mercoledì 27 maggio 2015
REFERENDUM IRLANDESE E PODEMOS SPAGNOLI
NESSUN RAPPORTO?
da "L'Opinione, 27 maggio 2015
Il referendum irandese sul matrimonio gay ha visto una consistente e decisisiva maggioranza votare un "sì" che suona, per il Vaticano e la Chiesa cattolica, cocente sconfitta. Questa volta la Chiesa non può prendersela con la laicizzazione e scristianizzazione della società contemporanea, fomentata dal laicismo di intellettuali spocchiosi, indifferenti dinanzi ai valori profondi che devono guidare l'uomo, cupidi di distruggere la famiglia, fondamento “naturale” e pilastro della società. Questa volta la sconfitta viene direttamente dalla libera volontà di quel gregge che avrebbe dovuto seguire il buon pastore ed invece, inopinatamente, gli volge le spalle per avventurarsi lungo nuovi, allettanti sentieri. E questo avviene in un paese, l'Irlanda, nel quale l'aborto è ancora proibito e fino al 1993 fa l'omosessualità era punita per legge. Ho, su quell'Irlanda di ieri, un ricordo personale assai preciso. Quando con Pannella e gli altri amici radicali iniziammo, alla metà degli anni '60, la campagna per il divorzio, io tenevo i contatti con la stampa estera, per sollecitare e suggerire servizi, interviste e quant'altro potesse essere utile. Cercai il corrispondente di un giornale irlandese di rilievo. Lo raggiunsi; anzi la raggiunsi, perché era una donna. Quando le spiegai cosa attendevo da lei, mi rispose con un netto rifiuto, lei non avrebbe mai seguito la nostra campagna.
Lo sconcerto e il disorientamento del mondo cattolico è, in queste ore, evidente; ma va riconosciuto che le prime reazioni sono state misurate, ben lontane dai toni di crociata con i quali la notizia sarebbe stata accolta qualche lustro fa. L'arcivescovo di Dublino, monsignor Martin, ha detto che "la Chiesa ora deve fare i conti con la realtà" e misurarsi con la "sfida" proveniente da un mondo giovanile formatosi in buona parte nelle "nostre scuole cattoliche". Anche l'"Osservatore Romano" ha scritto cose pacate: la Chiesa si trova di fronte a una "sfida" lanciata con tutti i crismi della legalità democratica, e che dunque non può essere contestata. Ma, da laici, vediamo un po', cerchiamo di capire: cosa può significare che la Chiesa "deve fare i conti con la realtà"? Sappiamo quanta spericolatezza teologica è stata messa in atto da recenti teologi (e papi) per sostenere la tesi che la Chiesa non può e non deve "adeguarsi" alla realtà, ma affermare intransigentemente la sua visione del mondo, eretta sul "depositum" della tradizione apostolica oltreché sui testi sacri. Una Chiesa romana che reciti il de profundis su questa immensa tradizione per prendere il sentiero, tanto caldeggiato dal mondo protestante, della riduzione del suo magistero ad una misericordia pietistica e insignificante, sarebbe altra da quella che storicamente è. Mi è ovviamente impossibile divinare quale potrà essere la risposta alla "sfida" irlandese che verrà dal pulpito di San Pietro, ma mi è difficile pensare che la Chiesa che ha preteso di governare e guidare il mondo, nelle sue storiche manifestazioni, senza mai scendere a patti, possa oggi adagiarsi in un ruolo defilato, non più intransigentemente "pubblico". La chiesa cattolica non può diventare una qualche confessione protestante, rinunciando alla funzione di guida storica (e dunque "politica") dell'umanità. Può piacere o no, ma di questo dobbiamo essere, da laici, consapevoli: il rapporto tra la Chiesa di Roma e il mondo non sarà mai irenico.
Tra i commenti suscitati dal voto irlandese, tre a mio avviso sono rappresentativi delle possibili sue interpretazioni. Il primo lo dobbiamo a Vito Mancuso, teologo che si professa cattolico (forse, cattolico "adulto") ma esprime il pensiero del più piatto conformismo laicista. Per Mancuso, l'individuo moderno deve poter godere di tutti i diritti che gli spettano, compreso il diritto all'"amore integrale", un amore che si manifesta indipendentemente dal genere, dal sesso. E' una constatazione che si apre a tutti gli spifferi possibili, ma è assai comoda, perché apparentemente incontrovertibile. Chi potrà mai opporsi a questa richiesta da due più due fa quattro? Il secondo commento è quello espresso in due articoli sul "Foglio", uno prima e l'altro dopo il voto di Dublino, da Giuliano Ferrara. Ferrara è un grandissimo scrittore di pamphlet e i due interventi ne sono tra i migliori esempi. La vis polemica di Ferrara è incoercibile, straripa e straborda in forme scintillanti, persuasive perfino quando estreme o estremiste, in tutto e per tutto degne della penna di quel grande scrittore satirico che fu Jonathan Swift, guardacaso anche lui irlandese.
Ma il commento più acuto, nella sua apparente flessibilità e "umiltà" è, per me, quello apparso sul "Messaggero" con la firma di Lucetta Scaraffia. La saggista cattolica riconosce che il voto irlandese è stato con molta probabilità determinato o favorito dalla "assurda politica repressiva nei confronti degli omosessuali in anni ancora recenti", se non addirittura dalla cocente memoria di quegli omosessuali che "circa un secolo fa la medicina eugenetica aveva classificato come una tara ereditaria, come minimo da curare ma spesso anche da risolvere con l'internamento e la sterilizzazione". La Scaraffia ha anche qualche ragione ricordando come la Chiesa cattolica non abbia mai accettato "questa interpretazione del fenomeno". Per la morale cattolica, ricorda, "gli omosessuali sono sempre state persone come le altre, pur facendo una scelta sbagliata, pur incorrendo in un peccato" (oddio, la scrittrice dimentica che qualche secolo fa il finocchio - da cui l'epiteto umiliante appioppato agli omosessuali - veniva sparso sui carboni ardenti sui quali l'omosessuale veniva arso vivo, anche in aree cattoliche) La Scaraffia vuole anche lei difendere la famiglia "naturale", o "tradizionale" o, come puntualizzano altri, "costituzionale" e chiede (lo fa anche Ferrara) che si riconoscano i diritti della persona che richiedano una adeguata protezione giuridica, ma senza intaccare il concetto di famiglia. E' una richiesta saggia. Ma ci viene da rilevare che anche su questa richiesta, oggi invocata come minor male, l'opposizione clericale e politica è stata fino ad oggi negativa, senza spiragli, chiusa e dura. Forse ormai, dopo Dublino, la concessione è tardiva.
Infine. Nessuno ha trovato una correlazione tra il voto irlandese sulle nozze gay e il voto spagnolo che ha portato in primo piano formazioni politiche nuove, indecifrabili, mosse solo, in apparenza, da una irrefrenabile voglia di cambiamento, quale che sia. Il ministro della sanità irlandese, Leo Varadkan ha definito il referendum sulle nozze gay "una rivoluzione culturale": Che in Eurpa sia in atto, nelle più varie forme, una vera e propria "rivoluzione antropologica"? La Chiesa è in preallarme, le classi politiche e di govrno forse no.
martedì 26 maggio 2015
Angiolo
Bandinelli
CONTROVERSIA
SUL DEGRADO
da
“Il Foglio, sabato 23 maggio 2015
Il
consumo, motore dell'economia contemporanea, propone e impone il
“degrado”. Il degrado ha, come punto di massima emergenza,
l'accumulo dei rifiuti nel cuore delle metropoli. E' il volto oscuro
del luccichio consumista. Siamo (credo di poterlo dire, pur se
ignorante di economia) ben oltre la distruzione creatrice di cui
parla Schumpeter. Per Schumpeter il ciclo economico, nel suo momento
espansivo, richiede il continuo avvicendamento delle imprese, con
alcune che muoiono per essere rimpiazzate da altre più capaci di
introdurre la necessaria innovazione. Penso che anche per Schumpeter
non sia l'acquirente, il consumatore, a far muovere, con la sua
domanda selettiva, il ciclo produttivo ed economico, ma
l'imprenditore che, per battere la concorrenza nella ricerca di
massimizzazione del profitto, è portato - o obbligato - ad innovare
su strumenti, strutture e metodi lavorativi. Mi pare sia nozione
comune che oggi l'esigenza di mutamento investe, prioritariamente,
piuttosto il prodotto finale, la merce, l'oggetto: che dovrà essere
velocemente consumato ed eliminato per lasciare il posto a un nuovo
più innovativo modello (poi, sarà necessario spiegare - ma io non
sono competente - cosa significa innovazione). Il ciclo
economico-tecnologico produce insomma merci, oggetti ai quali viene
assegnato un determinato periodo di vita e che magari si
autodistruggono - per così dire - quando il ciclo vitale previsto
giunge a conclusione. Il processo fordista ha mutato obiettivo, oggi
punta non alla catena della produzione ma a quella dei consumi, del
consumo. E che fine fa la merce via via così rottamata? Si accumula
nel degrado dei rifiuti che assediano la città. Che poi questa merce
scartata venga raccolta e riciclata è un fattore secondario, non
elimina il problema del degrado. A loro volta, i materiali degradati
diventano degradanti, infestano e infettano l'intera città
corrodendone l'immagine, coinvolgendola in un destino parallelo. La
città contemporanea è anch'essa a rischio di degrado. Non è
vissuta - come lo è stata per secoli: viene consumata.
