domenica 25 maggio 2014


                                                                INSTABILI EQUILIBRI

                                                                         (da "Il Foglio")

Il Morandi che mi fronteggia sulla parete della Galleria è un olio di appena cm. 22x30. In primo piano spiccano tre bottiglioni, dei quali uno bianco sporco, il secondo di due tonalità di ocra mentre il terzo, come altri tre in seconda fila, si smarrisce in un opaco bruniccio. Un buon Morandi, anche se non esaltante come altre opere del pittore bolognese, quelle - ricordo - nelle quali analoghe bottiglie sembravano rivestite di una finissima polvere, forse la polvere del tempo depositatasi durante immemorabili soggiorni in dimenticate soffitte o cantine. Indugio davanti a questo quadretto, temo di essere forse un suo raro, se non ultimo ammiratore: cosa può esserci di più lontano dall'oggi di una pittura come questa? Sospiro, penso che sarebbe bello se un critico vi si dedicasse un po'. Analoga accorata impressione me la fa il Licini appeso un po' più in là, una minuta geometria di bianchi sporchi, un tenero azzurro e minuscoli triangoli, rosso, lilla e blù. Anche questo di piccole dimensioni (cm. 25x19) e risalente addirittura al 1932.

Perché mi attirano queste vecchie operine? Sì, lo confesso, mi emozionano: sono ancora "pittura", un genere artistico scomparso, abbandonato senza rimpianti ai pittori domenicali, ai dilettanti di provincia. Oggi sono molto contento che una Galleria come questa, la "Erica Fiorentini di arte contemporanea", li riproponga nelle sue spaziose sale di Via Margutta, in un contesto non di recupero ma di ri-lettura, in confronto e dialogo con altre opere di diversa tecnica e di diversa epoca, ma soprattutto di diverso spirito e intonazione. Il titolo della mostra vuole essere eloquente introduzione all'inconsueto mix: "Equilibri". Le opere allineate alle pareti o su supporti sono, oltre a questo Morandi, di Giovanni Anselmo (1990), Giacomo Balla (1918), Simone Berti (2009), Alexander Calder (1964),  Alice Cattaneo (2014), Pietro Fortuna (2014), Fausto Melotti (1959), Maurizio Muchetti (1965), Grazia Toderi (2009), Gilberto Zorio (2010); nella loro diversa datazione - quasi un secolo tra la più vecchia e la più recente - sono raggruppate assieme da un filo interpretativo concettoso ma, alla fine, azzeccato.

Se un artista lavorò sotto il segno dell'equilibrio fu Giorgio Morandi. Mi si scusi se il mio discorso parte, o riparte, di lì, da lui. Le stagioni morandiane le ho, almeno in parte, vissute o - come si usa dire - sperimentate sulla mia pelle. Un mesetto fa, ho donato alcune "chine" di mio padre, il pittore Aldo Bandinelli (1877-1977), rispettivamente alla Galleria Civica di Modena e alla raccolta di grafica della Biblioteca degli Intronati, a Siena. Mio padre è stato attivo, più o meno, nello stesso arco di tempo di Morandi (o di Licini, per stare a noi). E io ho la netta sensazione che l'arte di quelle generazioni sentisse profondamente il tema dell'equilibrio. Equilibrio compositivo - che in Morandi (o in Licini) fu essenziale - ma anche equilibrio interiore. Era magari una forma di compensazione, di risarcimento, per gli "squilibri", gli eccessi, delle arti - o anche della storia - di una generazione precedente, quella delle grandi avanguardie di inizio secolo, il Ventesimo; ma alla fine fu anche una buona chiave di assorbimento dei risultati positivi di quelle avanguardie nel momento in cui le si abbandonava e ripudiava. Certo, le teorizzazione di un Soffici o di un Ojetti tentarono di (col)legare l'aura da "Rétour à l'ordre" con il clima politico vigente. Alcuni artisti si sottomisero a questa interpretazione, ma probabilmente non furono la maggioranza, vestissero o no l'orbace per le feste ufficiali, la Biennale o la Quadriennale. Ci furono anche i ribelli - gli artisti del "gruppo dei Sei" o quelli di "Corrente", forse quelli della "Scuola Romana" - che però, se polemizzavano con l'arte ufficiale, non si spingevano più negli eccessi avanguardistici, restavano dei moderati. Tra i ribelli, a maggior ragione, metteremmo il solitario Licini, con il suo astrattismo - o, più tardi, surrealismo - che lo avvicinava a Klee o a Kandinsky. Ma anche lui, del resto amico di Morandi, è misurato, la sua pittura migliore e più matura resta nel segno dell'equilibrio. Nel dopoguerra, Licini si salvò dal'iconoclastia antifigurativa che travolse anche Morandi, come il romano Mafai, inducendo l'uno e l'altro a nefaste deviazioni. Ma tutta quella loro pittura, equilibrio compreso, non era da buttare via. Aveva sì una impronta italiana e forse provinciale, ma non era - in partenza - reazionaria. Oddio, Soffici fu di sicuro reazionario, ma restando all'ombra di Cézanne, oltre che degli scontati quattrocentisti toscani. E in definitiva, pur dietro a Soffici o ad Ojetti nascevano fiori straordinari, spontanei, leggeri, non male quanto a profumo, quasi impensabili in quel clima che si voleva invece marziale, guerriero, sempre scattante: nascevano nel raro humus dell'idillio e dell'intimismo. Ed ecco Morandi, ecco Licini intimisti e idilliaci, come ci confessano le due operine che ammiriamo alla galleria Fiorentini.

