sabato 21 marzo 2015


Fiele, un cazzo, Professo'. Lei cancella il post al quale era indirizzato il mio commento, che peraltro rimaneggia, e non risponde alla domanda, alla quale mi pare sia tenuto come (qui mi viene un po' da ridere, ma fa nulla) personaggio pubblico. Gliela riformulo: come può aver accettato una soluzione che lei definiva di privilegio, nel mentre si batteva perché a tutti fosse concessa una soluzione di legalità? I miei rispetti, eh.

venerdì 20 marzo 2015

Rileggo questo commento lasciato nel mio blog il 19/9/12, anche firmato. Era diretto a (contro di) me, il "Professore" di cui parla sono io. Non dimenticatela, questa firma, Luigi Castaldi. Se incontrate l'uomo, girate al largo, schizza fiele.  Lo ripropongo per il piacere dei nuovi lettori. Anzi, mi riprometto di postarlo, da oggi in poi, di frequente.


Ho trovato molto bello: "L'ipocrita pensa che nessuna verità sia davvero innocente". Non sia ipocrita, professore (di Lettere presso un Istituto tecnico), mi dimostri quanto sia innocente la verità relativa all'annullamento del suo primo matrimonio che lei chiese e ottenne alla Sacra Rota (ne ho trovato notizia su un numero di Panorama del 1971). M'ha dato molto da pensare, sa? Nel metodo e nel merito. In primis, erano gli anni - sul finire dei Sessanta - nei quali lei scriveva vibranti pezzulli in favore del divorzio, stigmatizzando l'ipocrisia di quanti erano contrari ma poi ricorrevano alla Sacra Rota per sistemare i cazzi propri, potendo permetterselo (ho trovato tre suoi incisi sull'esosità delle pratiche burocratiche, un'altra volta, se vuole, potrà intrattenersi sull'innocente verità del dove ha trovato il denaro necessario). Sulla carta l'argomento tiene: divorzio (legalità) contro annullamento (privilegio), un po' come con la legge 194 contro l'aborto clandestino.

giovedì 19 marzo 2015



DOPO IL "SELMA BRIDGE", QUALI SCELTE PER OBAMA?
da "L'Opinione" di martedì 17 marzo

L'America - l'America di Obama - è in difficoltà, sul fronte interno ma soprattutto sul fronte della politica estera. Sul fronte interno i dati relativi all'economia sembrano discreti, con una ripresa, anche nel cruciale settore dell'occupazione, abbastanza sostanziosa. Si tratta ora di valutare il significato dell'apprezzamento del dollaro sull'euro, un dato positivo per l'economia e le esportazioni europee ma che non favorisce la moneta e l'economia statunitense. Probabilmente, l'iniziativa di partecipare attivamente, il 7 marzo scorso, alle celebrazioni dello storico evento della “marcia” del Selma Bridge (1965), attirerà di nuovo su Obama le simpatie (e il voto, nel 2016) della minoranza nera e forse anche delle nuove grandi minoranze dei “ladinos” che soffrono di discriminazioni, si vedono contrastato l'ingresso negli States più o meno come accade alle ondate dei “migrantes” del Mediterraneo e, quando vi riescono, spesso vivono in piena illegalità. Sul piano interno, insomma, Obama ha avviato una operazione di recupero e risalita, anche se l'opposizione repubblicana, al Congresso e fuori, cercherà con tutte le sue forze (e i suoi dollari) di contrastarla. E' nel settore della politica estera che le difficoltà, invece, non accennano a diminuire. Il premier israeliano, Netanhyau, ha pronunciato dinanzi al Congresso americano (dominato dai repubblicani) parole pesanti contro la politica mediorientale di Obama. L'obiettivo immediato ed urgente era di attirare l'attenzione sul suo partito in vista delle elezioni del 17: per Netanhyau non c'è possibiltà di compromesso di fronte alla possibile emergenza atomica dell'Iran, nei confronti del quale è dunque necessario un intervento immediato e radicale con il pieno coinvolgimento degli USA. Ugualmente in difficoltà è Obama per quel che riguarda le modalità del contrasto nei confronti dell'ISIS, che Obama sembra contrario ad affrontare con il diretto intervento dell'esercito americano.

