giovedì 9 luglio 2015


C.E. OPPO, L'EUROPEO IN ORBACE
da "Il Foglio" di sabato 4 luglio


"Il problema dell'arte è oltretutto anche un problema politico come quello della scienza e come in genere tutti i frutti dell'intelletto e della cultura". Questo giudizio, di sapore machiavelliano, venne espresso da Cipriano Efisio Oppo, nel 1930, in un intervento alla Camera dei Deputati di cui allora era membro. Pare volesse significare, almeno stando a suoi benevoli esegeti, che l'arte deve rivendicare, come ogni frutto dell'intelletto e della cultura, la sua autonomia dal potere, senza concedere alcunché a costrizioni e censure. Forse,  la frase ha un senso più complicato - direi contorto - ma anche più affascinante.

Una mostra al Casino dei Principi, appartata dépendance di Villa Torlonia ("Oppo. Pittura, disegno, scenografia" a cura di Francesca Romana Morelli e Valerio Rivosecchi, Artemide ed., 2015, euro 35), offre l'occasione per ripensare l'attività di un personaggio di tutto rilievo nel panorama artistico romano e nazionale della prima metà del novecento - diciamolo, dell'era fascista - ma anche per fare un passo avanti nella comprensione del discusso periodo nella sua vera complessità, che quella frase fa appena intravedere. 

Cipriano Efisio Oppo - C.E. Oppo, per tutti  - nacque a Roma nel 1891, a Roma morì nel 1962. Fu, per vocazione e intenti, pittore e scenografo ma anche, e soprattutto, eccezionale organizzatore d'arte e di cultura. Per la vulgata: al servizio della ideologia fascista. Al servizio? Forse - e non solo per i benevoli esegeti - piuttosto per  sviluppare, tra quella ideologia e l'arte, un dialogo, un confronto-scontro che va calato, per comprenderlo, nella sua storicità.  Questa capacità Oppo la condivise con personalità di spicco, quali l'architetto Marcello Piacentini e Giuseppe Bottai, politico raffinato e per un certo tempo Governatore di Roma: a occhio e croce si può dire che quasi tutto quel che in quegli anni si fece in Italia, e segnatamente a Roma, nel campo dell'arte come in quelli dell'urbanistica e dell'architettura, passò per le loro mani e per quelle di pochi altri gerarchi: e vale la pena di citare, per sottrarre almeno un nome alla damnatio memoriae, Alessandro Pavolini. Secondo Bruno Zevi il fascismo non ebbe una cultura: invece, piaccia o no, questi personaggi erano autentici intellettuali. Di Pavolini - lo stesso che si rese responsabile, durante la Repubblica di Salò, di efferatezze d'ogni genere e per questo venne sommariamente giustiziato a  Dongo nel 1945 - annoto che, quale dirigente del fascismo locale, ebbe larga parte nell'affidamento a Giovanni Michelucci della progettazione di un capolavoro assoluto di architettura, la fiorentina Stazione di Santa Maria Novella (1934). Ideatore di quella palestra di generazioni di giovani che furono i Littoriali dell'Arte e della Cultura, nella sua qualità di Presidente della Confederazione Fascista dei Professionisti e Artisti Pavolini ebbe a lungo le mani in pasta nelle vicende delle contemporanee arti: le grandi opere di prestigio erano, al tempo, di committenza pubblica, e dunque le associazioni professionali e corporative - fasciste e obbligatorie - avevano una decisiva voce in capitolo nella scelta dei progettisti. 