Il
termine degrado contempla anche una variante di significato,
linguisticamente, filologicamente e semanticamente assai puntuale. In
questa accezione esso significa “che discende di grado”, e dunque
indica un processo più che uno stato (ha la stessa radice di
“digrado”, che usiamo per indicare - per esempio - quel dolce
declinare di colli e vallate che suscita nell'osservatore un senso di
armonia). Il termine vale e ha senso solo nella sfera culturale,
umana. In natura non ha senso, la natura non conosce il
degrado/digrado, il passare da un grado ad un altro più basso:
l'evento naturale è, in ogni momento della sua esistenza, non altro
che quello che in quel momento deve essere ed è: l'albero sradicato
e abbattuto o la carogna putrescente sono elementi di un processo
naturale sempre, in sé, positivo.
Nella
variante, il degradare/digradare è un accadere, passo dopo passo,
gradino dopo gradino, nello scorrere del tempo. Ma il tempo organizza
anche, con altra e ben più sontuosa strategia, la “rovina”, che
non va confusa con il degrado. Anche il concetto di rovina ha una
forte impronta culturale, il suo apogeo lo ha avuto con il
romanticismo. Piranesi ha splendidamente reso l'immagine della rovina
romantica, rovesciando il significato primigenio, quello di prodotto
di una distruzione provocata, appunto, dal tempo oltreché, sovente,
dall'uomo. Le rovine di Troia suscitavano una emozione dolorosa nel
ricordo della guerra e delle stragi e violenze con cui essa si
concluse; poi però, nella sensibilità romantica (shaftesburiana,
kantiana, ecc.) quelle rovine (non “la” rovina ma, ora, “le”
rovine) fornirono all'uomo l'occasione per elaborare ed approfondire
una assai complessa sensazione, quella della meditazione sullo
scorrere del tempo, sulla distanza psicologica ed emotiva che è tra
l'immensità del passato e la piccolezza e angustia del presente, e/o
anche tra l'infinito e il finito. Siamo nell'ambito di quel concetto
di sublime su cui Kant ha detto molto.
L'esperienza
romantica della rovina necessitava di una visione, o vista,
soggettiva: occorreva che ci fosse un soggetto che la provasse e ne
fosse turbato fin nel profondo del cuore. Di fronte alla rovina
doveva esserci un soggetto forte, forte di un destino che gli si
rivelava appunto a contatto, nel confronto con l'oggetto della sua
visione: la rovina, il paesaggio delle rovine. Gibbon sperimentò
questa straordinaria sensazione dinanzi alle rovine della Roma
classica: ne ricavò “Decline and fall of the Roman Empire”.
Forse proprio attorno al concetto di rovina/rovine acquistò
significati di estrema suggestione il termine di “contemplazione”.
Questo rapporto nasceva in un contesto di solitudine, l'osservatore e
la rovina si isolavano in una sorta di empatia psichica. La
contemplazione era evocativa, la capacità evocativa era la sua
massima proprietà. Per inciso: qui viene ricordato il romanticismo e
l'accento posto sulla contemplazione delle rovine del passato. Credo
che quel termine sia stato impiegato anche nel racconto di Nerone
che, appunto, contempla l'Urbe che lui ha dato alle fiamme e
accompagna questa contemplazione modulando sulla lira i brani
dell'Iliade che raccontano l'incendio finale di Troia. Un
significativo parallelismo.
Il
degrado di cui è responsabile l'economia contemporanea non produce
nulla di analogo all'empatia/simpatia. Non invita alla
contemplazione, tutt'altro; a meno che il disgusto, l'orrore, il
torcere altrove lo sguardo nauseato non siano forme di emozione
empatica. Segnala invece una crisi, la crisi della città, del
contesto urbano in quanto tale. E questo ci mette in angoscia.
Temiamo che l'avvolgente degrado possa sommergerci tutti, come una
frana: la società che porta in sé, come sua controfaccia, il
degrado, è sempre (o appare sempre) sull'orlo infido della
catastrofe. Il catastrofismo, la crisi della civiltà è cifra
culturale del degrado. La cosiddetta, sfruttatissima, immagine
dell'eclisse dell'Occidente è l'espressione più corriva e abusata
della crisi catastrofica che vediamo incombere sull'intera umanità.
Però
il degrado ha anche una bivalente dimensione etica: c'è il degrado
morale, il descensus ad inferos della città e della sua civiltà, ma
inaspettatamente - dulcis in fundo - il degrado presenta anche un
rovescio positivo, straordinariamente positivo. C'entra l'arte, o
qualcosa che le assomiglia parecchio. Il primo a rovesciare in senso
positivo il rapporto di uomo e cultura con il degrado è stato Marcel
Duchamps. Il 2 aprile 1917 a Washington “il Presidente Thomas
Woodrow Wilson incoraggia formalmente il Congresso a dichiarare
guerra alla Germania...nel frattempo, a New York, tre giovani
dall'aspetto bello ed elegante lasciano un bell'appartamento doppio
al 33 della 67a Ovest, diretti al centro della città” (questa e le
seguenti citazioni vengono da: Will Gompertz, “E questa la chiami
arte?, 150 anni di arte moderna in un batter d'occhio”, Electa,
2013). I tre sono un giovane artista francese “elegante e
slanciato” e due più tarchiati “amici americani”. Passeggiano
chiacchierando gradevolmente, attraversano Central Park, scendono
lungo Manhattan, passano sotto quel Flatiron Building che era molto
piaciuto al giovane francese al suo arrivo a New York, si fermano
dinanzi a un negozio “specialista in forniture idrauliche”, lo
J.L.Mott Iron Works. Vi entrano. Quando ne escono, poco dopo, il
giovane francese, che è appunto Duchamps, si porta appresso un
“normalissimo orinatoio in porcellana bianca...modello
Berdfordshire”. Proprio da questo evento così casuale, da questo
banale oggetto, la storia dell'arte e della cultura verrà
profondamente e irrevocabilmente rivoluzionata, non è esagerato
affermarlo. Duchamps è un giovane spiritoso, gli è venuta l'idea di
fare dello strano oggetto lo strumento per una burla “all'antiquato
mondo dell'arte” e all'”atteggiamento conservatore e soffocante
della National Academy of Design”. Se lo porta allo studio, “lo
depone sul dorso e lo gira sottosopra, con tempera nera lo data e lo
firma...con il suo pseudonimo, R.Mutt, 1917.” Gli ha dato anche un
titolo: “Fontana”. Intende presentarlo alla prossima Independent
Exhibition, importante mostra di arte moderna. Quando l'opera apparve
nella sala espositiva del Grand Central Palace su Lexington Avenue,
“suscitò una miscela esplosiva di costernazione e disgusto”.
Richiamava alla mente, per analogia, una discarica di rifiuti, solo
da una discarica poteva provenire. L'orinatoio di Duchamp si è
perduto chissà dove, ne esistono solo rifacimenti, copie e repliche
che siano.
Era
la prima volta che un oggetto così negativo sfidava la grande
cultura; oggetti analoghi, provenienti o no da discariche ma sempre
richiamandoci a non-luoghi del genere, sono oggi il materiale
primario dell'arte (o di quel che ne rimane). La discarica, il
rifiuto, l'oggetto degradato continuano a darci disgusto,
alienazione, assurdo, ma anche, quando manipolati da un artista, ci
provocano, sollecitano attenzione e impensati dirottamenti logici e,
infine, ironia. E' lungo questi percorsi che il degrado cerca di
fornirci - in un rovesciamento che è insieme logico ed etico - un
equivalente del sublime romantico. E anzi, è ormai un vezzo, perfino
abusato e scontato, che l'arte promuova il dialogo con il degrado,
con il consumo, con l'oggetto rifiutato, innalzandolo a sua materia
prediletta. Burri cuciva assieme pezzi di sacco e ne faceva tele in
stile Morandi, Colla saldava rottami di ferro, di macchinari, per
farne sculture, con i suoi lacerti di feltro e i suoi massi di
granito Beuys mimava le rovine del mondo. Qualcuno ha osservato che
questi artisti vivevano nell'immediato secondo dopoguerra, avevano a
che fare non con il degrado ma con il rottame, le macerie prodotte
dal bombardamento, dalle feroci battaglie. Ma già, più o meno,
insieme a Duchamps si poteva incontrare il Picasso che faceva
scultura impiastricciando con l'argilla automobiline-giocattolo per
bambini, arrugginiti manubri di bicicletta o rigonfi vasi di
terraglia facendone nascere, per estensione fantastica, teste di
scimmioni, crani di tori, donne incinte con il pancione, i collages
dada e futuristi da tempo avevano aperto un dialogo ammiccante con la
carta da pacchi, il foglio di giornale, i caratteri tipografici, un
minuto bric-à-brac scartato o semplicemente “rivisitato” con
occhio ironico. Più tardi, Rotella strapperà dai muri brandelli di
poster per ricollocarli armonicamente sulla tela, facendone una
quasi-pittura. Jeff Koons riporta il bric-à-brac alla dimensione
prelogica dell'infantilismo dada.
Il
fondamento di queste varie forme è tutt'insieme estetico, logico ed
etico. La teoria (saldissima) che lo sostiene e lo argomenta è
quella della “decontestualizzazione”, dello “straniamento”.
Per capire cosa si intenda con queste espressioni, si guardi
all'opera in questo senso più strepitosa, la giustamente famosa
“Venere degli stracci” di Pistoletto, degli anni '60/'70. E'
quasi un manifesto, sia pure a posteriori. La giustapposizione della
Venere, una copia di scultura classica, al mucchio di stracci spiazza
e annulla il tempo, ricordandoci con prepotenza il carattere di fondo
della contemporaneità. Quest'opera non devi contemplarla - non è la
“Gioconda” - ma fare una equazione logica e una riflessione
moraleggiante.