Dopo questo abbrivio un po' (chiedo venia) nostalgico, cosa c'entra ora un'opera di Maurizio Mochetti, artista quanto mai estroverso, versatile e poliforme, figlio di esperienze diverse, che ha contatti con l'arte prebellica solo perché alla Accademia ebbe come docenti i pittori Franco Gentilini e Luigi Montanarini? Mochetti è artista gestaltico, concettuale, lui stesso sostiene che l'arte è tutta nel progetto. E infatti la sua poliforme e polimaterica produzione è un susseguirsi di progetti. A volte mi fa pensare piuttosto a Beuys - un Beuys non usurato e drammatico, puramente narrativo - con i suoi riferimenti a macchinismi vari, a partire dai prediletti aeroplani Natter. Bizzarrie? Il concettuale a volte si riduce all' (o  si esalta nell') ingegnoso. Almeno da Duchamps in poi, questo è l'unanimemente riconosciuto confine che l'arte contemporanea si trova a varcare ad ogni momento. E sicuramente Mochetti gioca molto su questo confine quando, forse consumata la possibilità di ulteriori ricerche nel campo della luce e dello spazio da lui esplorato nei felici esordi, avvia una sorta di rievocazione (per nulla nostalgica, anzi piuttosto a freddo) di strutture tecnologiche anomale, paradossali, estreme, come possono essere gli aerei messi in campo dall'ultimo nazismo o il "Bluebird", l'automobile da record di Donald Campbell, o un aereoplano Piaggio o Lockheed. L'opera qui esposta rientra però, senza fatica, nel quadro tematico della mostra (ricordiamolo ancora: "equilibri"). Le dimensioni stesse (cm 50x50x5) del contenitore di perspex trasparente che è insieme materia e forma dell'opera sono compatibili con un quadro (e dàlli) di Morandi. Stesse proporzioni, stesso "equilibrio" insomma. E l'ombra proiettata dal perspex, compresa quella di un "foro di 5 mm" prodotto sulla superficie trasparente, disegna sul muro una traccia che è ancora un segno di misura, un elemento minimalista che non richiede altro che se stesso, non rimanda ad altro, ad un concetto genitoriale. Il progetto è, una volta tanto, forma; quasi un richiamo alle origini della pittura più classica - anche se inconsapevole, inconscio.

Non compio forzature se dopo Mochetti menziono Piero Fortuna o Gilberto Zorio. Anche Fortuna gioca, gioca con i materiali. Anche lui è concettoso, anche lui è ingegnoso, con quel coltellino a serramanico infilato (cascato per sbaglio?) tra strutture in acciaio, ebano e ottone, su cui grava il titolo, in irlandese ("Luì na gréine": tramonto). Gilberto Zorio piglia invce sul serio l'obiettivo di creare spazi polimaterici. Il suo "Stella notte" (cm. 100x130)  è adeguato alla bisogna.