Il fascismo fu una delle forme del totalitarismo europeo; ma, a differenza del nazismo e del comunismo staliniano con cui condivise il destino finale, non fu avversario dichiarato, nel campo delle arti e della cultura, della modernità nelle sue varie forme. Mentre il nazismo metteva a fuoco libri e capolavori di un'arte definita “degenerata”, assoggettata alle cosche ebraiche e nemica della cultura del "Blut und Boden" germanico/ariano, e il regime staliniano decapitava il fiorente movimento futurista - che pure aveva salutato entusiasticamente la rivoluzione leninista -  e mandava a morte i Babel, i Mandelstam e i Mejerchold, mentre insomma quei due totalitarismi deliberatamente si accanirono nel restaurare forme d'arte e di cultura legate alla tradizione nazionalista, misoneiste  e ostili alle arti (o alle mode) internazionali, il fascismo tenne a lungo aperto il dialogo con la modernità facendosene promotore sollecito, cercando di interpretarla e - magari contraddittoriamente - guidarla, comunque dando vita ad uno sforzo che non mancò di valorizzare, sia pure in forme divaricate o incongrue, frutti cospicui della cultura artistica contemporanea. La differenza rispetto a nazismo e stalinismo è dunque netta, e  fondamentale per una sua corretta lettura. Alla fine anche il fascismo soggiacque a forme regressive (gli esempi forse più tipici li fornì proprio Piacentini), senza però mai scendere ad una aperta persecuzione del moderno. E il richiamo al principio, formulato per la prima volta, credo, da Ugo Ojetti, che “in Italia, l'arte deve essere italiana”, ripreso da Soffici e non ignoto ai Longhi, ai Cecchi, ai Gentile, persino al Pallottino che ricostruiva l'arte etrusca per esaltarne l'autoctonia come gloria "nazionale", voleva avere un senso positivo, e vale la pena sforzarsi a comprenderne - pur senza condividerle -  le ragioni. Piaccia o no, quella era l'epoca della “nazionalizzazione delle masse”: problema storico, tentativo di risposta alla sfida del marxismo e alla crisi del "rugged capitalism": il travaglio dell'arte non poté sottrarsi alla responsabilità di fornire una risposta - in una qualche forma di mediazione - tra innovazione e conservazione, avanguardismo e tradizione, internazionalismo e nazionalismo: c'è un "retour à l'ordre" per Carrà che dipinge bianche vacche cretose appena uscite dalla bonifica pontina, ma anche per Picasso, con le sue madri mediterranee che precorrono Botero. E' sull'intreccio di queste  formule, comunque, che nasce e viene elaborato il primo nocciolo di quel "nazionalpopolare" divenuto formula interpretativa di molto di quanto, nel dopoguerra, venne fatto sotto l'egida dell'antifascismo militante o di quel cattolicesimo tra pacelliano e già andreottiano che a metà degli anni '30 aveva influenzato Piacentini e impresso la svolta più forte e sensibile allo svolgimento dell'architettura italiana e romana, dando un significato specifico al generico "retour a l'ordre" di dieci anni prima.

Cipriano Efisio Oppo si dichiarava pittore e sicuramente della pittura era innamorato. Formatosi alla Accademia di Belle Arti, iniziò la carriera come caricaturista per "L'Idea Nazionale",  il giornale di Enrico Corradini, Alfredo Rocco, Roberto Forges Davanzati e Luigi Federzoni, ma dal 1910 si dedicò all'amata pittura individuando i suoi maestri nei fauves e soprattutto in Matisse: al Casino dei Principi è esposto un quadro nel quale il giovane artista si cimenta con un remake del celebre "pesci rossi" del maestro francese. Nel 1914 partecipò alla esposizione della "Secessione" romana. Fu l'ultimo suo guizzo in direzione avanguardistica, per il resto della vita si riconobbe nei moduli di un tradizionalismo accademico, anche se con una sua impronta forte ( un linguaggio diffuso tra Casorati, il giovane Afro del bellissimo autoritratto col pullover a righe o un Giovanni Brancaccio). Avviò anche una fruttuosa carriera di scenografo, con una cinquantina di messe in scena in buona parte dedicate alle opere di musicisti italiani del tempo - tra cui la cosidetta "generazione dell'80", Malipiero, Respighi, Pizzetti, Casella - di sicuro valore. Collaborò come buon critico d'arte e cinematografico alla romana "Tribuna". Ma il suo vero talento lo dispiegò quale organizzatore di eventi d'arte tra i maggiori del tempo. Nel 1916 entra a far parte del consiglio direttivo della quarta (ed ultima) mostra della "Secessione romana": è il suo primo importante impegno in quel ruolo.
