mercoledì 28 ottobre 2015

L'ANTISEMITISMO FILOSOFICO DI HEIDEGGER
(da "Il Foglio")

In un testo del 1940 - dunque tardo e in piena guerra - Martin Heidegger chiarì definitivamente che il problema dell'ebraismo non va posto sul piano delle contingenti polemiche razziali, ma su quello della metafisica: "la questione del ruolo dell'ebraismo mondiale (…) indaga la specie di umanità che, in assoluto svincolata, sia in grado di farsi carico dello sradicamento di tutto l'ente dall'essere, come 'compito' di portata storica mondiale”. L'ebraismo mondiale, afferma insomma il filosofo di Friburgo, si renderebbe responsabile di un "crimine globale", in quanto punta ad allontanare l'uomo (l'ente) da ciò che lo sostanzia, cioè il "radicamento" nell'essere. Il "radicamento" è per lui un concetto fondamentale. Il "radicamento" di un popolo alla sua terra, al suolo, è il contrassegno - positivo -  della razza. Solo grazie al "radicamento", un popolo-razza (i due termini, in Heidegger, hanno spesso valenza ambigua) ha la possibilità di accedere alla storia dell'essere (Seinsgeschichte, contrapposta alla mera storiografia, Historie) . Tanto più quando il popolo è quello tedesco, al quale è affidato il compito di incarnare quella storia e dunque, nell'oggi, di contrastare la tendenza allo "sradicamento" dei popoli richiesto dalla "macchinazione" della modernità. Questa sradica i popoli dalla terra perseguendo la sua vocazione per quella "vuota razionalità" e  quel "carattere calcolante" - in cui gli ebrei sono maestri - che negano ed odiano la filosofia e la poesia, per Heidegger le due sole forme del pensare pienamente partecipi del disegno storico-ontologico dell'essere.

Questo antisemitismo  non si limita ad essere, avverte Peter Trawny, studioso del filosofo di "Essere e Tempo" (Peter Trawny, "Heidegger e il mito della cospirazione ebraica", Bompiani, 2015, 13 euro) “un pregiudizio antisemita”, quello dell'ebreo "mercanteggiatore, avido, avaro, ben dentro alle trame politico-economiche che avvolgono il mondo". No, per Heidegger l'ebreo è figura (nel linguaggio heideggeriano) onto-storica, metafisica: forse, alla fin fine, lui stesso travolto dal “mammonismo”, la schiavitù a Mammona, l'idolatria del denaro che gli viene comunemente imputata.

Heidegger prese a un certo punto le distanze da Hitler. Attraverso una accurata esegesi dei testi  - in particolare dei famosi "Quaderni neri" - Trawny ricorda come il filosofo fosse venuto via via convincendosi che i tedeschi del suo tempo, insomma i nazisti, non fossero in grado di adempiere con la purezza necessaria ai compiti assegnati al popolo tedesco, ormai divenuto anche esso vittima della "macchinazione" della modernità tecnologica, espressa in primo luogo dall'"americanismo" e la sua "cultura di massa nichilista". Nei confronti di Hitler Heidegger avrebbe anzi provato una "delusione" presto seguita da una "reazione filosofica vera e propria". Trawny ipotizza che il filosofo possa aver manifestato contrarietà e avversione per le leggi razziali emanate nel 1933 a Norimberga. Non manca comunque di notare il carattere ambiguo di un pensiero che oscilla tra l'assolutezza del rigore metafisico e l'occasionalità della considerazione meramente storico-storiografica.

