martedì 29 dicembre 2015


ATTUALITA’ DELLA NONVIOLENZA
da "Il Foglio", 29 dicembre 2015
(redazione originale, completa)
I metodi della lotta civile e politica nonviolenta,  gandhiana  ma anche ormai pienamente “occidentale”, hanno una storia lunga e teoreticamente complessa, non possono essere sbrigativamente  definiti -  come è successo a Maurizio Crippa alcuni giorni fa  -  una “pratica protestaria” di stampo  “pannelliano”. Emergono nella cultura e nella prassi politica contemporanea,  con tutta la loro ricchezza teorica e pratica, grazie ai  movimenti per i Diritti Civili esplosi negli Stati Uniti agli inizi degli anni ’60. Discendevano però da  teorizzazioni  o intuizioni fiorite, alla fine dell’ottocento, in una Londra - in una Inghilterra - vivacizzata, sotto la coltre vittoriana, da una panoplia di movimenti  e di idee che nel  loro complesso oggi siamo soliti ricordare come il premarxista  “socialismo umanitario”.  In quell’Inghilterra, in quella Londra, venivano messi  a fuoco  temi  che poi hanno formato il bagaglio, o l’arma d’urto, dei  movimenti  americani - e non solo americani  -  per il Diritti Civili, tra Berkeley, Woodstock e la Marcia su Washington di M. Luther King: dalla libera sessualità al libero amore, dal vegetarianesimo alla nonviolenza e alle sue pratiche di lotta, la disobbedienza civile, ecc.  Questa fioritura venne sommersa dall’avvento della cultura e prassi marxista, che puntava le sua carte solo sul non mediabile scontro di classe.  Quel  socialismo umanitario lasciò come sua eredità  storica la Società Fabiana e la London School of Economics. Sembrò scomparire del tutto  nell’età dei totalitarismi, riapparve con i movimenti  americani dei  Diritti Civili (già preconizzati, peraltro, dal Charter delle Nazioni Unite - ottobre 1945).
E’ su questi  capisaldi che  si è venuta elaborando  una teoria generale  dei rapporti tra individuo (o soggetto) e Stato ricca di spunti di stampo umanitario e libertario. Una compiuta teoria  dei Diritti Civili si contrappone frontalmente ad ogni concezione dello Stato come blocco o entità unitaria, ad ogni statualità che si concepisca come “une et indivisible” secondo la tradizione giacobina. Si contrappone anche  al Machiavelli e alla sua concezione del  potere.  E’ nata infatti come elaborazione della logica e della cultura federaliste, tipicamente americane. Ed è una teoria di enorme attualità, nel processo in corso di costruzione di una soggettività, di una umanità, adeguata alle esigenze della globalizzazione, tendenzialmente universalista. Nel disfarsi – innanzitutto nell’Occidente – dello Stato-Nazione, nella stessa vicenda delle migrazioni epocali cui stiamo assistendo, l’uomo, il singolo, il soggetto o come volete chiamarlo, esige e richiede la formalizzazione dei suoi diritti “umani”, uguali ed universali, al di là di ogni frontiera. E’ su un assunto del genere, seppur con mezzi  violenti ed armi di guerra, che l’Occidente è in guerra con l’Islam o con le sue estremizzazioni; ed è proprio per impedire il diffondersi di quei  Diritti Civili che l’ISIS oggi, ma in realtà ogni fondamentalismo, schiera le sue armate, non solo metaforiche e ideali.