E che diremo ora del Balla qui esposto?  Oggetto, o oggettino incomparabile che, almeno a me, giunge nuovo nella produzione di Balla, curiosissima opera più da scenografo che da pittore, giochino spiritoso che ci riporta al tema della mostra solo per le dimensioni lillipuziane: per l'aspetto, diciamo così, ludico, come potrebbero essere i ritagli fatti con le forbici su un foglietto per fare divertire un bambino ammalato e annoiato. Ma Balla insiste, ci vuole dire che è serissimo, le carte sono colorate, addirittura "coupures" da stampati. La datazione ci viene facile, se non altro perché le carte recano ancora frammenti di dicitura scelti con sensibilità da futurista. Colloco quest'opera,  idealmente, accanto al "Piccolo Rosso" di Calder, un "mobile" lilipuziano (cm 13x25) uno di quei suoi gingilli che hanno dato origine ad una oggettistica d'uso quanto mai variata, fino a certe collane o monili che tutti, prima o poi, abbiamo regalato a una qualche signora. Ma può, di per sé, la dimensione darci il senso dell'equilibrio? Certamente: comunque, i "mobiles" di Calder, quale che sia la loro dimensione, sono sempre strutture in equilibrio, anche se instabile. Così, anche il giochino di Calder entra rispettabilmente nel catalogo della galleria marguttiana (curato da Laura Cherubini).

Nell'introduzione al catalogo, Erica Fiorentini ci addottrina: il latino "equilibrium" "è composto da "aequus" e "libra". I due termini rimandano ad un senso di instabilità continuamente corretta e compensata, cosicché gli elementi restino sempre in bilico senza "sbilanciarsi" (appunto) da una o l'altra parte. E' il secondo modo di essere di un equilibrio: c'è infatti l'equilibrio statico, ed è quello espresso da Morandi, e c'è un equilibrio instabile e sempre in pericolo. E' quello appunto di Calder, ma anche di altre delle opere qui esposte. Giovanni Anselmo presenta un massiccio rettangolo di granito rosso di Balmoral (cm. 120x100x30, titolo: "Il colore mentre solleva la pietra/la pietra mentre solleva il colore"). Il rettangolo è appeso un po' di sbieco, e nonostante il cavo d'acciaio che l'attraversa cerchi di imporre un certo equilibrio di proporzioni, l'effetto complessivo è lievemente angosciante, evoca il rischio di uno squilibrio, anzi di una precarietà, come quando in una scenografia teatrale si vede alla parete un quadro appeso sghembo: lì tra poco scoppierà una tragedia.

La Fiorentini osserva poi che "nella storia della cultura occidentale vi è un alternarsi di una concezione che vedeva nella tensione all'armonia e all'equilibrio perfetto la rivelazione dell'odine certo e immutabile della creazione, e (qui citando Mark Ravenhill) 'di un'idea romantica per la quale l'arte che non sia ispirata dall'impulso fondamentale a creare una visione squilibrata del mondo è probabilmente cattiva o mediocre' ". Quella di Morandi non è (probabilmente) arte mediocre, anche se possiamo apprezzare la trovata di Anselmo, indirizzata al plesso solare come il ben assestato cazzotto di un pugile. Scherzo, naturalmente: e nella mostra ci offrono ulteriori esempi di s-quilibrio l'installazione di Alice Cattaneo e - magari tiratavi per i capelli - l'opera grafica (grafite, carboncino, sanguigna su carta) di Simone Berti. Alice Cattaneo costruisce con tondini di ferro smaltati di bianco un parallelepipedo, poi lo schiaccia, lo deforma, infine sospende nello sghembo spazio che ne risulta un sottile reticolato nero di fili di nylon (nella lista delle opere vengono menzionate anche "fascette per cablaggio", io non le ricordo). Si perdoni la pignoleria dell'elencazione, ma in queste opere l'elencazione dei materiali è (quasi) tutto, è lo spartito-guida nel gioco di "costruzione-decostruzione" di cui parla, a proposito di questa artista, Erica Fiorentini. Che azzarda anche una osservazione un po' fuori degli schemi critici per rientrare piuttosto in quelli della psicologia (di quale scuola o tendenza, così su due piedi non saprei dire), lì dove fa riferimento all'"inestricabile conflitto" che è nella psiche umana, tra "l'aspirazione all'equilibrio e l'attrazione verso la sua perdita"; oppure quando, con modulazione storicizzante, cita un'arte privilegiata e primaria solo perché ispirata ad oscuri impulsi verso lo squilibrio. Echeggia in queste parole una tendenza che ha avuto parecchi padri e parecchi seguaci: l'avversione per gli statici equilibri della cultura rinascimentale all'italiana. Non credo, anche se lei ne fa il perno della sua presentazione al catalogo, che la Fiorentini la condivida, se non altro perché la sua mostra - molto italiana - pone al centro l'idea di equilibrio come punto focale di arrivo, per questa o quella qualunque  ricerca artistica. Non è, lo s-quilibrio, una negazione, o al massimo una aspirazione a qualcos'altro, ad una desiderata e forse irraggiungibile perfetta immobilità? L'equilibrio è autosufficiente, non "desidera" nulla, tanto meno il suo contrario, altrimenti - semplicemente - non sarebbe quel che è.