Ma, al di là di questo o quell'episodio, al di là dispecifici errori o possibili difetti del primo Presidente americano “nero”, quello che si rimprovera a lui e al suo paese è la mancanza - perché tale sembra essere – di un disegno globale che faccia tornare l'America ai fasti di un tempo, quando era la superpotenza capace di tenere in ordine il mondo e di impedire ai nuovi totalitarismi e fondamentalismi, alle antidemocrazie, alle forze comunque ostili o riottose, di minacciare  l'Occidente e la sua concezione della democrazia e i suoi valori di fondo. Riemerge, anche se non palese, l'esortazione, così cara ai "neocons" di un tempo, perché l'America torni ad essere il paese “marziano”, guerriero,  bellicoso, che si contrappone idealmente ad una Europa “venusiana”, votata al culto della molle dea dell'amore, incapace di assumersi responsabilità, fiaccata da un pacifismo irenico e sostanzialmente impotente. Secondo quei neocons ( e i loro assimilati) l'America doveva (anzi, deve, perché i termini della questione sembrano ancor oggi gli stessi) contrastare quella che sembrava (e sembra ancor oggi) la inevitabile sindrome di un “declino imperiale" - riprendo il termine da un vecchio articolo di Irving Kristol - cui l'America non può o non deve sottrarsi: i confini di questo impero non sono segnati da bandierine a stelle-e-strisce piantate sulle carte geografiche, ma da vincoli e impegni ideali e morali che vanno sentiti come parte integrante della “american way of life”. Concordava pienamente con Kristol un altro eminente intellettuale quale Robert Kagan, per il quale “sostenere la promozione della democrazia all'estero non è un segno di arroganza, bensì di umiltà”, perché “quando una democrazia fallisce, dovremmo aiutarla a rimettersi in piedi”.

La conseguenza di queste idee fu l'intervento militare in Iraq, iniziato il 20 marzo 2003 con l'invasione di quel paese da parte di una coalizione multinazionale di circa 300.000 uomini guidata dagli Stati Uniti d'America, e terminato il 15 dicembre 2011 col passaggio dei poteri all'autorità irachena. Quell'intervento fu disastroso, innanzitutto per l'immagine internazionale degli Stati Uniti. Il presidente George Bush (junior) aveva dichiarato, ricevendo la piena solidarietà del premier inglese Tony Blair, che Saddam Hussein, il dittatore iracheno, era in possesso di "armi di distruzione di massa" che costituivano un pericolo per il mondo intero. La guerra fu vinta facilmente, grazie forse al tradimento di alcuni generali iracheni, Hussein venne catturato, consegnato alle nuove autorità del paese, e da queste messo a morte nel 2006. Secondo Marco Pannella, sarebbe stato invece possibile evitare la guerra senza distruzioni o vittime umane, civili oltreché militari, perché Hussein si era dichiarato pronto ad uscire di scena e ad andare in esilio se gli fosse stata risparmiata la vita. Comunque si voglia giudicare la vicenda, la seconda guerra irachena ha segnato probabilmente l'ultimo atto di quella concezione imperiale che i neocons avevano difeso e promosso accanitamente.

Quando Obama si presentò per la prima volta alle elezioni presidenziali inalberò un motto, "Yes, we can", che ci dice eloquentemente quanto profonda fosse la depressione, la frustrazione, lo smarrimento del popolo americano per la seconda volta, dopo la disfatta nel Vietnam, colpito nel suo orgoglio e nelle sue certezze e in cerca di rassicurazioni e di qualche iniezione di speranza e di fiducia. Sono molti a pensare che Obama abbia tradito i suoi impegni e mancato all'attesa. Un giudizio complessivo ed equilibrato dovrà essere affidato agli storici ma è difficile, per l'oggi, sottrarsi al dubbio che quell'America depressa e in preda a una devastanzte crisi economica potesse sobbarcarsi ad un onere così gravoso come quello di sostenere un costoso ed impegnativo ruolo "imperiale". C'è anche da considerare che il mondo di oggi, globalizzato e multipolare, difficilmente potrebbe accettare l'immagine di una America "gendarme" del mondo.