Nella difesa e promozione dei Diritti Civili, il singolo, il soggetto, pone in campo non solo le “idee” ma anche il suo corpo.  Così il corpo acquisisce una dimensione nuova, diventa parte integrante del soggetto, della soggettività.  Può, in questa veste e funzione, divenire esso stesso protagonista e “attore” della politica. E’ in questa dimensione che va collocata la “disobbedienza civile” o l’ “autodenuncia”, che non è una “manfrina” ma un gesto serio e responsabile di confronto con l’Istituzione pubblica, lo Stato. L’individuo, o – alla Hannah Arendt – il soggetto, chiede allo Stato di giudicarlo, e magari condannarlo, secondo le leggi proprie allo Stato. Il confronto giudiziario che viene richiesto dal gesto di disobbedienza o dalla autodenuncia – che deve essere formulata nel pieno e scrupoloso rispetto della legge  – dovrebbe far scaturire una più profonda comprensione della norma  vigente, della sua validità o della sua inadeguatezza.  Ecco il fondamento di queste  come  delle altre “ pratiche” nonviolente, cui  Crippa guarda con diffidenza.  Sono “pratiche”, dunque, non “protestatarie”, perché si pongono e pongono  obiettivi ben precisi, in termini di rispetto, ma anche di fondazione delle leggi. Che devono avere dunque,  come elemento  essenziale  e inderogabile, il rispetto e l’autodeterminazione del corpo. Anche per quel che concerne la sceta del momento di concludere la propria vita, non ritenuta più degna di vivere. Che lo Stato definisca per legge questa libertà non significa promuovere la “negazione della vita”. Una legge sul “finis vitae”  non costringe nessuno alla pratica dell’eutanasia, ma lascia libertà di farlo a chi lo voglia, nel rispetto delle sue motivazioni, come anche  delle modalità necessariamente  imposte dalla legge.
Ovviamente, perché  il gesto - ma non ci ricorda Camus, per dire? - sia davvero un momento  di  lotta per i diritti civili e non un gratuita occasione di esibizionismo,  dovrà esservi  una effetiva  congruenza tra mezzo  - la disobbedienza civile, l’autodenuncia, ecc. - e obbiettivi.  L’emancipazione dei  neri negli anni ’60 in America,  o la liberazione della donna da condizioni inadeguate al suo essere “persona” autodeterminata,  o anche una intensa stagione referendaria radicale,  possono aprire nel paese, grazie alla clamorosa - se si vuole, “esibita”, cioè resa pubblica - disobbedienza civile,  un dibattito di alto livello. Fu questa la scelta di Piergiorgio Welby, e fu questa la motivazione per la quale la Chiesa gli inibì il sacramento. Il suo era un gesto volutamente pubblico,  e per questo  condannabile e condannato...
 Poi, se qualcuno abusa o usa male lo strumento, c’è solo da deniunciare la  pochezza o l’inadeguatezza del suo gesto. Nella pubblicità, in un  dibattito che investa l’opinione pubblica (e non resti ristretto “tra il radicale e la chiesa”) , il vero e il falso possono essere messi in luce.  Ma quasi sempre è proprio questo che non si vuole. Rita Bernardini si è autodenciata per coltivazione e possesso di piante di marijuhana. E’ un reato codificato, ma l’autorità pubblica si guarda bene dal dare corso alla sua autodenincia. E facile capire il perché.