Per
un processo parallelo anche se di opposta direzione, gli artisti
della “Bauhaus”, la scuola di design fondata nel 1919, a Weimar,
da Walter Gropius e proseguita poi tra Dessau e Berlino, fino al
1933, con docenti quali László
Moholy Nagy o Mies
van der Rohe, rovesciarono, coscientemente e razionalmente, la
funzione dell'oggetto prodotto dall'uomo, riutilizzandolo di nuovo in
positivo, ma collocandolo in un contesto e per un impiego diverso
dall'originario. Marcel Breuer progettò e realizzò nel 1925 una
famosa poltrona, il modello Wassily (o B23) saldando insieme tubi
d'acciaio di produzione standard e di basso e banale uso industriale.
Quei tubi non provenivano da una discarica, non erano un rifiuto, un
oggetto proveniente dal degrado, ma la chiave del loro reimpiego da
parte dell'artista era sempre la decontestualizzazione, lo
spiazzamento: uno specifico oggetto d'uso viene strappato dalla
funzione per la quale è stato prodotto e collocato altrove, privato
della sua prima finalità costitutiva (della sua “essenza” o
della sua “quiddità”, secondo la logica classica), per assumerne
un'altra del tutto diversa.
Da
queste straordinarie scoperte – precisiamo: logiche, prima che
estetiche - il mondo è stato cambiato, irreversibilmente. Non vi
sono più oggetti identici a se stessi, fermi e saldi nella loro
funzione, quella che ha dato loro la forma: ogni oggetto può
diventare un altro, mutare la sua “quiddità” (ricordate
Rimbaud?: “Je est un autre”). Così manipolato, l'oggetto ha
senso solo per la forma, una forma pronta ad assumere il significato
che l'uomo - non necessariamente un artista - di volta in volta gli
darà. Siamo nel dominio del relativismo, qualcuno potrebbe dire
anche che siamo in pieno nichilismo. Il
vanto del moderno - il modello culturale che produsse la civiltà del
progresso ottocentesco - la sua caratteristica saliente, era la
progettualità proiettata lungo un tempo lineare, teso ad un fine
teleologicamente determinato. Il post-moderno - la civiltà del mondo
contemporaneo e del prossimo prevedibile - interrompe la corsa del
progresso e afferma che il processo non ha più una direzione: il
post-moderno rifiuta la linearità, il processo è, appunto,
pluridirezionale, policentrico, composto di infiniti punti
equivalenti, che si scambiano informazioni e non direttive, visto che
ciascun centro, poi, cresce su se stesso in perfetta autarchia.
Il
degrado è una forma, forse addirittura prevalente, del post-moderno.
Per
questa via il consumo, anzi il degrado, è divenuto tema della teoria
estetica, un tema essenziale della sua riflessione. Il degrado è una
vera e propria sfida culturale. Sotto le sue inarrestabili spinte
vengono abbattuti gli idoli della memoria, della contemplazione,
crollano vetusti templi culturali e sono cacciati per sempre i
genuflessi sacerdoti della conservazione, le cassandre della immensa
paura del divenire. La massa dei rifiuti che ci parlano del degrado
non ha un passato, il passato è stato decomposto, stritolato, ed è
ormai irriconoscibile. La dimensione del reale è dunque il presente.
Il degrado porta con sé la distruzione del tempo, del tempo come
struttura del divenire, della storia. Viviamo e vivremo il tempo come
fluire senza spessore, nell'accettazione di un continuo presente nel
quale - in assenza di storia e dunque di memoria - saremo solo ciò
che verrà detto di noi. Il degrado è anche distruzione dello
spazio. Lo spazio era misurato dai ritmi alterni del pieno e del
vuoto, il perfetto monumento allo spazio come prodotto dell'uomo è
la Cappella Pazzi a Firenze, calibratissimo equilibrio di proporzioni
e di misure - le paraste e le trabeazioni in pietra serena, le
campiture a calce - cariche di allusioni pitagorico-.platoniche.
Il
degrado non ha dimensioni misurabili, né nel tempo né nello spazio,
è una massa indistinta di materiali giustapposti, la sua massima
monumentalità è il container, un parallelepipedo riempito fino al
massimo della sua capienza da materiali inerti. Secondo la ferrea
legge del consumo, il materiale del degrado potrà (o dovrà) finire
nella discarica, forse anche sarà riciclato, dal degrado nascerà
altro degrado, sempre uguale a sé stesso. Non sarà più necessario
il segno nello spazio, il monumento, l'intellettuale o sperimentale
equilibrio dei valori: ogni punto dello spazio sarà identico ad ogni
altro punto dello spazio, il mondo risultante è un mondo casuale,
“straniato”, nel quale uno squalo può trovarsi immerso non nelle
acque oceaniche ma nella formalina, o qualche migliaio di colorate
farfalle e lucenti coleotteri potrà ritrovarsi appuntato con gli
spilli su un sofisticatissimo pattern (quello e questi per opera di
Damien Hirst) esattamente come un tempo vennero giustapposte le
tessere di un mosaico bizantino, e un mucchio di juta, lastre di
vetro, argilla, essere materiale costruttivo per Mario Merz (di cui è
in corso una mostra a Venezia, nelle nuove sale delle Gallerie
dell'Accademia), che ne trarrà un igloo degli Inuit, il popolo dei
ghiacci artici. L'immediato è pura e semplice forma, le cui funzioni
sono intercambiabili. Quale affascinante confronto: la metafisica di
San Tommaso d'Aquino, nell'immensa sua “Summa Theologiae”,
costruisce un intero universo come una piramide di Enti, di soggetti,
che discende (digrada?) da Dio fino all'ultimo Ente terreno,
compattamente, senza soluzione di continuità, e il sillogismo è lo
strumento teorico fondamentale per penetrare nei segreti di questa
perfetta, immutabile costruzione; il casualismo contemporaneo compone
un universo piatto, nel quale Enti e soggetti sono intercambiabili e
fruibili in giustapposizione, nascendo per partenogenesi, non per
filiazione.
La
civiltà del degrado è instabile. Questa è la sua essenza. Ai suoi
confini preme l'apocalisse, l'apocalisse in cui tutto precipita o
precipiterà fino al caos originario, l'informe definitivo e assoluto
nel quale gli oggetti, le diversità non sono presenti. L'apocalisse
è il contrario del “fare” come attività dell'umano, produttore
di oggetti separati uno dall'altro, con confini precisi, con nomi che
li identificano, ognuno con la sua specifica essenza. E scompare il
tempo, il tempo composto di momenti, determinati e distinti: il
presente, il passato, il futuro, con le loro precise fenomenologie.
Futuro e passato vengono inghiottiti da un compatto continuum - il
presente appunto - nel quale ogni scansione è annullata. Compreso il
cosiddetto tempo interiore, ormai assolutamente proibito, diffidato
come pericoloso eversore. Per alcuni teorici la ricomposizione di
oggetti in uno nuovo è una “riappropriazione” del tempo. A noi
questa interpretazione pare dubbia.
Relativismo,
abbiamo detto, o anche nichilismo. Ma come è possibile pensare a
respingere quello e questo? Chi può pensare di ridisegnare,
riprogettare un mondo senza l'infinità degli oggetti, oggetti d'uso,
oggetti del degrado, oggetti riciclati, oggetti d'arte e di design
che ci circondano e condizionano ogni nostra esperienza? Piaccia o
no, il degrado, il relativismo e il nichilismo sono oggi le forme
visibili e percepibili dell'Assoluto. Se così preferite, non
chiamatelo Dio. Semmai, se volete, chiamatelo Riciclaggio.
martedì 12 maggio 2015
ELOGIO DELL'UNINOMINALE
“Il Garantista”, 12 maggio 2015
Esiste una una visione sbagliata e diffusissima del concetto di rappresentanza, automaticamente identificato con la proporzionalità del rapporto tra corpo elettorale ed eletti. Per la cultura empirista britannica lo schema non vale: vince chi arriva primo. E chi arriva primo si prende il tavolo: “Winner takes all”.
Non è affatto vero che i perdenti non vedano rappresentate le loro idee. È ovvio che il vincitore dovrà tener conto delle esigenze degli sconfitti. Cameron ha rilanciato l’idea del referendum sull’Europa, dando una buona soddisfazione ai votanti dell’Ukip, e ha rassicurato gli scozzesi.
Su “Il Fatto Quotidiano” del 9 maggio, cioè ancora (come si dice) a botta calda, Caterina Soffici spezza una lancia a favore del sistema maggioritario uninominale, quello con cui si è votato, appunto, in Gran Bretagna. Questo sistema ha consentito al partito conservatore di David Cameron di avere la maggioranza assoluta in parlamento con solo il 36% dei voti, al partito indipendentista scozzese di aggiudicarsi, con appena 1 milione e mezzo di suffragi, 56 seggi di Wenstminster mentre all’opposto l’Ukip, il partito antieuropeista di Nigel Farage, con 3,2 milioni di voti – vale a dire il 12,5%, ha incamerato solo un seggio.
Tale risultato non è andato giù a molti – e la cosa può anche comprendersi, vista la scarsezza delle informazioni che ci vengono fornite su questi argomenti – ma anche al presidente del Consiglio Matteo Renzi, che subito si è messo in bella mostra con l’osservazione, piena di un apparente buonsenso, che se Cameron avesse votato con l’Italicum sarebbe dovuto andare al ballottaggio: polemizzava evidentemente con chi accusa di “deriva autoritaria” il sistema che lui ha imposto di votare al Parlamento e allo suo recalcitrante partito, il Pd.
Renzi ha parlato – dobbiamo dirlo anche se è pesante – se non in malafede di sicuro per ignoranza. Invece non dovrebbe ignorare quale sia la caratteristica peculiare del sistema maggioritario uninominale all’inglese, una caratteristica che ne fa il sistema elettorale democratico per eccellenza. La Soffici osserva, puntualmente, che «in Gran Bretagna non contano le percentuali, perché per l’appunto il loro è un sistema maggioritario…nel sistema maggioritario uninominale britannico vince il primo arrivato in un collegio, anche se ha preso un solo voto di più del secondo». «L’Ukip (il partito di Farage), per dire, è arrivato secondo in ben 120 collegi, ma ha vinto in uno solo». Secondo la Soffici questo sistema, con la sua apparente antidemocraticità, garantisce al paese la “stabilità”. «Governabilità e rappresentanza sono due entità in lotta continua, non si possono avere entrambe»…«Per avere un paese più governabile – conclude la Soffici – si sacrifica sul piano della rappresentanza».