Con il bellissimo discorso tenuto alla commemorazione di "Selma Bridge", Obama sembra aver affidato i destini politici suoi e dei democratici alla ripresa dei grandi temi dei diritti civili che furono propri all'America degli anni '60, e che giustificarono anche il primato del paese nel mondo. I prossimi mesi diranno qualcosa di più. La corsa alla Presidenza degli USA è comunque cominciata.



lunedì 16 marzo 2015

A V V I S O   U T I L E

Colf rumena, cinquantenne, abile, zelante, massima serietà, assolutamente affidabile, cerca lavoro per uno/due giorni alla settimana, (min. 3 ore) in zone facilmente raggiungibili da Termini.
Contattare me attraverso il blog o all'indirizzo e.mail:
angiolo.bandinelli@tiscali.it

(accordi diretti, nessun problema contributi)

domenica 15 marzo 2015

LO SPAZIO SACRO DELLA BOXE
da "Cronache del Garantista", 13 marzo 2015
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Tempo fa ho (ri)visto in TV un film di John Ford del 1952, "The quiet man", starring John Wayne e Maureen O'Hara, forse la più bella rossa di Hollywood. Il film è prettamente fordiano anche se la location è in un borgo d'Irlanda, paese di origine del regista. Dall'idillio dell'innamoramento dei due si sale in crescendo verso un finale, possiamo dire, epico, anzi epico-grottesco, con una memorabile scazzottata tra John Wayne e Victor Mac Laglen che coinvolgerà via via l'intero paese, compresi il prete cattolico e il pastore protestante, in una generale ammucchiata tra pascoli di pecore e stradine di pietra. Ovvia conclusione al pub, tra fiumi di birra - immaginiamo la scura Guinness, gloria d'Irlanda. Sì, Ford è sempre affettuoso.

La scazzottata è un topos forse oggi un po' dimenticato e desueto, ma ha funzionato a lungo come elemento catalizzatore nel quale scaricare le tensioni -  serie e drammatiche o, come in questo caso, ironiche e giocose - di un film. Nei western, poi, è (o era) un elemento indispensabile. In uno tra i più famosi, "Il cavaliere della valle solitaria" (George Stevens, 1953), la scazzottata ha sottili risvolti psicologici: Alan Ladd e Van Heflin sono innamorati della stessa donna, la moglie di Van Heflin. Non se lo dicono, ma alla fine daranno vita a una scazzottata anch'essa memorabile, nella quale le non confessate gelosie, i sotterranei e sottaciuti risentimenti, alla fine esplodono. Anche qui, come nel film di Ford, la scazzottata è un momento di catarsi benefica. Direi anzi che la scazzottata filmistica, specie nei western, raramente è provocata da odi e violenze negative. Per  questo è piuttosto dettagliata, la sequenza è lunga, insistita, godibile: tanto, alla fine c'è la riconciliazione positiva. Qualche volta i cazzotti sono invece espressione di odio o di sentimenti negativi, e allora la sequenza è solo  aspettativa e attesa di morte; come ad esempio la scazzottata di un altro grande film, "I giovani leoni" (Edward Dmytryk, 1958), con Montgomery Clift nella parte del debole, del "piccolo" che attraverso la dura prova difende la sua identità (di ebreo) maltrattata e vilipesa dalla società violenta. 

uno sport molto americano

Credo che la scazzottata filmistica sia un topos molto americano, non ho ricordo (potrei però sbagliare) di grandi scazzottate nella filmistica europea. In fondo, la scazzottata è un altro modo di raccontare l'etica americana, l'etica del confronto a due, del duello aperto, virile, quasi sempre leale, ma anche un po' machista. Nel suo godibilissimo libro "Sulla boxe" (edizioni 66THAND2ND, 2015, 17,00 euro), la scrittrice (americana) Joyce Carol Oates percorre e ripercorre storia e cronache di boxe che hanno al loro centro l'America - "è il nostro sport più controverso", afferma - e i suoi impareggiabili campioni, tra i quali brillano Tyson e  Cassius Clay alias Muhammad Alì, "il peso massimo più geniale dei tempi moderni". Per lei non vi è dubbio che quello sport (o non sport: "Ma che cos'è poi lo sport?"...) è essenzialmente machista, forse anche "potentemente omoerotico" (e stupisce che lei, donna, se ne sia così ardentemente appassionata, fino a diventarne - il libro ce lo garantisce - una autentica esperta).  Secondo la Oates il culmine della parabola americana di questo sport va collocato negli anni venti, ma anche nell'immediato secondo dopoguerra la boxe era, non solo attorno al ring del mitico Madison Square Garden, sport assai diffuso, popolare e seguito. Persino da intellettuali snob: Hemingway pare se ne intendesse, scrittore eccellente di boxe fu Norman Mailer. Fuori d'America, il francese Marcel Cerdan, amante della cantante Edith Piaf, ebbe fan nella migliore società.