lunedì 28 dicembre 2015



VENDEREI:

Una  Cartella di grafica -
“Elogio a Baudelaire” - 

con:
 6 incisioni originali di Piero Dorazio
A colori all’acquatinta
Su lastre di zinco
Carta intonsa delle cartiere Arches

6 poesie di Angiolo Bandinelli
Testi stampati dalla Tipem in Roma
Su carta “Modigliani”
Della cartiera Cordenons

Formato 56x76
Tiratura 200 esemplari
Di cui 120 con numerazione araba
(la mia)
50 con numerazione romana
21 con alfabeto
7 prove di stampa
2 prove d’archivio

lunedì 14 dicembre 2015



Dopo il lepenismo: una Europa tra nazionalismi e localismi. 

(da "Notizie Radicali" del 14/11/2015)

I risultati del ballottaggio hanno piegato le aspirazioni di Marine Le Pen, ma non cambiano i termini del “caso” francese.  Per il momento Hollande l’ha scampata,  ma anche lui va incasellato tra gli sconfitti. Il resto del panorama politico d’oltralpe, poi, ci dà sempre l’immagine di un  disastro nazionale (e, ahimè, europeo).  L’assalto del lepenismo alle istituzioni e al  governo è stato respinto, ma non si dica che ha vinto la democrazia.  Marine Le Pen non ha tutti i torti nel sostenere che in Francia destra e sinistra sono morte. Il tradizionale gioco tra destra e sinistra è scomparso, i passeggeri della nave Francia si sono buttati tutti sulla fiancata opposta a quella dove si era provocata la falla, giusto per impedire alla nave di affondare: ma  la falla sta ancora lì. Detta un po’ brutalmente, in Francia oggi si vince o si perde a seconda dell’emozione momentanea, nello scontro tra due paure. Se mai gli sarà possibile riprendere in mano le carte, il gioco del confronto democratico va rifondato ex novo.
Marine Le Pen  aveva recentemente strappato il partito dalle mani del fondatore, il padre,  ma il lepenismo  rappresenta nell’oggi  una ideologia di assai lunga durata e che ha un nome - per l’appunto -  francese:  “chauvinisme”,  sciovinismo.  Cova da sempre sotto le ceneri  della Francia profonda, ben oltre le odierne paure per l’invasione degli immigrati:  per capirlo, basterebbe ricordare  il  referendum  che seppellì  il Trattato per la Costituzione Europea  sotto  il “no” dei  francesi (29 maggio 2005) e  trascinò con sé, due giorni dopo,   il “no” dei Paesi Bassi. Allora, giocò la sua parte nel determinare il voto la paura dell”idraulico” polacco che, con la vittoria del sì alla “direttiva Bolkenstein” ,  avrebbe invaso la Francia e rubato il lavoro ai francesi.  Volendo, si potrebbe poi risalire al “no”  al Trattato istitutivo della Comunità Europea di Difesa (CED) espresso dall’Assemblea Nazionale francese, con l’escamotage di un  espediente procedurale,  il 30 agosto 2004. Tra le cause della  mancata approvazione di quel  rivoluzionario trattato  c’era  la morte di Stalin che attenuò le tensioni con l’Unione Sovietica,  il cattivo andamento della guerra in Indocina ma soprattutto il rifiuto dei nazionalisti - forse già lepenisti - di accettare il riarmo tedesco, sia pure sotto la bandiera stellata dell’Europa.  E alla fine - perché no? - si potrebbe riesumare con profitto il fantasma della Francia “pétainiste” di Vichy, un episodio non del tutto casuale, le cui radici forse non sono state completamente  rescisse.