Fin qui abbiamo condiviso il ragionamento della giornalista. Non siamo invece assolutamente d’accordo sull’ultima sua osservazione, quella della scarsa “rappresentatività” dell’uninominale britannico. Il ragionamento della Soffici è inquinato anche esso, ci pare di poter dire, da una visione sbagliata – anche se diffusissima – del concetto di rappresentanza, automaticamente identificato con la proporzionalità del rapporto tra corpo elettorale ed eletti: se un partito ottiene il 12,5% dei voti dovrà ottenere il 12,5% degli eletti, dei parlamentari. Per la cultura empirista britannica lo schema non vale. Nella cultura empirista britannica vince chi arriva primo. E chi arriva primo, essendo il vincitore, si prende il tavolo: “Winner takes all” è il motto, punto e basta. Ma questo non significa che l’eletto di una determinata “constituency” (collegio) non la rappresenti adeguatamente.
Il sistema si riallaccia addirittura (cfr. : <+corsivo>Dizionaio di politica<+tondo> diretto da Norberto Bobbio e Nicola Matteucci) ”al medioevo”. Con tutta evidenza esprime una cultura e una prassi politica che non conosce i partiti, almeno quelli moderni, per cui il confronto elettorale si svolge tra due contendenti. E, ovviamente, quello dei due che vince ”takes all”, si prende tutto. Oggi però – si può controbattere – ci sono i partiti, e il confronto, come è avvenuto appunto giovedì 7 maggio, può essere tra più contendenti, per cui quel sistema diventa inadeguato. L’obiezione venne già formulata negli anni 70, mi pare, quando sulla scena britannica si presentò, con molte speranze, il Partito Liberale, incuneandosi tra i due tradizionali contendenti, i tory e i laburisti. Anche allora il terzo incomodo venne stracciato, ma i britannici non ritennero di dover cambiare il sistema elettorale, che è rimasto bipolare. Lo è perché conserva il suo carattere empirico, per cui è sempre l’individuo, il soggetto, l’uomo a contare, non il partito.
E non è affatto vero che i perdenti non vedano rappresentate le loro idee. È ovvio che il vincitore dovrà tener conto, sul piano politico, delle esigenze degli sconfitti. Cameron ha rilanciato l’idea del referendum sull’Europa, sicuramente dando una buona soddisfazione ai votanti dell’Ukip, e ha rassicurato gli scozzesi che si dedicherà ai problemi cari a quegli indipendentisti. La rappresentanza infatti è, secondo quanto raccomandava Burke, senza vincolo di mandato. L’eletto rappresenta il collegio nella sua totalità, nella totalità dei suoi elettori e cittadini, non si sente legato o obbligato verso quella percentuale di elettori che gli avrà dato il voto, come avviene nei sistemi proporzionalisti.
La sua rappresentatività è essenzialmente politica, non sociologica: questa è la sua grande forza, la patente della sua democraticità. Colui che è considerato l’inventore del sistema proporzionale, il francese Victor Considerant, da seguace e divulgatore dell’utopista Fourier, escogitò quel meccanismo perché, diffidando della politica, ”fase transitoria del ciclo dello sviluppo umano”, si proponeva ”un credo di rigenerazione sociale”, che portasse a ”un ordine sociale non conflittuale” (cfr.Alle origini della rappresentanza proporzionale, Maurizio Griffo, Lacaita, 1992).
La rappresentatività di stampo sociologico-identitario esprimeva questa aspirazione. La cultura britannica non accolse il suggerimento e rimase fedele al primato della politica, come ”gioco” conflittuale che deve esprimersi nel massimo di chiarezza e trasparenza, quella trasparenza che viene assicurata dalla visibilità degli attori, non mascherati o protetti dallo scudo partitico.
Non siamo aggiornati sugli sviluppi del sistema britannico ma, a quanto ne ricordiamo, durante la campagna elettorale il candidato si sforza di conoscere e farsi conoscere, si può dire, da ognuno dei suoi potenziali elettori, buona parte della campagna era (è?) si svolge battendo una per una le case, ”door to door”. L’eletto ha (aveva?) un rapporto fisiologico con il suo territorio, mentre vi sono deputati italiani che il loro collegio non lo hanno nemmeno mai visto: capitò anche a noi, quando fummo eletti – nella X legislatura – nel collegio di Genova, nel quale non avevamo messo mai piede. Non crediamo che l’Italicum possa vantare molti titoli in fatto di rappresentatività e di democrazia. È unanime il giudizio che ancora una volta i parlamentari eletti con questo sistema rappresenteranno solo sul piano numerico gli elettori che li hanno votati, ma saranno in realtà dei ”nominati”, nominati o comunque imposti dalle segreterie politiche dei rispettivi partiti.
Sembra dunque a noi (sperando di non sbagliare) che la questione della scelta del sistema elettorale sia ben più complessa di quanto appare dalle scarse e superficiali considerazioni avanzate a caldo in questi giorni. Da radicali pannelliani, sappiamo che sull’argomento si è discusso nel partito per anni, e che il primo bersaglio delle sue campagne fu proprio quel proporzionale nel quale Pannella ha sempre indicato il primo, storico responsabile della scarsa democraticità della vita politica italiana. Molto altro in merito si potrebbe dire. C’è da sperare che si presenti un’altra buona occasione per farlo.
mercoledì 6 maggio 2015
LO SPAZIO SACRO DELLA BOXE
da "Cronache del Garantista", 13 marzo 2015
.
Tempo fa ho (ri)visto in TV un film di John Ford del 1952, "The quiet man", starring John Wayne e Maureen O'Hara, forse la più bella rossa di Hollywood. Il film è prettamente fordiano anche se la location è in un borgo d'Irlanda, paese di origine del regista. Dall'idillio dell'innamoramento dei due si sale in crescendo verso un finale, possiamo dire, epico, anzi epico-grottesco, con una memorabile scazzottata tra John Wayne e Victor Mac Laglen che coinvolgerà via via l'intero paese, compresi il prete cattolico e il pastore protestante, in una generale ammucchiata tra pascoli di pecore e stradine di pietra. Ovvia conclusione al pub, tra fiumi di birra - immaginiamo la scura Guinness, gloria d'Irlanda. Sì, Ford è sempre affettuoso.
La scazzottata è un topos forse oggi un po' dimenticato e desueto, ma ha funzionato a lungo come elemento catalizzatore nel quale scaricare le tensioni - serie e drammatiche o, come in questo caso, ironiche e giocose - di un film. Nei western, poi, è (o era) un elemento indispensabile. In uno tra i più famosi, "Il cavaliere della valle solitaria" (George Stevens, 1953), la scazzottata ha sottili risvolti psicologici: Alan Ladd e Van Heflin sono innamorati della stessa donna, la moglie di Van Heflin. Non se lo dicono, ma alla fine daranno vita a una scazzottata anch'essa memorabile, nella quale le non confessate gelosie, i sotterranei e sottaciuti risentimenti, alla fine esplodono. Anche qui, come nel film di Ford, la scazzottata è un momento di catarsi benefica. Direi anzi che la scazzottata filmistica, specie nei western, raramente è provocata da odi e violenze negative. Per questo è piuttosto dettagliata, la sequenza è lunga, insistita, godibile: tanto, alla fine c'è la riconciliazione positiva. Qualche volta i cazzotti sono invece espressione di odio o di sentimenti negativi, e allora la sequenza è solo aspettativa e attesa di morte; come ad esempio la scazzottata di un altro grande film, "I giovani leoni" (Edward Dmytryk, 1958), con Montgomery Clift nella parte del debole, del "piccolo" che attraverso la dura prova difende la sua identità (di ebreo) maltrattata e vilipesa dalla società violenta.
uno sport molto americano
Credo che la scazzottata filmistica sia un topos molto americano, non ho ricordo (potrei però sbagliare) di grandi scazzottate nella filmistica europea. In fondo, la scazzottata è un altro modo di raccontare l'etica americana, l'etica del confronto a due, del duello aperto, virile, quasi sempre leale, ma anche un po' machista. Nel suo godibilissimo libro "Sulla boxe" (edizioni 66THAND2ND, 2015, 17,00 euro), la scrittrice (americana) Joyce Carol Oates percorre e ripercorre storia e cronache di boxe che hanno al loro centro l'America - "è il nostro sport più controverso", afferma - e i suoi impareggiabili campioni, tra i quali brillano Tyson e Cassius Clay alias Muhammad Alì, "il peso massimo più geniale dei tempi moderni". Per lei non vi è dubbio che quello sport (o non sport: "Ma che cos'è poi lo sport?"...) è essenzialmente machista, forse anche "potentemente omoerotico" (e stupisce che lei, donna, se ne sia così ardentemente appassionata, fino a diventarne - il libro ce lo garantisce - una autentica esperta). Secondo la Oates il culmine della parabola americana di questo sport va collocato negli anni venti, ma anche nell'immediato secondo dopoguerra la boxe era, non solo attorno al ring del mitico Madison Square Garden, sport assai diffuso, popolare e seguito. Persino da intellettuali snob: Hemingway pare se ne intendesse, scrittore eccellente di boxe fu Norman Mailer. Fuori d'America, il francese Marcel Cerdan, amante della cantante Edith Piaf, ebbe fan nella migliore società.