Abbia aderito o meno al nazismo, sia stato o meno influenzato dai vergognosi "Protocolli dei Savi di Sion" - il pamphlet che è alla base di molto antisemitismo - Heidegger partecipa pienamente al collasso irrazionalista dell'Europa continentale del suo tempo, con il suo sostanziale totalitarismo ed odio contro la democrazia e gli ebrei: se non è antisemitismo, come vorremo chiamarlo?

giovedì 1 ottobre 2015



QUEL BISCHERO DI NONNO BETTO
(da "Il Foglio" del 26 settembre 2015)

Mio nonno materno si chiamava Benedetto, ma era toscano e quindi si ritrovò subito, appiccicato, un soprannome, o meglio un diminutivo: Betto. Come Betto l'ho conosciuto anche io, lo frequentai di più quando era ormai vecchio e viveva a Roma. Era piccolo e segaligno, portò per tutta la vita un piccolo baffo sotto il naso, un po' come quello di Hitler. La sua vita l'aveva passata nel paese nativo, un paese del contado senese, Chianciano. Di Chianciano, per pochi mesi, nonno Betto fu anche, agli inizi dell'altro secolo, sindaco. Sindaco socialista, per la precisione, Chianciano è stato sempre un paese rosso, credo lo sia ancora, come penso sia la maggior parte dei paesi e paesini toscani.  Era il rosso di quando - raccontavano - il 1° Maggio il popolo, tutto il popolo, usciva fuori della Porta del Sole, l'arco di pietra sette-ottocentesco di accesso al bellissimo abitato medievale, sotto bandiere (rosse, naturalmente) ondeggianti al vento, per celebrare la festa proletaria, e a un certo momento arrivava la cavalleria e disperdeva la folla a colpi di piattonate. Quel socialismo romantico e sincero, barricadiero e operaio, avrebbe fatto una inaspettata fine, di cui le storie parlano, accademicamente e documentariamente, ma con parecchia puzza sotto il naso: invece successe proprio che a un certo punto mio nonno passò entusiasticamente, armi e bagagli, tra i seguaci di Mussolini. Vedeva in lui il realizzatore dei suoi ideali socialisti. Mussolini non era ancora fascista, il fascismo lo fondò dopo la guerra, mio nonno lo seguì sempre. E fascista restò per tutta la vita.

Veniva da una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Quando ero bambino sentivo parlare, in casa, della “Poderina”, un podere appunto, sicuramente coltivato soprattutto a uva, olio (pregiatissimo)  e a grano, più, immagino, un paio di scrofe di razza "cinta senese", galline, oche ("ochi" al maschile, in dialetto), tacchini (in dialetto "dindi", dal francese "dindon")  e le immancabili, bianchissime, setose vacche chianine. L'economia di Chianciano si basava su due  risorse: l'agricoltura, fiorente come in tutta quella zona della Toscana, e il turismo. Dietro Chianciano si profilava, azzurro e imprendibile, l'Amiata. L'Amiata è un vero e proprio vulcano, sempre  attivo. La sua ultima eruzione viene fatta risalire a 700.000 anni fa, tuttavia nelle sue viscere fermenta un fuoco inestinguibile che fa ribollire acque sotterranee che a loro volta sciolgono i minerali delle rocce attraverso cui filtrano. Quando le acque affiorano danno vita a stazioni termali le più varie, con piscine o fonti salubri e famose. A San Casciano ci sono terme di acque calde, ottime per la pelle e i reumatismi, alle Terme San Filippo l'acqua è così ricca di calcio che la pelle sui sia stata spalmata  sembra di gesso, Bagno Vignoni ha una struttura rimasta inalterata nei secoli, la piazza centrale è una enorme vasca di acqua che sgorga a a 52°, chiusa su tre lati da una cinta di mura, da edifici realizzati da Bernardo Rossellino in onore di Pio II e dal loggiato dove sostò Santa Caterina da Siena. Per gli etruschi l'Amiata era la terra sacra nelle cui cavità dimorava la loro divinità più importante: Tinia, il Giove dei romani. Nell'ottocento, alle sue falde - nel paese di Abbadia San Salvatore - venne aperta una importante miniera di mercurio del mondo, che contribuì allo sviluppo industriale ed economico della zona ma portò anche una tremenda e spesso mortale malattia, il mercurialismo, prodotta dal contatto coi vapori di mercurio. La miniera fu chiusa intorno alla metà degli anni settanta. Il socialismo di mio nonno aveva le sue radici proprio lì, intorno all'Amiata, nelle terre dove si svolse l'avventura mistica e rivoluzionaria di David Lazzaretti, il profeta che si immolò nel 1878 per il riscatto religioso e sociale della sua gente, nella condanna delle ingiustizie del mondo e del corrotto clero romano. Lazzaretti venne ammazzato in uno scontro a fuoco con i carabinieri, tra i desolati calanchi e le "crete" della montagna, habitat di vipere, istrici e volpi. La sua testa mozzata era fino a pochi anni fa conservata nella formalina del Museo lombrosiano di Torino, assieme a quelle dei comuni delinquenti studiati da quello scienziato. Lazzaretti fondò un movimento religioso, il Giurisdavidismo, che fino a pochi anni fa aveva ancora qualche adepto, ma c'è chi ricostruisce la sua storia rigorosamente sul piano politico e vede in quel suo movimento revivalistico una forma grezza di rivolta sociale se non ancora socialista. Penso sempre al socialismo di mio nonno alla luce di quella storia, raccontatami spesso, quando mi recavo a Chianciano in vacanza (dopo poco tempo dalla nascita tornai a Roma: ero nato a Chianciano perché mia madre volle partorire a casa della su' mamma).