Oggi, le ragioni del quasi successo lepenista  (il 42° dei voti ha comunque il suo peso negli equilibri politici dell’oggi e del domani)  vengono colte nella reazione popolare – dettata da una comprensibile  insicurezza  psicologica -  alla strage jihadista al Bataclan. Certo, quel  massacro  è stato un episodio di terrorismo gravissimo e dolorosissimo,  e può essere assunto a causa immediata e scatenante dello sconquasso elettorale;  ma forse non riesce a spiegare del  tutto  l’avanzata nazionalista. Ripetiamolo: il lepenismo  rappresenta un tassello essenziale dell’identità profonda della Francia, basta che si apra un varco e la più scapigliata Marianna si riprende  la scena. Eppure, il paese dovrebbe essere  mitridatizzato contro  certi riflussi della sua storia: nelle banlieues parigine vi sono interi quartieri (perfino la zona attorno alla cattedrale di Saint Denis, culla del gotico, dove sono sepolti alcuni Re di Francia) tra i cui abitanti è difficile scorgere un volto bianco. La Francia ha un antico retaggio di accoglienza per le genti di colore, dovuto al fatto di aver avuto  colonie dalle quali sono approdati immigrati d’ogni genere e condizione.  In questo, la Francia è simile all’Inghilterra, anche se i due paesi hanno assunto un diverso approccio al tema dell’integrazione. Ecome in Inghilterra, anche  in Francia  l’integrazione non è riuscita perfettamente, per ragioni sociali più che per motivazioni  etniche.  Si sparga su  questa  ferita sempre aperta il sale del terrorismo, e la tragedia è sicura.
Le conseguenze europee del doppio voto francese saranno  gravi. Dopo il primo turno, Salvini ha esultato, ha scambiato con la Le Pen felicitazioni e auguri. Ma - non c’è neppure bisogno di dimostrarlo - tra il lepenismo e la Lega non ci sono punti di contatto seri  e autentici, si tratta di fenomeni  sociopolitici diversissimi: non sono però i soli, in Europa c’è  un formicolare di rivendicazioni, dalla Spagna all’Inghilterra (e altrove)  che è sbagliato accorpare tutte assieme sotto l’etichetta di “populismo”, ma è giusto qualificare tutte assieme come “localiste” e antieuropee.  Con varie gradazioni, marciano assieme  nell’odio per le istituzioni di Bruxelles e Strasburgo:  si va dalla semplice  diffidenza  nei  confronti di quelle  burocrazie e delle loro farraginose  politiche  fino alle orgogliose rivendicazioni delle “piccole patrie” in rivolta contro le  grandi “nazioni” istituzionalizzatesi  nel corso dei secoli a formare gli Stati nazionali che conosciamo. Il voto francese accentuerà comunque   le tante derive  isolazioniste. Schengen è formalmente salvo, di fatto  le frontiere tra i paesi europei  diventano  sempre più muraglie disagevoli da superare.
Il localismo non ha solo il volto inferocito dei piccoli nazionalismi provinciali, nostalgici o rétro. Si può presentare anche con un volto rassicurante, apparentemente inoffensivo, perfino suadente.  Questo localismo pretende - garantisce - di  essere europeista e sinanche federalista.  I suoi sostenitori  teorizzano un federalismo che nasca “dal basso”, dalle istituzioni locali, le città o i vari distretti  amministrativi - si chiamino province o regioni - secondo il principio di sussidiarietà.  E’ una visione che si ispira più al modello dei cantoni svizzeri che a quello americano, sbocciato sull’humus della  grande cultura illuministica settecentesca: secondo quanti lo professano,  un  federalismo realizzato nel  piccolo delle comunità locali favorisce o addirittura produce  - allargandosi, diciamo così, a macchia d’olio - un federalismo istituzionale di livello sovranazionale e intereuropeo.   Il  movimento federalista europeo ha già conosciuto, decenni  fa, questa deriva, specie presso i francesi. Combattuto da Spinelli e i suoi, si è dimostrato presto, sul piano teorico non meno che nella prassi, inconcludente e distraente. Oggi lo sentiamo insinuarsi, invitante, anche in case insospettabili, per esempio tra i radicali italiani: facciamo il federalismo a partire dalle nostre città, e questo fiorirà anche, rigoglioso,  nelle Istituzioni di Strasburgo e Bruxelles.  E’ su questa base che si preme per la partecipazione alla prossima tornata amministrativa. Si tratta di  fantasie,  o forse solamente di un alibi.