io, boxeur immaginario

Ho sempre amato la boxe, purtroppo ho mai visto un incontro se non alla televisione. Oggi è difficile assistere ad un incontro di qualità, la TV ne trasmette qualcuno, piuttosto mediocre, in ore impossibili, ma un tempo la boxe offriva spettacoli indimenticabili. I grandi pugili erano come ballerini, come scultori, artisti in piena regola, era un autentico piacere osservarli mentre danzavano (si dice proprio così, i pugili "danzano" saltellando qua e là per non offrire un bersaglio all'avversario) e ogni mossa, ogni  spostamento del corpo o del capo ha un senso preciso, segue regole ferree da cui dipende molto, a volte anche la vita. Io stesso ho fatto boxe anche se,  correttamente, dovrei dire che ho fatto a pugni. Ero un adolescente, frequentavo le scuole medie, non avevo dunque più di tredici-quattordici anni. Avevo allora un grande amico, Lucio, con cui condividevo la giornata e tutto quello che la giornata potesse contenere, dai giochi alle illusioni e fantasie dell'età, fino alla preparazione dei compiti scolastici, che ci dividevamo equamente e ci scambiavamo spudoratamente, alla faccia dei professori. Andavamo a scuola assieme, la mattina, e tornavamo a casa assieme. Dovevamo a un certo punto traversare un prato incolto, uno straccio ondulato di erbacce tra due strade parallele su cui non si era ancora affacciata la speculazione edilizia. Arrivavamo al centro del prato, gettavamo a terra le cartelle, ci toglievamo, quando le avevamo, giacche o cappotti, e cominciavamo a fare a pugni. Non c'era un motivo perché ci picchiassimo, eravamo molto amici, ma i nostri pugni calavano, con voluttà direi, sulle guance arrossate o in mezzo all'esile torace del poco attendibile avversario. Dopo un po', stanchi, smettevamo, riprendevamo abiti e cartelle e tornavamo, sempre assieme, a casa.

La cosa ci piaceva, escogitai un modo per renderla ancora più attraente. Tra la cianfrusaglie di mia madre pescai un pezzo di stoffa robusta, mi pare di ricordare fosse di quel tessuto che si usava per le divise militari, detto grigioverde ma in realtà più verde che grigio. Chiesi a mia madre di ritagliarvi e di cucirne quattro sacchetti di cui le diedi le misure. Li riempii di stracci di ogni stoffa, colore e tipo. Infilando la mano tra questi ritagli, avevamo quasi dei veri guantoni da boxe. Perfino il colore si addiceva alla funzione. Chiamai Lucio, nella mia stanza spostammo da un lato il tavolo su cui di solito facevo i compiti, e cominciammo a darcele di santa ragione. Fieri dei nostri bellissimi guantoni, cercammo di imitare i veri boxeurs, il loro repertorio di mosse, i colpi essenziali, il jab e il cross, l'uppercut, il punch o lo hook, le finte, le schivate, il continuo saltellare. Della variegata terminologia, specialmente quella - così affascinante - inglese, divenni esperto quando, anni dopo, divorai un paio di manuali di boxe. I miei assaggi adolescenziali come boxeur non furono un gran che, pochi lo sanno ma la boxe è una pratica complessa. Nel suo film "Million dollar baby" (Clint Eastwood, 2004), l'allenatore Clint Eastwood dice alla giovane appassionata allieva che "nella boxe devi sempre fare il contrario di quello che ti sentiresti di dover fare". La Oates va sul lirico, e sostiene che "sul ring...il pugile 'nato'...coltiverà una...doppia personalità per vanificare la strategia di gioco" dell'avversario. I pugili, "come i giocatori di scacchi, devono prendere decisioni su due piedi, devono essere capaci di improvvisare nel bel mezzo del combattimento". Cita poi José Torres, un ex campione del mondo dei pesi mediomassimi: "Noi pugili c'intendiamo di bugie. Cos'è una finta? Cos'è un gancio sinistro che parte come un jab? Cos'è un colpo d'assaggio? Cos'è pensare una cosa e farne un'altra?" Oddio, lo stesso si può sostenere anche per altri sport, ma nel pugilato la velocità psicologica, la reattività servono ad evitare il devastante pugno del ko.