Quel lontano dopoguerra romano è una fucina impressionante di artisti ed esperienze, con risvolti anche internazionali. Oppo vi partecipa intensamente, svolgendo un ruolo importante nella istituzione della Biennale Romana, l'evento realizzato dall'Amministrazione comunale con l'obiettivo di fare della capitale (come ricorda il catalogo) "l'asse intorno al quale far ruotare il sistema artistico italiano, anche nei rapporti con l'Europa". L'atmosfera che si respira in quei circoli è rovente, alla prima edizione (1921) non partecipano i futuristi e il gruppo dei "Valori Plastici" che (vedi ancora il catalogo) "il 6 aprile al Kronprinz Palast di Berlino apre la memorabile esposizione 'Das junge Italien' ").  Sùbito mussoliniano fervente, nel 1926 viene nominato membro del triumvirato che regge il Sindacato Nazionale Fascista Belle Arti di cui, auspice Bottai, diventerà presto segretario: gli altri due membri sono Carrà e Soffici. A quest'epoca risale il distacco da Margherita Sarfatti, grande musa artistica del Duce: la scalata al potere impone scelte zelanti ancor prima che obbligate. Nel 1931, finalmente, il suo grande sogno si realizza, nasce l'Istituto della Quadriennale di Roma, fino al dopoguerra la più imponente rassegna d'arte italiana. Oppo è il perno intorno al quale tutto ruota. Nella edizione inaugurale è esposto il meglio della produzione italiana, i primi premi vengono assegnati ad Arturo Tosi e Arturo Martini. L'ambizione di Oppo non ha limiti, è riuscito nel suo intento di spostare l'"ago della bilancia dell'arte italiana su Roma" (cfr. il già ricordato catalogo), anche se il dirizzone avrà un critico spietato nel giovane Scipione, che si fa promotore di una audace e aggressiva rivista dal titolo emblematico, "Fronte", alla quale collaboreranno Savinio, Moravia, Ungaretti, Giacomo Debenedetti, ma anche Valery Larbaud e St-J. Perse.  Nel 1932 troviamo Oppo direttore artistico della Mostra della Rivoluzione Fascista, che realizza in stile razionalista facendo collaborare Esodo Pratelli, Achille Funi, Marcello Nizzoli, Amerigo Bartoli e Mino Maccari, Giuseppe Terragni, Mario Sironi, Leo Longanesi, Adalberto Libera e Antonio Valente (a sua volta creatore del Centro Sperimentale di Cinematografia). La vecchia facciata del Palazzo delle Esposizioni viene rivestita da una "controfacciata" rossa, famosa opera - in cartapesta - di Mario De Renzi e Adalberto Libera.
Nel 1937, l'anno in cui Goebbels denunciava l'arte "degenerata" e metteva al bando centinaia di artisti, in buona parte ebrei, entra a far parte della Commissione incaricata per lo studio del piano regolatore dell'E42, incarico che svolgerà assieme a Marcello Piacentini, Luigi Piccinato ed altri. L'E42 è l'ultima occasione per sviluppare quel confronto tra modernisti e conservatori (nazionalpopolari?) che aveva avuto come altissimo momento la progettazione dell'università romana, la Sapienza. Realizzazione massima di questa magmatica confluenza di stili è il Palazzo della Civiltà Italiana, di La Padula ed altri, per mezzo secolo sbeffeggiato come perfetto simbolo della retorica mussoliniana ed oggi riconosciuto come anticipazione del postmoderno - alla Aldo Rossi, diciamo - e, magari, della poetica dell'assurdo. In quegli stessi anni, ahimè, fu anche membro di una commissione per la censura: appunto, queste erano le contraddizioni del regime. 
Tra gli infiniti incarichi ricoperti, Oppo fu anche segretario del Direttorio Nazionale dei Sindacati delle Arti Plastiche nonché del Consiglio Superiore delle Belle Arti. Una carriera, come si vede, da incontrastato gerarca; ma sarebbe superficiale pensare che egli abbia esercitato questi incarichi prono ai voleri della politica. Insieme a Piacentini e (parallelamente) al Bottai di "Primato", la rivista culturale dove troverete le firme di quasi tutta la classe dirigente del postfascismo, Oppo si studiò di elaborare una politica che non estromettesse le correnti vive del tempo. Certo, dietro o a fianco, lo pungolavano intellettuali del calibro di Ugo Ojetti, Ardengo Soffici, Roberto Longhi, ecc., cultori infaticabili dell'italianità dell'arte e del rispetto assoluto della tradizione (un termine su cui torneremo tra poco). E, ancor più certamente, è Mussolini in prima persona che si informa, interviene, corregge, approva o respinge disegni, progetti, plastici e quant'altro servì a realizzare quel fenomeno incredibile per cui, come ha scritto Paolo Nicoloso ("Mussolini architetto", Einaudi, 2011), "nella prima metà del Novecento,  nessuno Stato ha investito politicamente nell'architettura pubblica come l'Italia fascista". Ma se questa constatazione è corretta, meno corretto è il giudizio complessivo che del fenomeno lo stesso critico ci fornisce, e cioè che tutta questa architettura sia semplicemente uno "strumento di governo"; né più convincente ci pare quello formulato, in parallelo, da Emilio Gentile nel suo "Fascismo di Pietra" (Laterza, 2007), che riconduce quella immensa produzione di colonne ed archi al "mito fascista della romanità e dell'Impero". Lo stile dominante, sia pure in una versione particolare, è il razionalismo: forse si potrebbe capovolgere la formula, e dire che una progettazione mai ignara del linguaggio della modernità costringe il potere, l'ideologia, alla resa - o al dialogo.