giovedì 3 dicembre 2015



LA CITTA' PIU' ODIATA D'ITALIA...
(da “Il Foglio”, 1° dicembre 2015)

La Roma che appare nell’ultimo film della saga di 007, “Spectre”,  è  notturna, funerea, algida, sfocata e  solo lievemente clericale.  In questo tetro scenario  James Bond  può impunemente  scorrazzare di notte al volante della sua Aston Martin DB10 e sedurre la vedova nera,  Monica Bellucci, cui lui stesso ha ammazzato il marito. La Città Eterna è ridotta a cameo,  un cameo riepilogativo degli stereotipi  che da sempre la volgarizzano.  Se, nel  film, Londra si riappropria del suo ruolo di centrale mondiale dello spionismo, del potere politico torbido, da intrigo internazionale alla Le Carré, Roma appare  votata ad una stremata  decadenza.
Chissà se l’immagine di Londra è veritiera.  A noi,  quella Roma notturna  sembra  non corrispondere  a dati effettivi. E’ solo un cliché. Certamente  non è  la Roma di Marino, il sindaco in carica quando il rombante inseguimento  di James Bond  sulle banchine del Tevere  venne girato tra l’insofferenza dei cittadini, disturbati nella loro distratta quiete.  La Roma di Marino è stata in qualche modo -  piaccia o no  -  una Roma di transizione,  sospesa tra ipotesi e tracollo: l’ipotesi di una rivoluzione tanto volontaristica quanto dilettantesca  e lo sgomento della scoperta dei miasmi AMA o ATAC,  della corruzione burocratico/malavitosa, dell’abusivismo dilagante e dell’inerzia politica. Ma la pasticciata Roma di Marino è l’inaspettato e inquietante epilogo  di una storia – anche amministrativa, oltre che politica e culturale - non del  tutto banale o vergognosa. Sindaci come Petroselli possono  meritare l’enfasi di una intitolazione stradale prestigiosa, l’arteria  che cinge il Campidoglio; accanto a Petroselli altri sindaci, di una parte o dell’altra, sono stati non indecorosi anche quando non così memorabili.
In questi giorni frenetici,  quando a destra come a sinistra si va in cerca affannosa di un nome appena appena decente da presentare per la scalata al colle capitolino, la visione del film di James Bond impone qualche pacata riflessione.  Stiamo attenti a giostrare con gli stereotipi,  c’è il rischio di dimenticare quel che è in ballo, e non solo  nella tornata elettorale ormai prossima: far uscire la capitale d’Italia dall’impasse amministrativo ma anche  dai cliché che la tradiscono. Si  tratta di restituire questa città ad una dignità che sembra perduta. Anche per colpa nostra, di quanti, per una frenesia di bassa o comunque spicciola politica hanno mediaticamente contribuito a rafforzare i sentimenti di antipatia, di avversione, di irriconoscenza e di rancore che il nome di Roma suscita nell’opinione pubblica italiana, non solo dei leghisti padani.  Roma è la città più odiata d’Italia. Anche respingendo al mittente,  con molte ottime ragioni, l’infame “Roma ladrona” , un po’ di quell’avversione se la merita.  Però, per cominciare a capire qualcosa di Roma sarebbe bene -  in partenza - non dimenticare che  è l’unica capitale d’Europa (e forse del mondo) che invece di  guidare e plasmare la formazione del  proprio paese –  come è stato per Londra o Parigi o Mosca o Madrid –  fu conquistata militarmente (va bene,  con una parodia di azione militare) ed è diventata capitale d’Italia controvoglia. L’ anomalo inizio ha avuto conseguenze negative e visibili su quanto è successo  dopo. Quando gli italiani (i piemontesi) hanno dovuto progettare la capitale di uno Stato ancora inesistente hanno subito cercato di far dimenticare un bel po’ di storia, la storia di quella che era stata capitale di uno Stato più o meno millenario, profondamente radicato, lo Stato della Chiesa.  La Roma papalina, la “seconda Roma”,  doveva essere cancellata per edificare al suo posto una “terza  Roma” fittiziamente e teatralmente  emula  di una  “prima Roma”  inventata  dal visionarismo risorgimentale  e mazziniano - dapprima  repubblicana e libertaria, con a suo idolo il vindice  Bruto ma poi, grazie a Mussolini,  imperiale, bellicosa, augustea – e artificiosamente sovrapposta  ai suoi  venerabili  ruderi: un  mito, il loro, autentico , che aveva ispirato il Rinascimento  ed esaltato Piranesi,  Goethe e  Gibbon.