Io e Lucio ci appassionammo poco alle vicende di Carnera, ci appariva un mito, una leggenda, ma sfocata e lontana dai nostri interessi; solo nel dopoguerra cominciai ad imbattermi in figure di pugili che attrassero la mia attenzione. Li ritrovo ora nei ritratti che ne fa la Oates. Il repertorio dei nomi da lei citati è infinito, anche se nella lista non troviamo, mi pare, nessun italiano oltre il folkloristico Carnera, nemmeno i bravissimi Nino Benvenuti, Patrizio Oliva o il più grande in assoluto, Bruno Arcari. Per lei, massima espressione della boxe moderna è, l'ho già accennato, Cassius Clay, che famoso lo divenne già da dilettante, vincendo il titolo dei mediomassimi alle olimpiadi romane del 1960. Gli contendono il primo posto nella classifica il grandissimo Joe Louis o "l'imbattuto" Rocky Marciano, ma Cassius Clay assunse presto, "come atleta, campione e icona culturale", un significato "che va al di là dello sport e che nessun altro pugile ha mai raggiunto, né è probabile che raggiunga...".

la leggenda di Cassius Clay
Clay era un nero. Secondo la Oates "i pugili più straordinari sono neri", forse "the niggers" scaricano o, meglio, scaricavano in quel duro sport tutto il peso di frustrazione e di risentimento che covava la loro condizione di "coloured", "diseredati dalla nostra società del benessere" e condannati a vivere in "ghetti impoveriti... dove la rabbia, se non il furore, ha ragione di esistere". Prima di Muhammad,  Joe Louis aveva quasi assunto il ruolo di "vendicatore" della razza battendo per k.o. nel 1938, nei soli centoventiquattro secondi dell' "incontro di boxe più famoso della storia americana", il rappresentante della razza superiore ariana, il tedesco Max Schmeling. Ma Muhammad divenne "il portatore dell'immagine di un'epoca" influenzando, con i suoi comportamenti "ostentati e controversi", seguiti spasmodicamente dall'"attezione mediatica", "una nuova generazione di neri". Al di là dell'evento sportivo e delle sue cinquantasei vittorie (e solo cinque sconfitte) Cassius Clay fu figura carismatica. Assunse il nome di Muhammad Alì all'epoca delle grandi battaglie per i diritti civili dei neri e della guerra in Vietnam,  diventando così, oltre che un pugile, una figura politica. Polemizzò con il governo e l'autorità e nel 1967, durante la guerra nel Vietnam, rifiutò di vestire la divisa militare  ("Sentite, io non ho nente contro questi vietcong") così diventando "una delle figure più denigrate d'America"; addirittura, secondo il Dipartimento di Stato,"un possibile rischio per la sicurezza". Figuriamoci cosa gli accadrebbe oggi, la conversione all'islamismo lo farebbe diventare bersaglio di ogni polemica antiterrorista.

L'ente americano preposto al pugilato gli tolse la licenza e Cassius/ Ali perse, credo, cinque anni di carriera. Dopo vari processi e appelli, la Corte Suprema degli Stati Uniti lo reintegrò nei suoi diritti e il grande pugile ritornò a combattere. Poté così sostenere incontri passati alla storia, del costume prima ancora che della boxe. Tre (la cosidetta "Ali-Frazier trilogy") furono quelli che sostenne con Joe Frazier, uno con George Foreman. Il primo incontro con Frazier si svolse nel 1971 e viene definito come "Fight of the Century", "Incontro del secolo" (8 marzo 1971, New York). Era valido per il Campionato del mondo WBA-WBC, e fu vinto da Frazier. I due sostennero il secondo match nel 1974 sempre a New York, il terzo a Thrilla a Manila, nelle Filippine, nell'ottobre del 1975. Vinse Ali.