Come si può sostenere che il monumentale Palazzo Littorio progettato da Terragni nel pieno di Via dell'Impero  in una cornice di ruderi romani (la documentazione relativa è parte di una mostra in corso nella Casa dell'Architettura, a Piazza Manfredo Fanti, Roma) sia espressione dell'ideologia fascista e non piuttosto una interpretazione sia pur "moderata" del razionalismo architettonico dell'epoca? E non si tratta di un episodio isolato. Nel 1926 veniva costituito, da un gruppo di architetti tra i quali Luigi Figini, Guido Frette, Sebastiano Larco, Gino Pollini, Giuseppe Terragni, Adalberto Libera e Ubaldo Castagnoli, il "Gruppo 7". Giuseppe Pagano, pur non aderendo, ne condivise e appoggiò le tesi: rinnovare il pensiero architettonico corrente e la ricerca formale e funzionale dell'edilizia italiana attraverso l'adozione del razionalismo. Nel 1928 il "Gruppo 7" si ampliò con la fondazione del MIAR (Movimento Italiano per l'Architettura Razionale), che annoverava una cinquantina di progettisti, uniti dall'esigenza di un ritorno alla ragione ed alla tradizione ma nella declinazione novecentista ("Novecento" fu il movimento artistico promosso da Margherita Sarfatti, che nel 1926 organizzò un'esposizione alla Permanente di Milano cui erano presenti gli artisti più importanti del panorama italiano, da Carrà a De Chirico, a Morandi, Martini, Balla, Depero, Severini, ecc.). Del resto, sullo sfondo del fascismo c'è l'avventura futurista, che mantiene a lungo le sue propaggini all'interno del sistema, fino all'intenso episodio del cosidetto "secondo" futurismo, sempre presente nelle Quadriennali tra 1l 1930 e la fine del fascismo. C'è chi ha notato come le quattro rassegne si siano svolte  "in un momento storico segnato da particolari contingenze: il crollo della Borsa di New York nel 1929, la Guerra d’Africa, le Sanzioni e la guerra civile in Spagna, tra il 1935 e il 1939; e, infine, lo stesso scoppio della seconda guerra mondiale". L'Italia si isolò sempre più dal contesto europeo e il clima interno si faceva sempre più allarmato. L'arte di questi futuristi ne risentì (cfr. "Il futuristi e le Quadriennali", AA.VV, Electa, 2009) pur restando spesso in conflitto con le gerarchie fasciste, che non li amavano.
 Mussolini ammorbidì le punte estreme del razionalismo ma non lo respinse in pieno. La tante Torri del Fascio o Littorie sparse per la penisola vorrebbero restituire il clima delle città municipali, dei Comuni, di una Italia chiusa nel culto retorico della sua (ancora!) tradizione, ma alla fine i loro parallelepipedi ci fanno pensare piuttosto a un Cézanne cubista letto dal De Chirico metafisco. Incomprensioni, contraddizioni certo, ma anche assorbimenti empatici, lontanissimi dallo Speer nazista o dall'Università moscovita opera di Lev Rudnev e dalle stazioni della metropolitana di quella città. Emerge dovunque, da manifesti, articoli, documentazione a lungo trascurata, la struttura teorica e poetica di una esperienza collettiva che anche nella mostra di Oppo si manifesta come momento importante nella lettura  del novecento.