L’impresa lasciò visibili tracce sul tessuto urbano, ma soprattutto sul quello della sua società.  I “buzzurri” – così vennero sarcasticamente appellati  i piemontesi  dai  Rugantino e dai  Meo Patacca, le maschere popolari  dei  tortuosi vicoli e vicoletti attorno al Pantheon   -  e i “monticiani” o “trasteverini “ (gli abitanti di due famosi quartieri dai dialetti simili ma non identici)  sono convissuti senza  forse capirsi bene,  lo sforzo di costruire una sintesi “nazionale” non ebbe risultati del tutto  felici.  Ernesto Nathan, il sindaco espressione di quei buzzurri fattisi italiani, venne sconfitto dagli eredi  di  una secolare aristocrazia sfibrata dalle bellezze dei suoi palazzi e d’improvviso divenuta -  grazie alla conquista piemontese che fece lievitare aree fino al giorno prima pascolo di pecore o giardini ornati di secolari siepi di bosso  - miracolata percettrice di ingenti  rendite fondiarie.  Comunque sia, le  classi dirigenti politico-amministrative di Roma  capitale non hanno potuto avere le  radici piantate in un comune suolo,  sentito come patrimonio di tutti  e da tutti salvaguardato.  Queste classi dirigenti - comprese le fasciste, non le peggiori - si sono sovrapposte le une alle altre, spesso  nutrendosi  di  desideri  di  rivalsa e  vendetta  nei  confronti di quelle che le avevano precedute.
Checché se ne dica, Roma  capitale d’Italia divenne presto una città moderna.  Ma quando mai è stata “pietrificata” o “museificata”, come oggi si va gridando? Semmai si è visto esattamente il contrario, Roma è stata travolta dalla e nella modernità, a strappi, a salti e sussulti,  senza un minuto di requie, di ripensamento; la  sua urbanistica è stratificata, a sfoglie, come le cipolle. E’ divenuta  moderna  molto più rapidamente , per certi versi,  di Milano, e superando difficoltà che il capoluogo lombardo non ha conosciuto,  con la sua storia di  ininterrotta e lineare continuità, della quale fa parte anche il periodo austroungarico, se non altro per l’efficienza  amministrativa  che lo caratterizzava.  L’epoca  umbertina,  a cavallo tra XIX e XX secolo, fu  per  Roma  ricca di strepitosi  avanzamenti, la città scippò a Firenze il ruolo di motore delle arti.  Il primo dopoguerra  vide nascere  la più bella architettura razionalista del  tempo  - dalle arcate di Angiolo Mazzoni sui fianchi della rinnovata Stazione Termini a quel quartiere dell’E42 che nel secondo dopoguerra  fu modello alla “Defense” parigina -  e fiorire  un decoroso classicismo letterario, matrice della lingua italiana “media” dei nostri giorni. Ma soprattutto, con Mussolini, vide  il tentativo di competere  sul piano economico  con Milano:  l’IRI di Alberto Beneduce fu un modello  imprenditoriale di livello mondiale,  su cui si impiantò, nel secondo dopoguerra -  grazie a figure come  Pasquale Saraceno, Donato Menichella e Rodolfo Morandi  - la Cassa del Mezzogiorno.  Con Mussolini nascono anche strumenti  di cultura, dalla Enciclopedia Italiana (poi Treccani) all’EIAR o  a Cinecittà, sorta come fabbrica di propaganda ma divenuta  fornace per autentici geni, esplosi nel secondo dopoguerra. Il secondo dopoguerra  è stato un periodo contraddittorio: Roma  patì  di un movimento immigratorio  ingovernabile e malgovernato che ne stravolse le fattezze  fisiche ed etiche ma su cui si innestò il primo grande dibattito urbanistico italiano. Tentò anche di avviare  una economia produttiva che la sottraesse al  cliché di città impiegatizia, burocratica:  la “Tiburtina Valley”  imitò, senza riuscirci, la Silicon Valley delle industrie tecnologiche, alla sua periferia si sviluppò un tessuto microimprenditoriale non disprezzabile (esemplare l’affollamento industriale e commerciale della Via Pontina). Infine, per un paio di decenni, la città produsse  valori indiscutibili e incredibili che le fecero scalare i vertici della considerazione mondiale, strappando a Parigi il primato europeo della modernità artistica, in un intenso  dialogo alla pari con New York.  
Non so se Roma abbia mai potuto  (o possa)  competere con Milano come “capitale morale” , certo assolse per lungo tempo  il suo compito di capitale nazionale in modo persino egregio. La sua economia, nata  molto pubblica, dirigista, datata, fu destinata  alla scomparsa  quando venne  infangata e rovinata dall’invadenza partitocratica, ma la partitocrazia fu un male non romano quanto piuttosto  nazionale:  la “Roma ladrona” è un epiteto ingiusto, non meno di ”Mafia Capitale”.  E poi,  siamo franchi, è  proprio vero che Milano quell’attributo se lo meriti? Viene rispolverato dopo il successo dell’Expo, ma l’Expo è stata salvata dal naufragio grazie all’intervento del governo che ha imposto un commissario efficiente e affidabile ad una realtà locale assai discussa:  la Milano “da bere”. ..