Lasciamo stare queste sottigliezze, anche se continuamente evocate quando guardiamo un'opera d'arte contemporanea, quella del dopo-pittura, per intenderci. E ora soffermiamoci davanti alle opere di Grazia Toderi, "Orbite Rosse" (cm. 35x40) del 2009. Toderi non sfugge alla responsabilità della esattezza. A me era venuto fatto di definire questi suoi lavori come mappe cosmologiche di una astrologia rinascimentale, un tracciato di ellittiche orbite sulle quali si spostano soli, pianeti e satelliti, resi - mi ero detto - con gocce di stagno fuso, quello degli idraulici di un tempo. E infatti, con onestà, nella lista le opere della Toderi sono descritte come eseguite su carta con grafite, metalli e "stagno fuso". Torniamo infine idealmente indietro, rispetto a queste complesse elaborazioni postmoderne, con il teatrino polimaterico di Fausto Melotti. L'originale scultore fu sicuramente, anche per ragioni anagrafiche, artista avvezzo al rispetto degli, o dell'equilibrio, nelle sue diverse forme, statiche o mobili. L'opera qui presentata forse non è coerente con il tema della mostra, o forse sono io che non riesco a trovare tale coerenza. Mi piace però la manualità "novecentesca" con cui l'artista foggia i pupazzetti inseriti (un po' - se non vado errato - alla Arturo Martini) in una cornicetta di legnetti colorati.

Mio dio, dopo questa lunga e inadeguata ricognizione della mostra allestita con passione da Erica Fiorentini forse si capirà che sono uno di altri tempi, di un tempo ormai sepolto in distanze siderali, quello che fu definito il "secol breve".


giovedì 15 maggio 2014


IL PANTHEON DEL LAICO


Il laicista è simile, senza che lui lo voglia, al clericale cui si contrappone e che risolutamente combatte. Il clericale, o magari solo il credente, crede (appunto) nei Santi, ne sfoglia e venera l'elenco, ne ha uno per ogni occasione; nella lunga stagione del suo protagonismo culturale, il laicista ha eretto a sua volta un bel Pantheon di figure di rilievo sociale ed umano - eccellenze etiche, culturali, ecc. - che qualcosa a che fare con gli altari e le immagini dei Santi ce l'ha. Mi pare sia stato l'illuminismo a diffondere la fede nella virtù pedagogica del personaggio illustre e a promuovere, in questa cornice di nuova "religione civile", l'intitolazione di strade e piazze (ma anche di monumenti) a cotante figure. A Roma, mi fa sempre senso scoprire la statua del personaggio polemicamente eretta dopo il 1870 - tipico, il Giordano Bruno di Campo de' Fiori - fianco a fianco della statua o l'immaginetta del Santo o della Madonna, in una mutua rincorsa a strappare la riverenza - se non la reverenza -  del passante.

Il laico, come non ha santi non dovrebbe avere personaggi da specialmente ossequiare. Però giorni fa, sfogliando un giornale, mi sono soffermato un po' dinanzi alle immagini di quattro figure per le quali mi è venuto spontaneo un sentimento di rispetto e che ho collocato subito in un personale, simbolico Pantheon. Erano i ritrattini di Jean Jacques Rousseau, di Johann Heinrich Pestalozzi, di Friedrich Fröbel e di Maria Montessori, ricordati per la loro attività di pedagogisti: Rousseau per l'"Emile", Pestalozzi, Fröbel e la Montessori per le loro idee innovative e e per i loro sforzi intesi a realizzare istituzioni dove applicarle.  Cosa hanno i comune questi educatori, cosa mi ha fatto pensare a loro come benefattori dell'umanità? In un modo o nell'altro, tutti e quattro hanno cercato di sviluppare una idea di educazione libera e liberatrice, affidata alla spontaneità della natura, nella fiducia che le capacità e possibilità dell'uomo tendano al bene, e che tali capacità e possibilità debbano aessere stimolate con una educazione aperta, non punitiva. Le idee dei quattro furono avversate dalle politiche, dalle abitudini, dalle chiese dei loro tempi. Ancora da ragazzino, ricordo come i neonati venissero fasciati strettamente, un po' come il bambinello dell'Aracoeli, contravvenendo all'intuizione e predicazione rousseuiana di lasciar libere da costrizioni e sostegni le gambette del neonato.