Ripetiamo: nelle opere realizzate sotto il fascismo, molto spesso il razionalismo perde il suo mordente, la carica aggressiva con cui gli artisti del movimento pensavano di plasmare l'intero universo ripudiando ogni segno del passato, e si volge piuttosto verso interpretazioni idilliache e ireniche delle sue linee; ma le classi politiche e dirigenti che, in nome dell'antifascismo, respinsero e rifiutarono il monumentalismo fascista e la sua deprecata retorica, si compiacquero di modelli stilistici assai meno moderni, grottescamente affidandosi a una simbologia ruralistica, da presepe, in nome di una italianità che ripudiava ogni richiamo europeo. Un'orgia di damnatio memoriae illuse di far dimenticare persino il nome di Mussolini e tutto ciò che da lui sembrasse aver irradiato. L'ostracismo fu indiscriminato, colpì anche valori che al fascismo non appartenevano anche se con il fascismo avevano avuto rapporto: non solo il cattivo, ma anche il buono prodotto nel ventennio venne messo al bando. I gruppi dirigenti del PCI esaltarono un figurativismo che aveva come modelli l'arte sovietica, zdanoviana; quelli della democrazia cristiana realizzarono,  nelle loro opere pubbliche, una edilizia che si richiamasse a modelli arcaici, bene esemplificata nel quartiere Tiburtino a Roma (1949-1954, Mario Ridolfi e Ludovico Quaroni), incongruo presepe lucano forse adatto ad ambientare il "Cristo si è fermato ad Eboli" di Carlo Levi o qualche poesia di Rocco Scotellaro. Per capire l'enorme differenza culturale tra le due stagioni, si metta a confronto la chiesa di S. Eugenio a Viale delle Belle Arti (1950) con la chiesa del Cristo Re a Viale Mazzini, opera di Marcello Piacentini (1934). Anche opere egregie pur se discutibili, come la stazione centrale di Roma, furono pesantemente messe in discussione e, se qualche buona ragione c'era nel voler accantonare le colonne (ahi, colonna, quanti delitti si commettono in tuo nome!) lasciar mandare in rovina l'ala mazzoniana fu un errore. L'astrattismo venne condannato senza esitazioni anche se con motivazioni diverse dalla ripulsa fascista, che vedeva in quella corrente una propaggine dell'influsso ebraico sulla cultura.  Insomma, le classi dirigenti del postfascismo, le stesse (a parte gli antifascisti esuli o incarcerati) che sarebbero andate al governo e al potere se il fascismo fosse rimasto in piedi, una volta smembrate e disperse - secondo imprecise e confuse linee di faglia ideologiche - affondarono nella palude del populismo provinciale ancor più profondamente che i gerarchi fascisti, i quali erano riusciti a mantenere, anzi, un velo di modernità con cui rivestire il fondo agricolo e chiuso del paese.
Un giovane e pimpante Alberto Arbasino irrise a quei gerarchi, a quella cultura fascista, giocosamente avvertendo che sarebbe stato sufficiente arrivare a Chiasso, appena oltre la frontiera svizzera, per scoprire la modernità. Arbasino sbagliava: Oppo, per esempio, fu un viaggiatore instancabile, era perfettamente al corrente di quel che avveniva in Europa e perfino negli Stati Uniti. A Parigi era un po' di casa, nel 1923 studiò come organizzare una mostra "con le tendenze che oggi si contendono quel vasto e raffinato Mercato dell'Arte", "in modo da dimostrare (cito ancora dal catalogo)  l' 'accademismo' e lo 'sfacelo' in cui sono cadute, a suo avviso, l'arte del post-cubismo e del post-espressionismo". Siamo, come si vede, nell'ambito dell'interpretazione della modernità, e a questo problema dobbiamo far riferimento. Più sopra ci è occorso di fare menzione della "tradizione" come termine antagonista. Il dibattito o lo scontro tra i due termini è, in fondo, bellamente attuale: non è alla "tradizione" che ci si appella anche oggi nel contrastare la modernità occhieggiante sotto il termine di "multiculturalismo"? Come dire che dovremo forse interrogarci ancora su cosa abbia significato quel termine - modernità - nel vocabolario del novecento, e non solo italiano. 
Forse, il fascismo era tutta "cartapesta", come venne ridicolizzato. Però, quando nel 1947 i giovani di "Forma 1", Piero Dorazio, Achille Perilli, Carla Accardi, Ugo Attardi, Pietro Consagra, Giulio Turcato, ecc. - espressione di una Italia artistica energetica e combattiva - riaprirono il discorso sull'astrattismo europeo la canea insorse, quelle classi politiche così riciclate furono compatte nella condanna. Il leader di questa chiusura fu Guttuso, secondo premio, nel 1942, al presunto antifascista Premio Bergamo, promosso nel 1939 dal Ministro dell'Educazione Nazionale Giuseppe Bottai in contrapposizione al fascistissimo Premio Cremona, creatura di Roberto Farinacci.
Povero C.E. Oppo. In mezzo a tutto questo circo equestre di nomi, di eventi e di idee, tutte e tutti (tranne un Pavolini) rispolverati e riportati in auge,  l'unico a pagare con un pesante, perdurante ostracismo sembra sia stato solo lui.