Le prossime elezioni  amministrative si presentano  a Roma come una avventura, un risiko pauroso. I protagonisti della corsa al Campidoglio si sono gettati allo sbaraglio per occupare le migliori posizioni di partenza.  In questi giorni fioriscono gli appelli, i progetti, le manifestazioni  dell’uno o dell’altro gruppo concorrente. Sono iniziative ovviamente enfatiche, gridate, i  loro programmi  sono o inadeguati o eccessivi; e lo si capisce, anche se credibilità e serietà  richiederebbero  che fossero piuttosto sfrondati che gonfiati, con le promesse asciugate  al minimo essenziale, se si vuole davvero mantenerle. Forse,  il miglior programma potrebbe essere quello di realizzare una città sul modello di Washington, ridotta, modesta ma efficiente capitale e basta, non  sul modello di Parigi o di Londra, metropoli  ricche e strutturalmente capaci  di  assolvere a funzioni diverse.  Perché: davvero la posta i gioco è il tronco “C” della metropolitana o il cosiddetto “risanamento” delle periferie?   
No, non è questione di infrastrutture o di periferie: lo sviluppo delle metropolitane è stato, a Roma, un problema da sempre. Per completare il primo tratto occorsero lustri: forse per colpa di intrighi e mangerie, forse però anche per reali motivi.  Il tronco “C” è in discussione anche, se non soprattutto, per definire un percorso che, se non è sbagliato, è comunque a rischio: il sottosuolo di Roma è una immensa miniera di possibili tesori archeologici che a Londra, quando cominciarono a scavare per il loro mirabile “tube” (l’Italia era ancora divisa in staterelli), non si sognavano nemmeno.  Le periferie hanno costituito un serio e drammatico problema nell’immediato secondo  dopoguerra,  si trattava  di risanare le “borgate” create frettolosamente sotto Mussolini  per  trasferirvi gli abitanti delle aree spicconate su cui far distendere la Via dell’Impero: quelle “borgate”  sì, erano orripilanti, hanno dato origine, anche nel cinema, ad una epopea che ha trovato forse il suo definitivo trionfo col Pasolini di “Mamma Roma” o di “Ragazzi di vita”. Credo che il loro risanamento  debba molto soprattutto  a Petroselli (soprannominato  “il banana”,  in ragione del suo naso storto, da pugile suonato), che si  mise di puntiglio per “unificare” Roma dal centro alle periferie.  Oggi, le periferie che cingono la città sono equiparabili a quelle di ogni altra metropoli.  Abbisognano di cure , questo sì, ma non sono favelas della disperazione.
Ripercorrendo storia e cronache, si può dire che forse il più grosso problema, o questione, che tormenta Roma è – stranamente -  una certa  carenza  di identità.  Milano riscopre (forse fondandola su presunzioni, più che su evidenze e certezze) la sua “milanesità”; forse è stata una  troppo sbandierata “romanità” a far nascere a Roma,  nel passato ma anche in tempi  recenti, equivoci e disperanti  cadute di tono.  Si pensi  al tentativo messo in atto dal Francesco  Rutelli che individuava in Alberto Sordi il  simbolo giusto per dare un nome a questa  identità:  Alberto Sordi, con il suo dialetto ormai sparito. Petroselli ricucì in gran parte il gap tra periferie e centro, ma gli abitanti dei  vari quartieri non si riconoscono gli uni con gli altri, quasi nessuno di loro è davvero un “romano de Roma”. Forse qui è buona parte delle difficoltà che i partiti - se ce ne sono ancora, degni di questo nome - incontrano nella campagna elettorale. Non si vede una “massa critica” di classe dirigente che si senta partecipe delle vicende (mica della storia, sarebbe chiedere troppo) di una città complessa e forse sempre un po’ inadeguata a se stessa.   E come potrebbe  essere altrimenti?  Anche a Roma – ma non solo a Roma - si invoca il ritorno della “politica”, che  rimetta ordine tra il trambusto di incompetenti, di arrivisti e faccendieri. Ma fino a ieri non si urlava tutto il contrario, e cioè che le responsabilità della attuale rovina erano tutta della classe politica, della “casta”, su cui ormai dovrà prendere il sopravvento la “società civile”, quella che si esprime su blog e social? A Roma, molto più che a Milano, certe  contraddizioni rischiano di non trovare una composizione decente,  se non adeguata. Le prossime elezioni amministrative ci diranno se il problema può essere risolto o se la città – la capitale d’Italia – sarà condannata a lungo ad essere “location” di film folkloristici, molto kitsch.