io, boxeur immaginario
Ho sempre amato la boxe, purtroppo ho mai visto un incontro se non alla televisione. Oggi è difficile assistere ad un incontro di qualità, la TV ne trasmette qualcuno, piuttosto mediocre, in ore impossibili, ma un tempo la boxe offriva spettacoli indimenticabili. I grandi pugili erano come ballerini, come scultori, artisti in piena regola, era un autentico piacere osservarli mentre danzavano (si dice proprio così, i pugili "danzano" saltellando qua e là per non offrire un bersaglio all'avversario) e ogni mossa, ogni spostamento del corpo o del capo ha un senso preciso, segue regole ferree da cui dipende molto, a volte anche la vita. Io stesso ho fatto boxe anche se, correttamente, dovrei dire che ho fatto a pugni. Ero un adolescente, frequentavo le scuole medie, non avevo dunque più di tredici-quattordici anni. Avevo allora un grande amico, Lucio, con cui condividevo la giornata e tutto quello che la giornata potesse contenere, dai giochi alle illusioni e fantasie dell'età, fino alla preparazione dei compiti scolastici, che ci dividevamo equamente e ci scambiavamo spudoratamente, alla faccia dei professori. Andavamo a scuola assieme, la mattina, e tornavamo a casa assieme. Dovevamo a un certo punto traversare un prato incolto, uno straccio ondulato di erbacce tra due strade parallele su cui non si era ancora affacciata la speculazione edilizia. Arrivavamo al centro del prato, gettavamo a terra le cartelle, ci toglievamo, quando le avevamo, giacche o cappotti, e cominciavamo a fare a pugni. Non c'era un motivo perché ci picchiassimo, eravamo molto amici, ma i nostri pugni calavano, con voluttà direi, sulle guance arrossate o in mezzo all'esile torace del poco attendibile avversario. Dopo un po', stanchi, smettevamo, riprendevamo abiti e cartelle e tornavamo, sempre assieme, a casa.
La cosa ci piaceva, escogitai un modo per renderla ancora più attraente. Tra la cianfrusaglie di mia madre pescai un pezzo di stoffa robusta, mi pare di ricordare fosse di quel tessuto che si usava per le divise militari, detto grigioverde ma in realtà più verde che grigio. Chiesi a mia madre di ritagliarvi e di cucirne quattro sacchetti di cui le diedi le misure. Li riempii di stracci di ogni stoffa, colore e tipo. Infilando la mano tra questi ritagli, avevamo quasi dei veri guantoni da boxe. Perfino il colore si addiceva alla funzione. Chiamai Lucio, nella mia stanza spostammo da un lato il tavolo su cui di solito facevo i compiti, e cominciammo a darcele di santa ragione. Fieri dei nostri bellissimi guantoni, cercammo di imitare i veri boxeurs, il loro repertorio di mosse, i colpi essenziali, il jab e il cross, l'uppercut, il punch o lo hook, le finte, le schivate, il continuo saltellare. Della variegata terminologia, specialmente quella - così affascinante - inglese, divenni esperto quando, anni dopo, divorai un paio di manuali di boxe. I miei assaggi adolescenziali come boxeur non furono un gran che, pochi lo sanno ma la boxe è una pratica complessa. Nel suo film "Million dollar baby" (Clint Eastwood, 2004), l'allenatore Clint Eastwood dice alla giovane appassionata allieva che "nella boxe devi sempre fare il contrario di quello che ti sentiresti di dover fare". La Oates va sul lirico, e sostiene che "sul ring...il pugile 'nato'...coltiverà una...doppia personalità per vanificare la strategia di gioco" dell'avversario. I pugili, "come i giocatori di scacchi, devono prendere decisioni su due piedi, devono essere capaci di improvvisare nel bel mezzo del combattimento". Cita poi José Torres, un ex campione del mondo dei pesi mediomassimi: "Noi pugili c'intendiamo di bugie. Cos'è una finta? Cos'è un gancio sinistro che parte come un jab? Cos'è un colpo d'assaggio? Cos'è pensare una cosa e farne un'altra?" Oddio, lo stesso si può sostenere anche per altri sport, ma nel pugilato la velocità psicologica, la reattività servono ad evitare il devastante pugno del ko.
Io e Lucio ci appassionammo poco alle vicende di Carnera, ci appariva un mito, una leggenda, ma sfocata e lontana dai nostri interessi; solo nel dopoguerra cominciai ad imbattermi in figure di pugili che attrassero la mia attenzione. Li ritrovo ora nei ritratti che ne fa la Oates. Il repertorio dei nomi da lei citati è infinito, anche se nella lista non troviamo, mi pare, nessun italiano oltre il folkloristico Carnera, nemmeno i bravissimi Nino Benvenuti, Patrizio Oliva o il più grande in assoluto, Bruno Arcari. Per lei, massima espressione della boxe moderna è, l'ho già accennato, Cassius Clay, che famoso lo divenne già da dilettante, vincendo il titolo dei mediomassimi alle olimpiadi romane del 1960. Gli contendono il primo posto nella classifica il grandissimo Joe Louis o "l'imbattuto" Rocky Marciano, ma Cassius Clay assunse presto, "come atleta, campione e icona culturale", un significato "che va al di là dello sport e che nessun altro pugile ha mai raggiunto, né è probabile che raggiunga...".
la leggenda di Cassius Clay
Clay era un nero. Secondo la Oates "i pugili più straordinari sono neri", forse "the niggers" scaricano o, meglio, scaricavano in quel duro sport tutto il peso di frustrazione e di risentimento che covava la loro condizione di "coloured", "diseredati dalla nostra società del benessere" e condannati a vivere in "ghetti impoveriti... dove la rabbia, se non il furore, ha ragione di esistere". Prima di Muhammad, Joe Louis aveva quasi assunto il ruolo di "vendicatore" della razza battendo per k.o. nel 1938, nei soli centoventiquattro secondi dell' "incontro di boxe più famoso della storia americana", il rappresentante della razza superiore ariana, il tedesco Max Schmeling. Ma Muhammad divenne "il portatore dell'immagine di un'epoca" influenzando, con i suoi comportamenti "ostentati e controversi", seguiti spasmodicamente dall'"attezione mediatica", "una nuova generazione di neri". Al di là dell'evento sportivo e delle sue cinquantasei vittorie (e solo cinque sconfitte) Cassius Clay fu figura carismatica. Assunse il nome di Muhammad Alì all'epoca delle grandi battaglie per i diritti civili dei neri e della guerra in Vietnam, diventando così, oltre che un pugile, una figura politica. Polemizzò con il governo e l'autorità e nel 1967, durante la guerra nel Vietnam, rifiutò di vestire la divisa militare ("Sentite, io non ho nente contro questi vietcong") così diventando "una delle figure più denigrate d'America"; addirittura, secondo il Dipartimento di Stato,"un possibile rischio per la sicurezza". Figuriamoci cosa gli accadrebbe oggi, la conversione all'islamismo lo farebbe diventare bersaglio di ogni polemica antiterrorista.
L'ente americano preposto al pugilato gli tolse la licenza e Cassius/ Ali perse, credo, cinque anni di carriera. Dopo vari processi e appelli, la Corte Suprema degli Stati Uniti lo reintegrò nei suoi diritti e il grande pugile ritornò a combattere. Poté così sostenere incontri passati alla storia, del costume prima ancora che della boxe. Tre (la cosidetta "Ali-Frazier trilogy") furono quelli che sostenne con Joe Frazier, uno con George Foreman. Il primo incontro con Frazier si svolse nel 1971 e viene definito come "Fight of the Century", "Incontro del secolo" (8 marzo 1971, New York). Era valido per il Campionato del mondo WBA-WBC, e fu vinto da Frazier. I due sostennero il secondo match nel 1974 sempre a New York, il terzo a Thrilla a Manila, nelle Filippine, nell'ottobre del 1975. Vinse Ali.
un astuto stratagemma
Il match tra Ali e Foreman ebbe luogo nell'ottobre del 1974. Viene ricordato come "The Rumble in The Jungle" ("La rissa nella giungla") perché si svolse allo Stade Tata Raphaël di Kinshasa, Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo). George Foreman era il campione del mondo in carica, Alì lo era stato e voleva riprendersi il titolo per diventare così il secondo a riuscire nell'impresa dopo Floyd Patterson. Fu in questa occasione che Ali utilizzò in modo sopraffino la tecnica del "rope-a-dope". Il nome, dicono le leggende, era originalmente "dope on the ropes", la forma con cui divenne famoso è dovuta ad un pubblicista, tal John Condon. Durante le prime sette riprese, Ali continuamente indietreggiava davanti agli attacchi di Foreman, appoggiandosi alle corde del ring. Da una parte, grazie alla loro elasticità, la trovata attutiva i colpi di Foreman, dall'altra lo sfiancava costringendolo ad un dispendio enorme di energie nello sforzo di inseguire e aggredire Ali e buttarlo giù. Quando, verso la fine dell'ottavo round, si accorse che Foreman era stremato, Ali sferrò una serie di jab e uppercut che fecero crollare il rivale al tappeto per il conteggio finale. Foreman accusò gli allenatori di Ali di aver allentato le corde per favorire il loro campione, e accampò numerose altre scuse per spiegare la sconfitta. Tempo dopo, i due si riconciliarono. Alla consegna dei Premi Oscar dove Ali veniva premiato per "When We Were Kings" - un documentario sull'incontro in Zaire - il fuoriclasse ebbe difficoltà a salire sul palco per via del Parkinson. Fu aiutato a salire i gradini da Foreman. in seguito Foreman si sarebbe ripreso il titolo confermandosi come un vero campione.