Via via, Pestalozzi, Fröbel e Montessori introdussero nell'educazine concetti che quella intuizione rousseuiana riprendevano e ampliavano: l'educazione, per loro, deve essere educazione alla libertà e nella libertà. Fröbel ideò quell'istituzione straordinaria che è il Kindergarten, dove il bambino è lasciato libero di esprimere il proprio mondo interiore, non attraverso il linguaggio ma attraverso il gioco. L’educazione del bambino è celebrazione ed esaltazione dell’autonomia spirituale dell’essere umano che quegli già è in nuce. Il Kindergarten, la scuola-giardino, è il luogo in cui l'infanzia, similmente a una pianta, cresce e si sviluppa secondo le sue necessità interiori. Il gioco è stimolato da materiali e attività attentamente scelti nel loro significato pedagogico. Per i più piccoli Fröbel ideò i doni, oggetti di legno offerti al bambino per indurlo alla scoperta della realtà e di se stesso: una palla, una sfera, un cubo, un cilindro, forme adeguate, nel loro semplice geometrismo, a stimolare le potenzialità del bambino: l' osservazione, l'esercizio tattile, la separazione e la ricostruzione di dati elementari. Ne "L'Educazione dell'uomo" (1826), Fröbel sviluppa le riflessioni di Pestalozzi sui concetti educativi di spontaneità e intuizione e il misticismo dei filosofi suoi contemporanei. Maria Montessori (ma anche due altre figure dimenticate, le sorelle Agazzi) si rifaranno a lui. Per questi pedagogisti, l'uomo non sarà "ideologicamente" buono, non sarà necessariamente il "buon selvaggio" di Rousseau, ma l'educazione può e deve cogliere e sviluppare i germi delle sue qualità positive. Siamo alle soglie dell'etica della responsabilità. Da Rousseau a Fröbel a Maria Montessori corre un lungo sottile filo, la sostanziale fiducia nell'uomo, non più visto come l'erede e il portatore della colpa primigenia di Adamo. Adamo espia con il lavoro quella colpa, Fröbel cerca di assimilare il lavoro al gioco originario e, reciprocamente, ne scava la forza salvifica, non impone l'aspetto della pena. In definitiva, da Rousseau alla Montessori si dispiega una sorta di permanente rivoluzione dell'umano, un aspetto dell'illuminismo che a volte è in pieno contrasto con altri aspetti, pur anch'essi propri di quel grande movimento culturale: quelli da cui nasce l'etica dello Stato, la morale istituzionalizzata e la stessa "religione civile", che può ammettere, o richiedere, una statua commemorativa ma solo per figure non socialmente antagoniste. Poi magari ci sono eccezioni: ma volete mettere a confronto l'angusta e corta Via Montessori, relegata al quartiere Trionfale, con l'immenso viale Palmiro Togliatti?

domenica 11 maggio 2014

I miei giudizi sono importanti per me, ne sono geloso. Non ho mai voluto, ed ho sempre evitato, che fossero importanti per gli altri.

venerdì 9 maggio 2014

                                                                 COMIZI

da "Il Foglio"