Stando alla saga  familiare, a un certo punto la "Poderina" entrò in crisi. I figli di mio nonno, mia mamma e i suoi fratelli, scesero tutti a Roma per trovarvi lavoro. Due erano maschi: Loris fece il barista, mi voleva molto bene e quando veniva a trovarmi mi lasciava sempre una bella moneta con la quale potevo comperare gli album di Cino e Franco, Mandrake e Gordon Flash, Carlo invece fu un agiato bancario, aveva i baffetti come il padre, un dente canino d'argento che mi impressionava, e una fiammante Guzzi rossa; mi ci portava in giro, a cavalcioni sul serbatoio, per le strade di quella Toscana fragrante: io ero attentissimo a deporre un sassolino alla base di questa o quella delle grandi croci di ferro che assieme ai cipressi segnavano un bivio tra strade polverose, il mio era un tradizionale e rispettatissimo gesto di devozione popolare. Su zio Carlo circolavano storie tenute sempre un po' nascoste, o raccontate, in famiglia, a mezza bocca: si diceva che, anche lui fascista, avesse partecipato a un conflitto a revolverate con elementi socialisti o comunisti, proprio sotto la Torre dell'Orologio, al centro del paese. Sentii sussurrare anche di un morto. Di certo, nel punto dove la via principale curva a sinistra per immettersi, con una breve e ripida salita, nella grande piazza centrale, sul muro di un edificio proprio dirimpetto alla Torre, all'altezza del secondo piano, c'è una lapide: "Il 20 ottobre del 1922/fulminato dalla barbarie fascista/cadeva A.E./ I cittadini, vindici, posero/il 20 ottobre 1947". Poco dopo la fine della guerra, zio Carlo subì un processo, di cui io seppi poco. Quando i carabineri vennero a prenderlo, la bellissima moglie dal volto di creola lo fece nascondere in un armadio, in mezzo ai suoi vestiti. Credo che al processo se la cavò.