Un bel libro che si legge d'un fiato, quello della Oates, seria documentazione ma anche omaggio a quella che, protetta ma anche praticata nel XVIII secolo dagli aristorcratici inglesi, venne definita la "noble art". Affettuosamente, la Oates ci ricorda infine che "la boxe è calata in uno spazio sacro che esisteva prima della civiltà o, per usare una frase di D.H. Lawrence, 'prima che Dio fosse amore' ".
da "Cronache del Garantista", 13 marzo 2015
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Tempo fa ho (ri)visto in TV un film di John Ford del 1952, "The quiet man", starring John Wayne e Maureen O'Hara, forse la più bella rossa di Hollywood. Il film è prettamente fordiano anche se la location è in un borgo d'Irlanda, paese di origine del regista. Dall'idillio dell'innamoramento dei due si sale in crescendo verso un finale, possiamo dire, epico, anzi epico-grottesco, con una memorabile scazzottata tra John Wayne e Victor Mac Laglen che coinvolgerà via via l'intero paese, compresi il prete cattolico e il pastore protestante, in una generale ammucchiata tra pascoli di pecore e stradine di pietra. Ovvia conclusione al pub, tra fiumi di birra - immaginiamo la scura Guinness, gloria d'Irlanda. Sì, Ford è sempre affettuoso.
La scazzottata è un topos forse oggi un po' dimenticato e desueto, ma ha funzionato a lungo come elemento catalizzatore nel quale scaricare le tensioni - serie e drammatiche o, come in questo caso, ironiche e giocose - di un film. Nei western, poi, è (o era) un elemento indispensabile. In uno tra i più famosi, "Il cavaliere della valle solitaria" (George Stevens, 1953), la scazzottata ha sottili risvolti psicologici: Alan Ladd e Van Heflin sono innamorati della stessa donna, la moglie di Van Heflin. Non se lo dicono, ma alla fine daranno vita a una scazzottata anch'essa memorabile, nella quale le non confessate gelosie, i sotterranei e sottaciuti risentimenti, alla fine esplodono. Anche qui, come nel film di Ford, la scazzottata è un momento di catarsi benefica. Direi anzi che la scazzottata filmistica, specie nei western, raramente è provocata da odi e violenze negative. Per questo è piuttosto dettagliata, la sequenza è lunga, insistita, godibile: tanto, alla fine c'è la riconciliazione positiva. Qualche volta i cazzotti sono invece espressione di odio o di sentimenti negativi, e allora la sequenza è solo aspettativa e attesa di morte; come ad esempio la scazzottata di un altro grande film, "I giovani leoni" (Edward Dmytryk, 1958), con Montgomery Clift nella parte del debole, del "piccolo" che attraverso la dura prova difende la sua identità (di ebreo) maltrattata e vilipesa dalla società violenta.
uno sport molto americano
Credo che la scazzottata filmistica sia un topos molto americano, non ho ricordo (potrei però sbagliare) di grandi scazzottate nella filmistica europea. In fondo, la scazzottata è un altro modo di raccontare l'etica americana, l'etica del confronto a due, del duello aperto, virile, quasi sempre leale, ma anche un po' machista. Nel suo godibilissimo libro "Sulla boxe" (edizioni 66THAND2ND, 2015, 17,00 euro), la scrittrice (americana) Joyce Carol Oates percorre e ripercorre storia e cronache di boxe che hanno al loro centro l'America - "è il nostro sport più controverso", afferma - e i suoi impareggiabili campioni, tra i quali brillano Tyson e Cassius Clay alias Muhammad Alì, "il peso massimo più geniale dei tempi moderni". Per lei non vi è dubbio che quello sport (o non sport: "Ma che cos'è poi lo sport?"...) è essenzialmente machista, forse anche "potentemente omoerotico" (e stupisce che lei, donna, se ne sia così ardentemente appassionata, fino a diventarne - il libro ce lo garantisce - una autentica esperta). Secondo la Oates il culmine della parabola americana di questo sport va collocato negli anni venti, ma anche nell'immediato secondo dopoguerra la boxe era, non solo attorno al ring del mitico Madison Square Garden, sport assai diffuso, popolare e seguito. Persino da intellettuali snob: Hemingway pare se ne intendesse, scrittore eccellente di boxe fu Norman Mailer. Fuori d'America, il francese Marcel Cerdan, amante della cantante Edith Piaf, ebbe fan nella migliore società.
io, boxeur immaginario
Ho sempre amato la boxe, purtroppo ho mai visto un incontro se non alla televisione. Oggi è difficile assistere ad un incontro di qualità, la TV ne trasmette qualcuno, piuttosto mediocre, in ore impossibili, ma un tempo la boxe offriva spettacoli indimenticabili. I grandi pugili erano come ballerini, come scultori, artisti in piena regola, era un autentico piacere osservarli mentre danzavano (si dice proprio così, i pugili "danzano" saltellando qua e là per non offrire un bersaglio all'avversario) e ogni mossa, ogni spostamento del corpo o del capo ha un senso preciso, segue regole ferree da cui dipende molto, a volte anche la vita. Io stesso ho fatto boxe anche se, correttamente, dovrei dire che ho fatto a pugni. Ero un adolescente, frequentavo le scuole medie, non avevo dunque più di tredici-quattordici anni. Avevo allora un grande amico, Lucio, con cui condividevo la giornata e tutto quello che la giornata potesse contenere, dai giochi alle illusioni e fantasie dell'età, fino alla preparazione dei compiti scolastici, che ci dividevamo equamente e ci scambiavamo spudoratamente, alla faccia dei professori. Andavamo a scuola assieme, la mattina, e tornavamo a casa assieme. Dovevamo a un certo punto traversare un prato incolto, uno straccio ondulato di erbacce tra due strade parallele su cui non si era ancora affacciata la speculazione edilizia. Arrivavamo al centro del prato, gettavamo a terra le cartelle, ci toglievamo, quando le avevamo, giacche o cappotti, e cominciavamo a fare a pugni. Non c'era un motivo perché ci picchiassimo, eravamo molto amici, ma i nostri pugni calavano, con voluttà direi, sulle guance arrossate o in mezzo all'esile torace del poco attendibile avversario. Dopo un po', stanchi, smettevamo, riprendevamo abiti e cartelle e tornavamo, sempre assieme, a casa.
La cosa ci piaceva, escogitai un modo per renderla ancora più attraente. Tra la cianfrusaglie di mia madre pescai un pezzo di stoffa robusta, mi pare di ricordare fosse di quel tessuto che si usava per le divise militari, detto grigioverde ma in realtà più verde che grigio. Chiesi a mia madre di ritagliarvi e di cucirne quattro sacchetti di cui le diedi le misure. Li riempii di stracci di ogni stoffa, colore e tipo. Infilando la mano tra questi ritagli, avevamo quasi dei veri guantoni da boxe. Perfino il colore si addiceva alla funzione. Chiamai Lucio, nella mia stanza spostammo da un lato il tavolo su cui di solito facevo i compiti, e cominciammo a darcele di santa ragione. Fieri dei nostri bellissimi guantoni, cercammo di imitare i veri boxeurs, il loro repertorio di mosse, i colpi essenziali, il jab e il cross, l'uppercut, il punch o lo hook, le finte, le schivate, il continuo saltellare. Della variegata terminologia, specialmente quella - così affascinante - inglese, divenni esperto quando, anni dopo, divorai un paio di manuali di boxe. I miei assaggi adolescenziali come boxeur non furono un gran che, pochi lo sanno ma la boxe è una pratica complessa. Nel suo film "Million dollar baby" (Clint Eastwood, 2004), l'allenatore Clint Eastwood dice alla giovane appassionata allieva che "nella boxe devi sempre fare il contrario di quello che ti sentiresti di dover fare". La Oates va sul lirico, e sostiene che "sul ring...il pugile 'nato'...coltiverà una...doppia personalità per vanificare la strategia di gioco" dell'avversario. I pugili, "come i giocatori di scacchi, devono prendere decisioni su due piedi, devono essere capaci di improvvisare nel bel mezzo del combattimento". Cita poi José Torres, un ex campione del mondo dei pesi mediomassimi: "Noi pugili c'intendiamo di bugie. Cos'è una finta? Cos'è un gancio sinistro che parte come un jab? Cos'è un colpo d'assaggio? Cos'è pensare una cosa e farne un'altra?" Oddio, lo stesso si può sostenere anche per altri sport, ma nel pugilato la velocità psicologica, la reattività servono ad evitare il devastante pugno del ko.
Io e Lucio ci appassionammo poco alle vicende di Carnera, ci appariva un mito, una leggenda, ma sfocata e lontana dai nostri interessi; solo nel dopoguerra cominciai ad imbattermi in figure di pugili che attrassero la mia attenzione. Li ritrovo ora nei ritratti che ne fa la Oates. Il repertorio dei nomi da lei citati è infinito, anche se nella lista non troviamo, mi pare, nessun italiano oltre il folkloristico Carnera, nemmeno i bravissimi Nino Benvenuti, Patrizio Oliva o il più grande in assoluto, Bruno Arcari. Per lei, massima espressione della boxe moderna è, l'ho già accennato, Cassius Clay, che famoso lo divenne già da dilettante, vincendo il titolo dei mediomassimi alle olimpiadi romane del 1960. Gli contendono il primo posto nella classifica il grandissimo Joe Louis o "l'imbattuto" Rocky Marciano, ma Cassius Clay assunse presto, "come atleta, campione e icona culturale", un significato "che va al di là dello sport e che nessun altro pugile ha mai raggiunto, né è probabile che raggiunga...".
la leggenda di Cassius Clay
Clay era un nero. Secondo la Oates "i pugili più straordinari sono neri", forse "the niggers" scaricano o, meglio, scaricavano in quel duro sport tutto il peso di frustrazione e di risentimento che covava la loro condizione di "coloured", "diseredati dalla nostra società del benessere" e condannati a vivere in "ghetti impoveriti... dove la rabbia, se non il furore, ha ragione di esistere". Prima di Muhammad, Joe Louis aveva quasi assunto il ruolo di "vendicatore" della razza battendo per k.o. nel 1938, nei soli centoventiquattro secondi dell' "incontro di boxe più famoso della storia americana", il rappresentante della razza superiore ariana, il tedesco Max Schmeling. Ma Muhammad divenne "il portatore dell'immagine di un'epoca" influenzando, con i suoi comportamenti "ostentati e controversi", seguiti spasmodicamente dall'"attezione mediatica", "una nuova generazione di neri". Al di là dell'evento sportivo e delle sue cinquantasei vittorie (e solo cinque sconfitte) Cassius Clay fu figura carismatica. Assunse il nome di Muhammad Alì all'epoca delle grandi battaglie per i diritti civili dei neri e della guerra in Vietnam, diventando così, oltre che un pugile, una figura politica. Polemizzò con il governo e l'autorità e nel 1967, durante la guerra nel Vietnam, rifiutò di vestire la divisa militare ("Sentite, io non ho nente contro questi vietcong") così diventando "una delle figure più denigrate d'America"; addirittura, secondo il Dipartimento di Stato,"un possibile rischio per la sicurezza". Figuriamoci cosa gli accadrebbe oggi, la conversione all'islamismo lo farebbe diventare bersaglio di ogni polemica antiterrorista.
