venerdì 28 novembre 2014



PROSPETTIVA CLASSICA E LUMINISMO CRISTIANO
(da "Il Foglio")


Nel suo capolavoro, ”La prospettiva come forma simbolica”, il grande critico d'arte Erwin Panofsky analizza il tema del passaggio storico e culturale dall'antichità classica greco-romana al medioevo cristiano. Scrive: “...Degna di particolare considerazione è un'opera come il mosaico di Abramo in San Vitale a Ravenna [sesto secolo d. C.]. In quest'opera è dato toccare addirittura con mano il disfacimento della concezione prospettica (…). E' difficile trovare un esempio più evidente di come la regola dello spazio semplicemente intersecato dall'orlo del quadro cominci di nuovo a cedere di fronte alla legge della superficie da esso delimitata, la quale non deve permettere che si guardi attraverso bensì deve essere semplicemente colmata (…); l'antica 'apertura sullo spazio' comincia a chiudersi (…), i singoli elementi dell'immagine - mentre hanno quasi completamente perduto il loro nesso dinamico mimetico-corporeo e il loro nesso spaziale-prospettico - appaiono legati da un nesso nuovo e, in certo modo, più intrinseco: un ordito immateriale ma omogeneo e privo di lacune, nell'ambito del quale l'alternanza ritmica di colore e oro e - nei rilievi - l'alternanza ritmica di chiaro e scuro creano un'unità coloristica e luministica”. E, a proposito di questa 'unità coloristica e luministica', Panofsky sottolinea: “è una unità la cui forma particolare trova a sua volta un riscontro teoretico nella concezione dello spazio propria della filosofia dell'epoca: nella metafisica della luce del neoplatonismo pagano e cristiano”...

Districandoci tra i tecnicismi del linguaggio critico, alla fine coglieremo quel che Panofsky vuole dirci, e cioè che tra l'arte greco-romana classica e quella che si sviluppa nell'ambito della cultura cristiana primitiva si apre uno iato, se non un abisso. L'arte classica rappresentava lo spazio filtrandolo attraverso l'artificio ottico della prospettiva, l'arte cristiana abbandona la prospettiva - e con essa la rappresentazione di una natura 'osservata' con gli occhi e i sensi - per rappresentare il mondo come una unità 'immateriale', esaltata da una 'alternanza ritmica di colore e oro' o di 'chiaro e scuro' tesa ad esprimere una visione tutta spirituale e, direi, 'mentale'. Panofsky scriveva nel 1924; una ventina di anni prima un altro grande critico d'arte, Alois Riegl, aveva notato come l'arte - meglio, la scultura - della tarda romanità, più che sullo spessore imitativo (e prospettico) del rilievo, puntasse sul colorismo e sull'effetto luce-ombra prodotto dall'uso del trapano, che perforando la superficie della pietra creava un punto scuro (anzi, un reticolato di punti oscuri) in forte contrasto con il bianco della pietra: ancora luminismo, insomma, contro il 'naturalismo' dello schema prospettico. Ci troviamo di fronte a due modalità non solo dell'espressione artistica ma della intera visione del mondo, che si fronteggiano senza compenetrarsi l'una con l'altra. Approfondiamo...

Lo spazio non è altro che la luce più sottile”. Chi scrive questo tagliente definizione – riportata da Panofsky - è Proclo. Il critico la commenta: “è un'affermazione in cui il mondo viene concepito per la prima volta come un continuo e, insieme, privato della sua compattezza e della sua razionalità: lo spazio si è trasformato in un fluido omogeneo e, se così si può dire, omogeneizzante, ma non misurabile, anzi privo di dimensioni...” Proclo è il filosofo del quinto secolo che approfondì il pensiero di Plotino. Avversato dai cristiani, condivideva con loro l'immaginario complessivo del mondo, e il breve inciso riferitoci da Panofsky è già una perfetta ancorché sintetica anticipazione del pensiero e della civiltà medioevale.

Che cosa voglio dire? Semplicemente che certi attuali dibattiti e affermazioni circa la necessità di rinnovare e raccordare i rapporti tra la ragione, tipica della civiltà greca, e la fede cristiana, non tengono conto del fatto che, appunto, il cristianesimo primitivo e medievale segnò una frattura profonda rispetto alla classicità: la fede, la luce che viene da Dio (l'Uno neoplatonico), divenne elemento determinante e assoluto nella concezione del mondo. In altra forma, uno dei più alti paradigmi della religiosità cristiana, “Credo quia absurdum”, era, alla sensibilità greca, abissalmente inconcepibile. L'assurdo – lo scandalo (della croce?) - diventava il centro della vita dello spirito.

Tutto quel che del mondo classico poteva essere assorbito e utilizzato dalla nuova, sconvolgente fede, venne catturato nel corso del secolare dibattito tra gli intellettuali dei due campi, il pagano e il cristiano. Il naturalismo della ragione ritornò a galla e alla fine divenne antagonista della fede, ma semplificare oggi la questione proponendo una loro riconciliazione è affermazione di stampo volontaristico: tornare alla 'ragione' classica, riproporla come interlocutrice di una fede che si è a sua volta profondamente evoluta, pare a me un artificio, un errore teorico-storico. Anche perché è assente, oggi, un elemento essenziale: l'univocità delle interpretazioni su cosa sia la fede e soprattutto su cosa sia la ragione. Siamo comunque in un ambito prettamente culturale, non ontologico.


sabato 15 novembre 2014

Oggi il "Foglio" dedica una pagina alla collana Pendragon "I chiodi", e soprattutto ai "Giardini crudeli" di Angiolo Bandinelli che la aprono.

 Il 25 novembre, alle 18, lo presentiamo alla Libreria Trame Libreria Bookshop di Bologna con Paola Pallottino. Venite in molti, anche da lontano, e intanto compratelo.