Oltre al diminutivo di Betto, mio nonno ebbe anche un nomignolo, lo "strozzino". Allora usava così: mio padre, quando andava a trovare la fidanzata, poi mia madre, a Chianciano, si beccò il soprannome di "culofino"; in effetti era, se non azzimato, di portatura elegante e un po' distaccata. Io stesso non mi salvai da questo gusto storpiatore dei nomi. Mi chiamo Angiolo, fino a trenta anni venni chiamato Gioli. Ma il parossismo esplodeva nei nomi delle tre figlie del "sor Betto", mia madre e le due sorelle. Erano nomi derivati dalle tragedie greche e, chissà, da Dante, un rimasuglio della infarinatura classicheggiante tipica della piccolissima borghesia artigiana e paesana che probabilmente costituì il nerbo del mazzinianesimo e del radicalismo postrisorgimentale italiano. Mia madre venne battezzata come Ifigenia, ma per tutta la vita fu chiamata Tina, diminutivo di Oresta, che era a sua volta il nome di un'altra sorella,  invece comunemente chiamata Francesca. Francesca era in origine il nome della terza sorella, che io e tutti chiamavamo Lia. Il perché di questo strano intreccio non l'ho mai saputo. La famiglia di mio nonno abitava in un appartamento su due piani, vastissimo, nel cuore del paese, anzi in cima al castello medievale che lo domina, il castello dei conti Manenti, signori di vaste terre nel circondario. Prima di essere suddiviso in appartamenti, il maniero era stato anche un monastero: sul muro in fondo al cortile più interno era dipinto, in bianco calce, un angelo (o San Giorgio?) che uccideva non so che drago con la spada sguainata: quell'angelo popolò per anni i miei sogni o incubi. Sotto l'angelo si apriva la bottega da falegname di Martino, tra i cui profumati trucioli io amavo giocare: potrei ancora lavorare con ogni tipo di sega, di pialla e di sgorbia, sarei bravissmo. Con una sgorbia, peraltro, mi tagliai alla base di un pollice, ancora ne ho la cicatrice. Il figlio di Martino si chiamava Marx, non so come quel nome possa essere stato accettato all'anagrafe, a quei tempi. Credo che in quel castello sia nato anche Bonaventura Somma, il musicista gloria di Chianciano.

Forse a seguito delle condizioni di famiglia, certo non floride nel decadere dall'agricoltura e nella crisi della Poderina, mia nonna d'estate teneva pensione, affittando alcune delle molte camere da letto ai signori che venivano da tutta Italia a "passare le acque" della fonte dell'Acqua Santa o alla "Foce", gli stabilimenti termali noti già in epoca romana. Le acque facevano bene al fegato. Mia nonna lavorava il pane in casa. Si svegliava che era ancora notte fonda e, nella vasta e fresca cantina scavata nella roccia, impastava la farina versata nella madia la sera prima assieme al lievito. Dal bulicante impasto tirava parecchie forme, che poneva in fila su lunghe palanche di legno e, dopo averle incise con il coltello, copriva con un panno profumato di farina. Con l'ultimo pugno di pasta faceva - solo per me - una "ciaccia", un pizzetta, su cui imprimeva con le dita piccoli incavi nei quali versava olio dorato. Poi lei si arrotolava sulla testa un cercine di panno, vi poneva sopra, in equilibrio, la palanca con il pane e la ciaccia, e la portava al forno, in piazza. Io la seguivo. Mia nonna era anche bravissima a cucinare, i suoi sformati di spinaci erno squisiti. Si mangiava tutti assieme, pigionanti e famiglia, attorno a un lunghissimo tavolo, nella stanza più vasta della casa, con le finestre spalancate sulla valle assolata. Lei era, per così dire, il mulo della casa, non ricordo che mio nonno lavorasse, lei a un certo punto faticò anche a tener aperta una drogheria in fondo al paese, un locale pieno di tutti gli odori del mondo, dai fagioli e dai ceci nei sacchi di juta, al tonno, ai salami appesi ai ganci, al pane e soprattutto al baccalà e allo stoccafisso. Sul bancone c'erano anche attrezzi mitici, l'affettatrice con la sua lucida lama rotante per i salumi e la mortadella, o il massello di legno che allineava i pesi di ottone della bilancia, da quello minuscolo per qualche grammo a quello, maestoso, da un chilo. E, nelle cassette di legno, i grani del sale luccicavano come minuscoli diamanti.