L'ente americano preposto al pugilato gli tolse la licenza e Cassius/ Ali perse, credo, cinque anni di carriera. Dopo vari processi e appelli, la Corte Suprema degli Stati Uniti lo reintegrò nei suoi diritti e il grande pugile ritornò a combattere. Poté così sostenere incontri passati alla storia, del costume prima ancora che della boxe. Tre (la cosidetta "Ali-Frazier trilogy") furono quelli che sostenne con Joe Frazier, uno con George Foreman. Il primo incontro con Frazier si svolse nel 1971 e viene definito come "Fight of the Century", "Incontro del secolo" (8 marzo 1971, New York). Era valido per il Campionato del mondo WBA-WBC, e fu vinto da Frazier. I due sostennero il secondo match nel 1974 sempre a New York, il terzo a Thrilla a Manila, nelle Filippine, nell'ottobre del 1975. Vinse Ali.
un astuto stratagemma
Il match tra Ali e Foreman ebbe luogo nell'ottobre del 1974. Viene ricordato come "The Rumble in The Jungle" ("La rissa nella giungla") perché si svolse allo Stade Tata Raphaël di Kinshasa, Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo). George Foreman era il campione del mondo in carica, Alì lo era stato e voleva riprendersi il titolo per diventare così il secondo a riuscire nell'impresa dopo Floyd Patterson. Fu in questa occasione che Ali utilizzò in modo sopraffino la tecnica del "rope-a-dope". Il nome, dicono le leggende, era originalmente "dope on the ropes", la forma con cui divenne famoso è dovuta ad un pubblicista, tal John Condon. Durante le prime sette riprese, Ali continuamente indietreggiava davanti agli attacchi di Foreman, appoggiandosi alle corde del ring. Da una parte, grazie alla loro elasticità, la trovata attutiva i colpi di Foreman, dall'altra lo sfiancava costringendolo ad un dispendio enorme di energie nello sforzo di inseguire e aggredire Ali e buttarlo giù. Quando, verso la fine dell'ottavo round, si accorse che Foreman era stremato, Ali sferrò una serie di jab e uppercut che fecero crollare il rivale al tappeto per il conteggio finale. Foreman accusò gli allenatori di Ali di aver allentato le corde per favorire il loro campione, e accampò numerose altre scuse per spiegare la sconfitta. Tempo dopo, i due si riconciliarono. Alla consegna dei Premi Oscar dove Ali veniva premiato per "When We Were Kings" - un documentario sull'incontro in Zaire - il fuoriclasse ebbe difficoltà a salire sul palco per via del Parkinson. Fu aiutato a salire i gradini da Foreman. in seguito Foreman si sarebbe ripreso il titolo confermandosi come un vero campione.
Un bel libro che si legge d'un fiato, quello della Oates, seria documentazione ma anche omaggio a quella che, protetta ma anche praticata nel XVIII secolo dagli aristorcratici inglesi, venne definita la "noble art". Affettuosamente, la Oates ci ricorda infine che "la boxe è calata in uno spazio sacro che esisteva prima della civiltà o, per usare una frase di D.H. Lawrence, 'prima che Dio fosse amore' ".
domenica 3 maggio 2015
A proposito di un libro di Adolfo Battaglia
IL MODERNO LIBERALISMO DEI RADICALI
di Angiolo Bandinelli
(da "Cronache del Garantista", 26 aprile 2015)
Bisogna riconoscere che la pubblicistica sui temi della laicità - della cultura e della politica laica del nostro paese - è piuttosto ricca e di qualità. Spesso ha i toni del rimpianto - il rimpianto per ciò che poteva essere e non fu - e dell'accusa verso quanti non capirono, se non anche boicottarono i tentativi, la speranza, o l'illusione, che il paese, appunto, potesse divenire una democrazia occidentale, una di quelle che a buon diritto possono definirsi laiche. In questa pubblicistica si sente anche covare il rancore per ciò che invece è accaduto, vale a dire la lunghissima stagione del monopartitismo più o meno imperfetto, del compromesso storico - o come altro volete chiamarlo - con i due partiti di massa, la democrazia cristiana e il partito comunista, almeno formalmente divisi e antagonisti su tutto ciò che attinesse al governo, al potere e ai suoi dintorni ma strettissimamente concordanti sulla necessità di strangolare ogni tentativo di far nascere e crescere la pianticella laica.
Eppure di premesse - di buona semente, di egregi ingegni adatti alla bisogna, capaci cioè di dare senso e forza ad una ipotesi di governo, o di cultura, laica o, come si disse, "terzaforzista" - ce ne sono state parecchie, in questo dopoguerra. Se poi risaliamo ancora più indietro, sul piano storico, la messe si moltiplica. Recentemente è uscito il secondo volume di un validissimo "Dizionario del Liberalismo Italiano"(Rubbettino, 2015) che ci offre una antologia di personaggi e figure storiche fin troppo ampia, con nomi ovvi ed indiscutibili ma anche altri la cui patente di purezza laica è un po' meno specchiata. E adesso arriva un libro di Adolfo Battaglia che vuole essere insieme appassionata rievocazione autobiografica e dolente riflessione sulla storia del paese e sulle ragioni che hanno impedito la nascita e la crescita di quel terzo polo laico per il quale lo stesso Battaglia si è speso. Battaglia è figura sicuramente rappresentativa di un'ala decorosissima dello schieramento laico italiano, lo storico Partito Repubblicano Italiano. Lo ricordo benissimo, giovane notista politico de “Il Mondo" di Pannunzio: le sue colonnine erano, nella rubrica "Taccuino", lucide, asciutte e competenti.
Recensendo il libro su "Il Sole-24 Ore", Massimo Teodori finisce anche lui col porsi la fatidica domanda, del perchè in Italia non abbia attecchito una forza laica capace di scardinare il duopolio DC-PCI. Si applicarono all'impresa un Malagodi o un La Malfa (padre), Pannunzio o lo stesso Saragat del primo PSDI. Non riuscirono, nessuno di loro. Perché? La domanda è un tormentone. Tutti coloro che vi si sono applicati sono concordi, alla fine, nell'imprecare contro una sorta di sordo fato che si sarebbe posto di traverso e avrebbe fatto fallire quelle speranze. Nessuno di loro vuole riconoscere, invece, che la risposta, chiara ed evidente, non appartiene alla categoria delle dietrologie o dei (ragionevoli) rimpianti: semplicemente, in Italia le forze laiche non hanno avuto fortuna semplicemente perché non lo meritavano. Non erano attrezzate alla bisogna. Ricche, strabordanti di intelligenze e di cultura (e, assai spesso, di accademici) non ebbero, nessuna di loro, l'intelligenza politica di avvertire che, nell'epoca delle grandi masse, a queste occorreva saper parlare per tentare di sottrarle ai linguaggi semplici ma efficaci delle due macchine da voto, la DC con le sue parrocchie e il PCI con il doppismo di Togliatti o il fascino di Berlinguer. Nessuno di quanti si diedero alla bisogna capì il punto essenziale. E mi sia a questo punto consentito, da vecchio militante, ricordare qualcuno, di stampo schiettamente laico, che il problema seppe risolverlo. Fu Marco Pannella. Quando, incontrandosi con un altro “emarginato”, Loris Fortuna, avviò la battaglia del divorzio, la massima parte di quei laici lo derise o quanto meno se ne allontanò, perfino disgustata. Dal Partito Repubblicano non venne un aperto appoggio alla campagna, nelle file dei radicali pannunziani militava Leone Cattani, che il divorzio addirittura lo avversava, e il "Mondo" stesso, per quel che all'epoca ne restava, non spese una parola a favore. Il solo esponente laico che si accostò subito, coraggiosamente, alla striminzita pattuglietta pannelliana fu Ernesto Rossi, con quel suo anticlericalismo un po' ottocentesco riguardato con spocchia dai laici “moderni” del "Mondo" o anche del Partito Repubblicano lamalfiano: laico sì, ma bene attento a non rompere il filo degli accordi di governo con la Democrazia Cristiana. E, oltre al liberale Antonio Baslini che si affiancò validamente a Fortuna, fu il socialista Mancini a dare impulso all'iter legislativo del divorzio, ma in contrasto con l'ala di De Martino.
