se ne renda conto o meno, di una vera e propria teoria dello Stato e della società, e vede progressivamente ampliarsi la piattaforma delle rivendicazioni. Oggi non è più solo questione di diritti civili da inserire nelle diverse legislazioni, sempre più potente si avverte l’esigenze non solo di nuovi e approfonditi diritti “umani”, ma della collocazione di questi diritti nel quadro di istituzioni nuove, che superino i confini delle vecchie forme nazionali, ma comincino a prefigurare il formarsi di una istituzione  legislatrice “universale”.
Marco Pannella è il politico che meglio ha incarnato le lotte per i diritti moderni.  La campagna per il Diritto Umano Universale alla Conoscenza è l’ultima, adeguata e puntuale risposta ai problemi e alla sfide del nostro tempo globalizzato. Si colloca senza soluzione di continuità sulla scia delle grandi campagne per i diritti civili e umani – per la vita del diritto, per il diritto alla vita - che hanno per oltre mezzo secolo contraddistinto i radicali pannelliani rispetto a tutte le altre forze politiche, individuandoli come unica “alternativa” al regime partitocratico. Al di là dei singoli obiettivi - dal divorzio all’aborto alla responsabilità civile dei magistrati – quei radicali ponevano ogni volta al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica il tema del diritto e dei diritti della persona, nella sua concreta - direi corporea - individualità. Ma perché l’iniziativa, la campagna, potesse efficacemente dispiegarsi, occorreva prioritariamente aprire un confronto con le istituzioni e le strutture dell’informazione: “strappare”  la notizia, costringere all’informazione l’avversario con i suoi “media”, sfidare la diffidente inerzia o l’aperta ostilità delle istituzioni, rivendicando l’einaudiano “conoscere per deliberare”  divenne, per quei radicali, il primo compito da affrontare, il primo dei diritti da conquistare. Era la pratica della attiva non-violenza., essenziale alla teoria come alla prassi di quei radicali, di Pannella.
Oggi questa esigenza è divenuta, persino al di là della presenza radicale, esigenza universale, che si manifesta in forme nuove, anomale, anche insufficienti, debitrici spesso del “web” ma anche contenuto di grandi, tortuosi movimenti di massa che hanno saputo spesso varcare i confini, le barriere tra i popoli e le nazioni. Il Diritto Umano alla Conoscenza è oggi un “prius”, è l’agenda politica centrale, universale, del nostro tempo. Tutto il resto è accademia, fuga dalla concretezza delle proprie responsabilità etiche e politiche.

martedì 19 luglio 2016




I RADICALI VERSO IL CONGRESSO DELLA VERITA’
Da “L’opinione”, 20/07/2016


La polemica divampa, dilaga sulla stampa,  invelenisce ogni giorno di più gli animi di quanti siano interessati alle sorti dell’eredità (e degli ereditieri)  di Marco Pannella. Forse, finalmente,  potranno veder soddisfatta le loro curiosità. Dal 1° al 3 settembre prossimo si terrà il  Congresso (40°, straordinario) del Partito Radicale Nonviolento  Transpartito Transnazionale e in quella sede si tireranno le somme, a partire dalla querelle che divide eredi  veri e presunti del messaggio pannelliano.  Voleranno gli stracci del gossip amati dai giornalisti, ma è sperabile che nell’ (insolita) aula congressuale possano volare anche idee, progetti, visioni, utopie adeguate a quel grande messaggio. Chi vivrà, e andrà al Congresso, vedrà.  Vedrà anche altro: il Congresso offre, al di là delle contese ereditarie ai loro vari livelli, anche un pizzico di novità.  Si  terrà  infatti nel  carcere romano di Rebibbia. A parte due bellissimi convegni di studio  su Ernesto Rossi tenutisi anni fa nel carcere di Pallanza, dove Rossi fu a lungo recluso  ma che ora è stato trasformato in Scuola Superiore per le guardie carcerarie, è la prima volta in assoluto, credo, che il congresso di un partito si tiene in un luogo di pena.
Per me, entrare a Rebibbia  non sarà una novità, avevo visitato quelle celle come deputato, esercitando un mio diritto istituzionale riesumato nella prassi da Marco Pannella e dai suoi radicali. Ovviamente, l’autorizzazione al congresso  è stata concessa, dalle autorità preposte, proprio in omaggio a Marco Pannella e alla sua appassionata  attenzione ai problemi dei carcerati e di tutti coloro le cui vite gravitano attorno al carcere.
Ormai è di dominio pubblico la spaccatura verticale che da tempo lacera la “galassia radicale”. Al di là di possibili intrighi sotterranei  volti all’impossessamento della sigla “radicali”, allo scatenamento di ovvi interessi  personali e particolari, ecc., lo scontro è - o dovrebbe essere - politico. E pertanto  dovrebbe interessare molto l’opinione pubblica, e i mezzi di informazione che la orientano. Da sempre, l’iniziativa politica radicale ha messo in atto, con le sue sfaccettature teoriche e di prassi,  eventi  centrali per l’intera società, non solo italiana. Le battaglie pannelliane hanno spaziato dall’Europa al Tibet, dai Montagnard all’Iraq fino a Mosca o all’ONU, non sempre amata ma riconosciuta come fulcro importante dello scenario politico mondiale. Lungo questi scenari, i radicali di Pannella hanno saputo cogliere i problemi dell’attualità e dar loro una risposta, comunque dare loro una attenzione altrimenti negata. Ora che è scomparso, a Marco Pannella viene dato il riconoscimento di eccezionale  lungimiranza. Ma non si riesce a  (o non si vuole) cogliere il nocciolo profondo del percorso da lui tracciato .

