PROSPETTIVA
CLASSICA E LUMINISMO CRISTIANO
(da "Il Foglio")
Nel
suo capolavoro, ”La prospettiva come forma simbolica”, il grande
critico d'arte Erwin Panofsky analizza il tema del passaggio storico
e culturale dall'antichità classica greco-romana al medioevo
cristiano. Scrive: “...Degna di particolare considerazione è
un'opera come il mosaico di Abramo in San Vitale a Ravenna [sesto
secolo d. C.]. In quest'opera è dato toccare addirittura con mano il
disfacimento della concezione prospettica (…). E' difficile trovare
un esempio più evidente di come la regola dello spazio semplicemente
intersecato dall'orlo del quadro cominci di nuovo a cedere di fronte
alla legge della superficie da esso delimitata, la quale non deve
permettere che si guardi attraverso bensì deve essere semplicemente
colmata (…); l'antica 'apertura sullo spazio' comincia a chiudersi
(…), i singoli elementi dell'immagine - mentre hanno quasi
completamente perduto il loro nesso dinamico mimetico-corporeo e il
loro nesso spaziale-prospettico - appaiono legati da un nesso nuovo
e, in certo modo, più intrinseco: un ordito immateriale ma omogeneo
e privo di lacune, nell'ambito del quale l'alternanza ritmica di
colore e oro e - nei rilievi - l'alternanza ritmica di chiaro e
scuro creano un'unità coloristica e luministica”. E, a proposito
di questa 'unità coloristica e luministica', Panofsky sottolinea: “è
una unità la cui forma particolare trova a sua volta un riscontro
teoretico nella concezione dello spazio propria della filosofia
dell'epoca: nella
metafisica della luce del neoplatonismo pagano e cristiano”...
Districandoci
tra i tecnicismi del linguaggio critico, alla fine coglieremo quel
che Panofsky vuole dirci, e cioè che tra l'arte greco-romana
classica e quella che si sviluppa nell'ambito della cultura cristiana
primitiva si apre uno iato, se non un abisso. L'arte classica
rappresentava lo spazio filtrandolo attraverso l'artificio ottico
della prospettiva, l'arte cristiana abbandona la prospettiva - e con
essa la rappresentazione di una natura 'osservata' con gli occhi e i
sensi - per rappresentare il mondo come una unità 'immateriale',
esaltata da una 'alternanza ritmica di colore e oro' o di 'chiaro e
scuro' tesa ad esprimere una visione tutta spirituale e, direi,
'mentale'. Panofsky scriveva nel 1924; una ventina di anni prima un
altro grande critico d'arte, Alois Riegl, aveva notato come l'arte -
meglio, la scultura - della tarda romanità, più che sullo spessore
imitativo (e prospettico) del rilievo, puntasse sul colorismo e
sull'effetto luce-ombra prodotto dall'uso del trapano, che perforando
la superficie della pietra creava un punto scuro (anzi, un reticolato
di punti oscuri) in forte contrasto con il bianco della pietra:
ancora luminismo, insomma, contro il 'naturalismo' dello schema
prospettico. Ci troviamo di fronte a due modalità non solo
dell'espressione artistica ma della intera visione del mondo, che si
fronteggiano senza compenetrarsi l'una con l'altra. Approfondiamo...
“Lo
spazio non è altro che la luce più sottile”. Chi scrive questo
tagliente definizione – riportata da Panofsky - è Proclo. Il
critico la commenta: “è un'affermazione in cui il mondo viene
concepito per la prima volta come un continuo e, insieme, privato
della sua compattezza e della sua razionalità: lo spazio si è
trasformato in un fluido omogeneo e, se così si può dire,
omogeneizzante, ma non misurabile, anzi privo di dimensioni...”
Proclo è il filosofo del quinto secolo che approfondì il pensiero
di Plotino. Avversato dai cristiani, condivideva con loro
l'immaginario complessivo del mondo, e il breve inciso riferitoci da
Panofsky è già una perfetta ancorché sintetica anticipazione del
pensiero e della civiltà medioevale.
Che
cosa voglio dire? Semplicemente che certi attuali dibattiti e
affermazioni circa la necessità di rinnovare e raccordare i rapporti
tra la ragione, tipica della civiltà greca, e la fede cristiana, non
tengono conto del fatto che, appunto, il cristianesimo primitivo e
medievale segnò una frattura profonda rispetto alla classicità: la
fede, la luce che viene da Dio (l'Uno neoplatonico), divenne elemento
determinante e assoluto nella concezione del mondo. In altra forma,
uno dei più alti paradigmi della religiosità cristiana, “Credo
quia absurdum”, era, alla sensibilità greca, abissalmente
inconcepibile. L'assurdo – lo scandalo (della croce?) - diventava
il centro della vita dello spirito.
Tutto
quel che del mondo classico poteva essere assorbito e utilizzato
dalla nuova, sconvolgente fede, venne catturato nel corso del
secolare dibattito tra gli intellettuali dei due campi, il pagano e
il cristiano. Il naturalismo della ragione ritornò a galla e alla
fine divenne antagonista della fede, ma semplificare oggi la
questione proponendo una loro riconciliazione è affermazione di
stampo volontaristico: tornare alla 'ragione' classica, riproporla
come interlocutrice di una fede che si è a sua volta profondamente
evoluta, pare a me un artificio, un errore teorico-storico. Anche
perché è assente, oggi, un elemento essenziale: l'univocità delle
interpretazioni su cosa sia la fede e soprattutto su cosa sia la
ragione. Siamo comunque in un ambito prettamente culturale, non
ontologico.