un astuto stratagemma

Il match tra Ali e Foreman ebbe luogo nell'ottobre del 1974. Viene ricordato come "The Rumble in The Jungle" ("La rissa nella giungla") perché si svolse allo Stade Tata Raphaël di Kinshasa, Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo). George Foreman era il campione del mondo in carica, Alì lo era stato e voleva riprendersi il titolo per diventare così  il secondo a riuscire nell'impresa dopo Floyd Patterson. Fu in questa occasione che Ali utilizzò in modo sopraffino la tecnica del "rope-a-dope". Il nome, dicono le leggende, era originalmente "dope on the ropes", la forma con cui divenne famoso è dovuta ad un pubblicista, tal John Condon. Durante le prime sette riprese, Ali continuamente indietreggiava davanti agli attacchi di Foreman, appoggiandosi alle corde del ring. Da una parte, grazie alla loro elasticità, la trovata attutiva i colpi di Foreman,  dall'altra lo sfiancava costringendolo ad un dispendio enorme di energie nello sforzo di inseguire e aggredire Ali e buttarlo giù. Quando, verso la fine dell'ottavo round,  si accorse che Foreman era stremato, Ali sferrò una serie di jab e uppercut che fecero crollare il rivale al tappeto per il conteggio finale. Foreman accusò gli allenatori di Ali di aver allentato le corde per favorire il loro campione, e accampò numerose altre scuse per spiegare la sconfitta.  Tempo dopo, i due   si riconciliarono. Alla consegna dei Premi Oscar dove Ali veniva premiato per "When We Were Kings" - un documentario sull'incontro in Zaire - il fuoriclasse ebbe difficoltà a salire sul palco per via del Parkinson. Fu aiutato a salire  i gradini da Foreman.  in seguito  Foreman si sarebbe ripreso il titolo confermandosi come un vero campione.

Un bel libro che si legge d'un fiato, quello della Oates, seria documentazione ma anche omaggio a quella che, protetta ma anche praticata nel XVIII secolo dagli aristorcratici  inglesi, venne definita la "noble art". Affettuosamente, la Oates ci ricorda infine  che "la boxe è calata in uno spazio sacro che esisteva prima della civiltà o, per usare una frase di D.H. Lawrence, 'prima che Dio fosse amore' ".

sabato 7 marzo 2015


 Domenico Segna
Intervista a Angiolo Bandinelli
  
"Giardini Crudeli"
Edizioni Pendragon, 2014
euro 10.00

Era una muraglia di ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene selvatiche..”: una pagina non sempre ricordata de I Promessi sposi del Manzoni fa da esergo al tuo romanzo.

La pagina manzoniana mi ha detto che il grande scrittore osservava la natura, o almeno il giardinetto sotto casa, con occhi non molto dissimili dai miei, la sua pagina si fonde perfettamente con le mie. Io l'ho scoperta molto dopo aver finito il mio lavoro e leggerla mi ha persino sgomentato, perché mai avrei pensato di trovare così profonda affinità di atteggiamento in uno scrittore di altri tempi, gusti e, soprattutto, statura. Credo che la pagina manzoniana sia un “unicum” per densità, non penso di assere arrivato a quella sua polifonia. Generosi amici critici, parlando del mio libro, hanno anche evocato gli intrichi (intrighi?) verdi di Zola o Proust. Ma il giardino-peccato più affascinante è per me quello nel quale Lady Chatterley incontra segretamente e colpevolmente il guardiacaccia...