La formula laica di Pannella era semplicissima, spericolatamente antagonista alla linea politica della DC e del PCI: parlare al ventre delle masse popolari, direttamente alle donne restate solitarie nelle case abbandonate dai mariti, alle vedove bianche, ai fuorilegge del matrimonio, ai lettori e alle lettrici di quel settimanale sporco e volgare che era ABC, divenuto subito indispensabile veicolo della campagna divorzista anche se schifato dalle intellettuali e dagli intellettuali PCI e magari anche democratico-laici. Fu una grande, grandissima, esemplare campagna laica, vinta non dai partiti laici ma da trasgressive donne comuniste, cattoliche e missine. E lo stesso può dirsi della campagna per l'aborto, attorno alla quale i cervelloni laici si divisero e si contraddissero, letteralmente ignari, inconsapevoli di quello che in termini sociali diretti quel tema evocava nella mente e nei corpi delle donne (e degli uomini) degli strati più umili e subalterni della società. Il gap di intelligenza teorica necessario per capire quanto sia stata profonda la rivoluzione culturale di Pannella (che trovò il suo acme nelle campagne referendarie, anche esse non amate dai partiti laici) non è stato ancora colmato, sul piano storico e teorico. Il libro di Battaglia ci mostra una faccia siuramente dignitosa di una antica, e ormai dissolta, vicenda culturale e politica, ma ci aiuta poco ad affrontare il grande tema di cosa significhi realmente fare una politica laica - dico laica, non borghese - nel paese che ospita, piaccia o no, il trono di San Pietro e ha visto nascere il più grande partito comunista dell'Occidente.
E pensare che per fare una grande politica laica bastarono, allora, un paio di ciclostili elettrici, molti sit-in e un po' di dedizione personale. Ho collaborato volentieri al "Dizionario" della Rubbettino, posseggo naturalmente i due utilissimi volumi. Ma ho anche una collezione di “Agenzia Radicale" ciclostilata (1962) e una copia della rivista “La Prova Radicale” (1971). Di cui, ahimè, non trovo traccia nel grande "Dizionario del Liberalismo Italiano".
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Adolfo Battaglia, "Né un soldo né un voto - Memoria e riflessioni dell'Italia laica". Prefazione di Stefano Folli. Il Mulino, Bologna, pagg. 332, 24.00 euro
Il libro sarà presentato a Roma, alla Camera dei Deputati - Sala del Cenacolo - il 7 maggio, alle 17,30. Interverranno Gerardo Bianco, Giuliano Ferrara, Giuseppe Galasso, Stefano Folli, Alfredo Reichlin. Presiderà Giorgio Bogi.
IL MODERNO LIBERALISMO DEI RADICALI
di Angiolo Bandinelli
(da "Cronache del Garantista", 26 aprile 2015)
Bisogna riconoscere che la pubblicistica sui temi della laicità - della cultura e della politica laica del nostro paese - è piuttosto ricca e di qualità. Spesso ha i toni del rimpianto - il rimpianto per ciò che poteva essere e non fu - e dell'accusa verso quanti non capirono, se non anche boicottarono i tentativi, la speranza, o l'illusione, che il paese, appunto, potesse divenire una democrazia occidentale, una di quelle che a buon diritto possono definirsi laiche. In questa pubblicistica si sente anche covare il rancore per ciò che invece è accaduto, vale a dire la lunghissima stagione del monopartitismo più o meno imperfetto, del compromesso storico - o come altro volete chiamarlo - con i due partiti di massa, la democrazia cristiana e il partito comunista, almeno formalmente divisi e antagonisti su tutto ciò che attinesse al governo, al potere e ai suoi dintorni ma strettissimamente concordanti sulla necessità di strangolare ogni tentativo di far nascere e crescere la pianticella laica.
Eppure di premesse - di buona semente, di egregi ingegni adatti alla bisogna, capaci cioè di dare senso e forza ad una ipotesi di governo, o di cultura, laica o, come si disse, "terzaforzista" - ce ne sono state parecchie, in questo dopoguerra. Se poi risaliamo ancora più indietro, sul piano storico, la messe si moltiplica. Recentemente è uscito il secondo volume di un validissimo "Dizionario del Liberalismo Italiano"(Rubbettino, 2015) che ci offre una antologia di personaggi e figure storiche fin troppo ampia, con nomi ovvi ed indiscutibili ma anche altri la cui patente di purezza laica è un po' meno specchiata. E adesso arriva un libro di Adolfo Battaglia che vuole essere insieme appassionata rievocazione autobiografica e dolente riflessione sulla storia del paese e sulle ragioni che hanno impedito la nascita e la crescita di quel terzo polo laico per il quale lo stesso Battaglia si è speso. Battaglia è figura sicuramente rappresentativa di un'ala decorosissima dello schieramento laico italiano, lo storico Partito Repubblicano Italiano. Lo ricordo benissimo, giovane notista politico de “Il Mondo" di Pannunzio: le sue colonnine erano, nella rubrica "Taccuino", lucide, asciutte e competenti.
Recensendo il libro su "Il Sole-24 Ore", Massimo Teodori finisce anche lui col porsi la fatidica domanda, del perchè in Italia non abbia attecchito una forza laica capace di scardinare il duopolio DC-PCI. Si applicarono all'impresa un Malagodi o un La Malfa (padre), Pannunzio o lo stesso Saragat del primo PSDI. Non riuscirono, nessuno di loro. Perché? La domanda è un tormentone. Tutti coloro che vi si sono applicati sono concordi, alla fine, nell'imprecare contro una sorta di sordo fato che si sarebbe posto di traverso e avrebbe fatto fallire quelle speranze. Nessuno di loro vuole riconoscere, invece, che la risposta, chiara ed evidente, non appartiene alla categoria delle dietrologie o dei (ragionevoli) rimpianti: semplicemente, in Italia le forze laiche non hanno avuto fortuna semplicemente perché non lo meritavano. Non erano attrezzate alla bisogna. Ricche, strabordanti di intelligenze e di cultura (e, assai spesso, di accademici) non ebbero, nessuna di loro, l'intelligenza politica di avvertire che, nell'epoca delle grandi masse, a queste occorreva saper parlare per tentare di sottrarle ai linguaggi semplici ma efficaci delle due macchine da voto, la DC con le sue parrocchie e il PCI con il doppismo di Togliatti o il fascino di Berlinguer. Nessuno di quanti si diedero alla bisogna capì il punto essenziale. E mi sia a questo punto consentito, da vecchio militante, ricordare qualcuno, di stampo schiettamente laico, che il problema seppe risolverlo. Fu Marco Pannella. Quando, incontrandosi con un altro “emarginato”, Loris Fortuna, avviò la battaglia del divorzio, la massima parte di quei laici lo derise o quanto meno se ne allontanò, perfino disgustata. Dal Partito Repubblicano non venne un aperto appoggio alla campagna, nelle file dei radicali pannunziani militava Leone Cattani, che il divorzio addirittura lo avversava, e il "Mondo" stesso, per quel che all'epoca ne restava, non spese una parola a favore. Il solo esponente laico che si accostò subito, coraggiosamente, alla striminzita pattuglietta pannelliana fu Ernesto Rossi, con quel suo anticlericalismo un po' ottocentesco riguardato con spocchia dai laici “moderni” del "Mondo" o anche del Partito Repubblicano lamalfiano: laico sì, ma bene attento a non rompere il filo degli accordi di governo con la Democrazia Cristiana. E, oltre al liberale Antonio Baslini che si affiancò validamente a Fortuna, fu il socialista Mancini a dare impulso all'iter legislativo del divorzio, ma in contrasto con l'ala di De Martino.
La formula laica di Pannella era semplicissima, spericolatamente antagonista alla linea politica della DC e del PCI: parlare al ventre delle masse popolari, direttamente alle donne restate solitarie nelle case abbandonate dai mariti, alle vedove bianche, ai fuorilegge del matrimonio, ai lettori e alle lettrici di quel settimanale sporco e volgare che era ABC, divenuto subito indispensabile veicolo della campagna divorzista anche se schifato dalle intellettuali e dagli intellettuali PCI e magari anche democratico-laici. Fu una grande, grandissima, esemplare campagna laica, vinta non dai partiti laici ma da trasgressive donne comuniste, cattoliche e missine. E lo stesso può dirsi della campagna per l'aborto, attorno alla quale i cervelloni laici si divisero e si contraddissero, letteralmente ignari, inconsapevoli di quello che in termini sociali diretti quel tema evocava nella mente e nei corpi delle donne (e degli uomini) degli strati più umili e subalterni della società. Il gap di intelligenza teorica necessario per capire quanto sia stata profonda la rivoluzione culturale di Pannella (che trovò il suo acme nelle campagne referendarie, anche esse non amate dai partiti laici) non è stato ancora colmato, sul piano storico e teorico. Il libro di Battaglia ci mostra una faccia siuramente dignitosa di una antica, e ormai dissolta, vicenda culturale e politica, ma ci aiuta poco ad affrontare il grande tema di cosa significhi realmente fare una politica laica - dico laica, non borghese - nel paese che ospita, piaccia o no, il trono di San Pietro e ha visto nascere il più grande partito comunista dell'Occidente.
E pensare che per fare una grande politica laica bastarono, allora, un paio di ciclostili elettrici, molti sit-in e un po' di dedizione personale. Ho collaborato volentieri al "Dizionario" della Rubbettino, posseggo naturalmente i due utilissimi volumi. Ma ho anche una collezione di “Agenzia Radicale" ciclostilata (1962) e una copia della rivista “La Prova Radicale” (1971). Di cui, ahimè, non trovo traccia nel grande "Dizionario del Liberalismo Italiano".
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Adolfo Battaglia, "Né un soldo né un voto - Memoria e riflessioni dell'Italia laica". Prefazione di Stefano Folli. Il Mulino, Bologna, pagg. 332, 24.00 euro
Il libro sarà presentato a Roma, alla Camera dei Deputati - Sala del Cenacolo - il 7 maggio, alle 17,30. Interverranno Gerardo Bianco, Giuliano Ferrara, Giuseppe Galasso, Stefano Folli, Alfredo Reichlin. Presiderà Giorgio Bogi.
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