Sapranno i suoi eredi  essere all’altezza? Lo scontro che avverrà a Rebibbia dovrà fornire la risposta. Da una parte ci sono quanti intendono mantenere dritta la barra sulle ultime indicazioni pannelliane, sdipanate lungo un asse non casuale, anzi estremamente coerente: la lotta per una  giustizia giusta ed efficiente; per una riforma, quindi, delle istituzioni giuridiche e carcerarie a partire dall’amnistia e dall’indulto invocati anche, dinanzi alle massime  autorità e istituzioni italiane, da Giovanni Paolo II e da Francesco; per un “diritto” che riconosca i “diritti” di una umanità che si proietta su percorsi antropologici globalizzati, fino  a ieri sconosciuti, in una comunità internazionale sempre più in debito di democrazia e a rischio di implosione  irreversibile;  e infine, per l’ultimo tema  individuato da Marco con strabiliante intuizione e modernità, il diritto “umano” alla conoscenza, un diritto tornato almeno per qualche ora sulle prime pagine dei giornali a seguito delle risultanze della Commissione Chilcot, voluta dal governo britannico per far luce sulla guerra voluta da Bush e Blair.
Questi, a mio avviso, i temi urgenti (e coerenti) su cui Pannella si è tenacemente tenuto stretto e cui il Congresso dovrà dare una risposta. Non sarà facile né automatico che ciò accada,  soprattutto per l’opposizione che ci è coagulata attorno alla sigla di Radicali Italiani, un nucleo di forte resistenza e rifiuto di queste priorità. C’è in loro un abbagliamento, una sorta di cecità che nasconde, nega alla radice le tematiche che furono care a Pannella. Si guarda piuttosto,  con malcelata invidia, alle esperienze grilline portatrici, ad avviso di questi contestatori, di successi  numerici ed elettorali. Per colpire l’eredità di Marco Pannella  si invoca  il ritorno ad una normalità statutaria che cela la volontà di una “normalizzazione” politica ed ideale.
La decisione di tenere il Congresso - dopo anni  di  forzata e sofferta “messa in mora” del dettato statutario che prevede un congresso a  scadenza fissa  -   è stata resa possibile grazie ad una iniziativa che lo Statuto comunque prevede, la  raccolta delle firme necessarie per la tenuta del Congresso da parte di un terzo degli iscritti al Partito da almeno sei mesi. E’ stata una decisione difficile, contestata a lungo da Radicali Italiani che  aveva invece caldeggiato la convocazione di una assemblea con potestà deliberative del “Senato” del Partito, un organismo dalla vita inconsistente come molte delle norme statutarie, vittime di una lunga stagnazione del Partito.  Dopo una tenace opposizione, Radicali Italiani ha finalmente preso atto, con la mozione votata nell’ultimo Comitato Nazionale (svoltosi  a Roma nei giorni scorsi) della legalità della convocazione.  Dunque il Congresso si  terrà – a meno di ripensamenti, di pressioni o di colpi di mano – nel carcere di Rebibbia.  Lì, sgomberato il campo da questi capziosi incidenti procedurali, si vedrà chi vuole davvero proseguire una lotta politica iniziata mezzo secolo fa in nome del  “diritto alla vita” e alla “vita del diritto”. Penso di conoscere abbastanza questo lungo cammino. C’ero dall’inizio.