Un fazzoletto di terra eletto a simbolo, il tuo: la voglia di coltivare fiori, piante, così belle, così crudeli. Esse sembrano comportarsi come gli esseri umani, o piuttosto, in questo tuo libro, sono quest’ultimi che si comportano come delle piante. Da dove nasce questo amore per i giardini, quale è il tuo sguardo sugli uomini, sulle donne, su quei rari esseri umani, protagonisti di secondo piano, che metti in scena nelle pagine del tuo romanzo “Giardini crudeli”?
L'amore per i giardini mi è stato trasmesso da mia moglie, scozzese (non "inglese", amava precisare). Ma, in generale, i britannici -  diciamo - sono, a differenza di noi latini ed italiani eredi di una millenaria tradizione "cittadina", figli di una cultura ancora profondamente legata alla terra. Uno dei loro grandi stereotipi umani e civici è il "Country Gentleman", etc. In più, il padre di mia moglie era un esperto agronomo, amministratore di grandi "farm", e mia moglie è vissuta, da bambina, in un ambiente ricco di natura. Da grande, magari, ne scappò via, per andare a vivere a Londra, o a Boston o infine Roma. Ma quando comperammo il nostro giardinetto umbro lei ritrovò le sue radici, e mi ci avvolse. Cominciammo a curare il pezzetto di terra, e per me fu una scoperta, una vera novità, anche se io stesso vengo da un ceppo campagnolo (toscano) se non contadino: mia nonna faceva il pane in casa, e io amavo l'odore che saliva dalla madia dove lei impastava la farina. Forse dalle scoperte fatte nel nostro giardino nasce una sorta di distacco dall'"umano", che passa in secondo piano rispetto alla "natura" per poi assumere da questa sensazioni, emozioni, vincoli, passioni e magari vizi, con un rovesciamento sicuramente non molto usuale, sul piano letterario. I critici di una Agenzia letteraria cui avevo inviato il dattiloscritto si meravigliarono, e mi risposero che sembrava proprio che i personaggi del racconto fossero le piante. Per loro era strano: evidentemente non avevano capito nulla di quelle mie pagine.

Leggendo “Giardini crudeli” mi sono ritrovato immerso in una sorta di distopia, a tratti mi ha fatto venire in mente un “conte philosophique”, un racconto filosofico di Voltaire…rovesciato. Dopo aver conosciuto tutti i mali della vita, l'unica certezza, conclude Candido, il protagonista dell’omonimo romanzo volterriano, è "che bisogna coltivare il proprio giardino". Il problema è che queste piante, questi fiori, questo stesso giardino sono il nostro miserabile specchio e, dunque, anche quest’unica certezza del povero Candido sembra avere in te come sbocco un “nichilismo religioso”. In fondo così Ti ho sempre visto, un “nichilista religioso” dall’ironico sorriso che ancora mantieni intatto.

Sono onorato di sentirti dire che il mio libro ha qualcosa del "conte philosophique", alla Voltaire. Un amico critico, Matteo Marchesini, lo ha definito "una parabola". E' indubbio che in me ci sia qualcosa del moralista, in fondo i miei studi più profondi e intensi sono stati di carattere filosofico, e Sant'Agostino, con le sue "Confessioni", è un mio grande amore. Ma sono diffidente di etichette e definizioni, anche di una assai prestigiosa (o almeno snobistica) quale è l'esser visto come un “nichilista religioso”. Ma non va dimenticato che forse nei miei giardini, che io ho chiamato “crudeli”, c'è anche un bel pizzico di Sade. Mentre scrivevo non pensavo proprio a cose del genere, l'ipotesi è stata avanzata da poco, e mi ha inizialmente stupito. Forse questa connotazione di sadismo, se non di crudeltà, non piacerà al lettore. Oggi (ma forse sempre) si ama il “lieto fine”, che non fa pensare. Beh, il mio libro non è di questo genere. Magari non ci sono riuscito, ma la mia ambizione è fare pensare un po'...

Crociano impenitente, del filosofo abruzzese – lo so che lui si considerava napoletano, ma un napoletano che passava tutte le estati in montagna mi sembra un bizzarro ossimoro, un strano incrocio di una pianta coltivata tra le zolle di Saturno – hai prediletto il suo ultimo periodo: in una tua poesia lo immagini come ipnotizzato dal “verde orrore”, una Vita, nella sua crudezza  virente destinata a sommergere, come ha sottolineato Matteo Marchesini, le categorie dei distinti.

Croce è un filosofo in senso innanzitutto etico: direi, curiosamente, alla Shaftesbury. Croce ci indica dei valori umani, colti dagli "exempla" forniti dallo studio della storia, che per lui è innanzitutto storia "etica": anche se, negli ultimissimi anni, rivalutò un certo vitalismo, come radice (toh!) profonda e ineliminabile dell'Essere o, se vuoi, della Coscienza.

Eliot, un santo giglio, Coleridge, un’illegale mariujana, Stevenson una pianta rampicante: Angiolo Bandinelli, radicale storico, a quale pianta vorresti essere associato?  
Facciamo un mix? Mia moglie organizzava dei vasi con dentro poutpourri di foglie e petali di vari fiori. Ne venivano fuori profumi ed odori molto belli.

                                                                                Domenico Segna