Domenica pomeriggio. Mi stacco (a fatica) dal computer, mi vesto ed esco, voglio sgranchirmi le gambe. Mi dirigo verso la via principale del quartiere, un quartiere semicentrale però oggi deserto, con le serrande tutte chiuse se non fosse per l'immancabile spaccio dei cinesi, il banco dei fruttivendoli del Bangladesh, e poi i caffè e la libreria cui mi indirizzo tanto per avere un obiettivo.  A metà strada, una piazzetta ornata di stente aiole dinanzi all'ingresso del mercato di quartiere. Ora, ovviamente, è chiuso ma nella piazzetta c'è un po' di folla, sento qualcuno che parla. Una donna mi mette in mano un depliant a colori con in copertina una immagine di Cristo: “La grande Missione in 100 Piazze di Roma”. La gente si tiene disciplinatamente su tre lati, il quarto ha al centro un modesto palco e un microfono, cui fanno ala, da una parte tre chitarristi dall'altra quattro o cinque suonatori con strumenti vari. Indietro, defilato,  scorgo un prete, tutto in bianco, seduto su una sedia, le mani distese sulle ginocchia, a capo chino. Al microfono sta ora parlando un giovane, vestito modestamente. Non mi pare il suo sia un discorso forbito, trovo più esplicito e conclusivo il distico tratteggiato a grandi caratteri su uno striscione alle sue spalle: “La fede viene per l'ascolto del kerigma”. Il depliant mi fornisce ulteriori spiegazioni: la “Grande Missione” consiste in cinque incontri – immagino come questo – che si terranno durante il mese di maggio nelle 100 piazze evocate. Leggo anche: “Con papa Francesco, nelle piazze ad annunciare Gesù Cristo, Egli ci salverà”, e quindi, una enigmatica frase di San Paolo: “Dio ha voluto salvare i credenti mediante la stoltezza della predicazione (del Kerigma)”. Quel termine, “stoltezza”, nei secoli ha disturbato, e ancora disturba, parecchi: se mi è consentita l'integrazione, i “benpensanti”. I quali, come è noto, hanno gran cura della saggezza, quando si identifichi con la (loro) occhiuta prudenza.

Non so se l'iniziativa sia dovuta all'impulso di Papa Francesco e al suo modello ecclesiale. Ricordo qualcosa di simile, chitarre comprese, all'epoca e subito dopo il Concilio Vaticano II, quando i laici si trovarono sorprendentemente a dover e poter occupare le chiese con i loro dialetti culturali ed etici, non più contrapposti al latino che scendeva dai pulpiti. Durò poco, quei tentativi vennero presto riassorbiti. Ma il richiamo della parola gridata in piazza mi ha sempre affascinato. Ho fatto anche io comizietti tipo questo, reggendo un identico altoparlante con il manico come il calcio di una pistola. Forse il mio primo fu a Verona o a Vicenza, nel corso di una marcia antilitarista Milano-Peschiera. Tenevamo comizietti del genere ad ogni paese o città che la nostra carovana attraversasse: accanto a noi Radicali - impacciati borghesi strappati fuori dalle loro giacche e cravatte - c'erano i primi capelloni, i primi freaks, le prime femministe, i primi anticlericali e antimilitaristi ignari di una gloriosa tradizione protosocialista. I camionisti che incontravamo, quando porgevamo loro i volantini (stando attenti che non se ne perdesse uno) ci gridavano dietro qualcosa come: “Andé a lavurà”. E c'erano i primi fumatori di marijuana, la sera si rifugiavano in qualcuna delle baracche che ci ospitavano nei posti di tappa. Allora noi non sapevamo nulla di droghe, di marijuana, di erba, di cannabis. Marco decise di andare a dormire anche lui in quella baracca, poi ci riferiva sul nuovo fenomeno socioculturale.

Quei miei primi comizietti mi stremavano, mi pareva di trovarmi sempre dinanzi ad un vuoto incolmabile e tremendo. Il vuoto era dentro di me, dovevo inventarmi una attitudine cui non ero assolutamente preparato. Quei comizietti rompevano infatti, e sfidavano, un clima sociopolitico segnato dai grandi, oceanici comizi dei grandi partiti di allora, i partiti "di massa", o anche dalla incipiente TV.  Ne tenevano di altrettanto sparuti certe frange di estremisti, di sfigati, di ferrivecchi culturali, io avevo una gran paura che anche noi fossimo assimilati a questi... Parlare alla gente è un affare difficile. Ma ho avuto sempre una simpatia per la parola, rispetto allo scritto. Non sempre la parola del comiziante è all'altezza del "kerigma", però dà la sensazione che sia un affare laico. Bisogna sforzarsi di essere dialoganti, magari convincenti (allo sbaraglio: laici, appunto). All'epoca del divorzio mi toccò fare un comizio a Orte, borgo selvaggio quant'altri mai. La piazza era gremita di gente dall'aspetto contadino. Appoggiati al muro in fondo alla piazza, due uomini in giacchetta nera e la camicia senza il colletto, con la sola cimasa. Li guardavo: feci con me stesso una scommessa. Avrei giudicato riuscito il comizio se mi fossi fatto ascoltare e capire da quei due. Sapete? Non si staccarono mai dal muro, gli occhi sempre piantati su di me. Non sono un pauperista, ma questo ritorno ai comizietti di quartiere con l'altoparlante a mano ho la sensazione che indichi un cambiamento di epoca, anche se non epocale. E non è detto sia un ritorno indietro.