Non saprei dire quando, anche mio nonno fu costretto a venire a Roma. Sua moglie, la nonna Dide (il nome di battesimo era Aderiade, un nome oggi scomparso del tutto) morì quando ero ragazzo, mi dispiacque molto non poter più avere la sua ciaccia. Era un donna silenziosa e triste, forse fiaccata dai tradimenti (veri o presunti) del marito. Comunque, restato solo, nell'immediato dopoguerra nonno Betto venne a Roma e fu ospitato da zia Francesca. Aveva una sua stanza con una branda e poco altro arredo. Le tre sorelle, ma soprattutto Francesca e Lia, lo utilizzavano come messaggero, quando una o l'altra voleva inviare qualcosa all'altra sorella le spediva il "babbo" (cui peraltro dava del "voi"). Il vecchio prendeva il pacco sottobraccio e usciva. Naturalmente, la figlia gli dava qualche spicciolo per il tram. Dopo un po' si venne a scoprire, tra rabbia e ilarità, che nonno Betto non prendeva mai il tram, traversava mezza Roma a piedi per consegnare la commissione e poi tornarsene a casa sempre a piedi. Con ancor maggiore raccapriccio, le figlie scoprirono anche che il nonno, mentre camminava per strada, raccoglieva da terra le cicche delle sigarette. Se le metteva in tasca, poi le apriva accuratamente e faceva del tabacco un mucchietto. Lui fumava una sua pipetta vecchia, puzzolente e intarmolita. Mi dava un senso di ammirazione quando, dopo aver riempito il fornello, premeva accuratamente il tabacco con il pollice. A me sembrava una operazione complessa e ardua. Accendeva poi il tabacco così ben pressato e le prime boccate che ne tirava producevano buffi di nuvole azzurre e profumate. Quando le figlie si accorsero della faccenda delle cicche lo sgridarono aspramente, pensavano che lui stava intaccando la reputazione familiare. Non ricordo che lo Strozzino abbia mai smesso da quella sua abitudine.

Talvolta, passava anche a casa nostra. Credo che fosse la tappa più tormentosa. Era rimasto fascista anche dopo la sconfitta, e di Piazzale Loreto e quanto ne seguì non si diede mai pace, noi toscani abbiamo la politica nel sangue. Mio padre, che in questo non fu generoso, lo punzecchiava e lui, il povero vecchio sconfitto dalla vita e deluso dalla politica, ci rimaneva male e si arrabbiava. Quando era arrabbiato, da buon toscano bestemmiava, una bestemmia frequente gli usciva dalle labbra, "Madonna maiala".  Mia madre, quando veniva da noi, gli dava da mangiare, lui mangiava assieme a noi poi ripartiva per riattraversare mezza Roma, sempre a piedi e raccogliendo cicche. A me quel bischero di nonno Betto piaceva. Era ruvido, vestiva con stracci smessi e dimessi, teneva avvolta attorno al collo una striscia di stoffa, credo per nascondere il taglio di una operazione alla laringe, o roba così. Da quel pezzo di stoffa mai troppo pulito emergevano le pieghe e le rughe del collo, rossiccie, forse bisognose di un buon lavaggio o di un bagno. Mi voleva bene, anche se non era molto prodigo di saluti, di baci o di carezze, con i suoi modi bruschi a volte poteva apparire lontano, trasognato, immerso in crudi pensieri.

Morì a casa di zia Lia, che in quel momento lo ospitava. Non so perché, fui informato subito della sua morte. Corsi dalla zia, lui giaceva ancora, vestito, sul lettino, una branda o poco più. Allora non c'erano grandi servizi funebri, eppoi noi toscani siamo un po' tirchi. Zia mi disse che dovevamo vestirlo come si vestono i morti, con gli abiti di festa. Io e lei lo spogliammo nudo, le sue povere magre membra giacquero indifese nel bianco grigiastro delle lenzuola. Lo rivestimmo quindi con vestiti appena un po' decenti, non ne aveva altri. Sollevare le gambe una dopo l'altra, le braccia una dopo l'altra, fu cosa non facile, i corpi dei morti sono pesantissimi, fose nonno era già un po' rigido. Gli annodammo al collo anche un cravatta, una delle sue vecchie, lise cravatte.  Fu seppellito nella tomba della famiglia, a Chianciano, sotto i cipressi resinosi, accanto a Dide, la moglie. Forse per la prima volta furono davvero uniti.