giovedì 17 aprile 2014

IL MONACHESIMO SECONDO RATZINGER

Il “Foglio” viene (ri)pubblicando alcuni “grandi discorsi” di papa Benedetto XVI. Anche a me l'iniziativa piace, non vi è dubbio che Ratzinger abbia le stimmate del grande professore, ricco di una cultura profonda e intensa, da intellettuale capace - come si esprime Giuliano Ferrara - “di un concettualismo stilnovista fatto di intelletto e amore". Ci insegna sempre qualcosa, anche nel (possibile nostro) dissenso. Il 4 aprile il giornale ha presentato il famoso discorso tenuto a Ratisbona nel settembre del 2006 che innescò un vivacissimo dibattito sul rapporto dell'Islam con la “ragione”; l'11 aprile quello tenuto nel settembre 2008 al Collège des Bernardins di Parigi, “un luogo storico, edificato dai figli di San Bernardo di Clairvaux". In questo intervento, Ratzinger esplora e ripercorre il cammino del “monachesimo occidentale”, e quindi delle “origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea”, ponendo alla fine una domanda scottante, drammatica: l'esperienza di quei lontani monaci "interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato"? Per dare risposta all'interrogativo, Ratzinger sviluppa una articolata, splendida riflessione sulla "natura" profonda di quel monachesimo.

Per pura coincidenza, sto sfogliando un libro collettaneo, organizzato da uno studioso ed  esperto di quel mondo e della intera cultura medievale, Jacques Le Goff, purtroppo venuto recentemente a mancare. In uno dei saggi, Giovanni Miccoli ci avverte che “monaci e monasteri hanno cessato da tempo di far parte della comune esperienza degli abitanti d'Europa". “I monasteri e i priorati – cluniacensi, cisterciensi, certosini, camaldolesi, vallombrosani – che nel XII secolo, all'apogeo dell'espansione monastica, popolavano a migliaia le contrade d'Europa, si sono ridotti a poche centinaia in tutto il mondo” e “i loro diminuiti abitatori restano una presenza silenziosa e rara, spesso inavvertita per lo stesso popolo cristiano”..."Non figurano più tra gli incontri ordinari e ricorrenti del suo paesaggio storico”. E' una fredda constatazione cui Ratzinger contrappone la tesi - in lui nutrita di profonda convinzione razionale oltreché spirituale - che quanto costituiva l'essenza di quel monachesimo, cioè la continua ricerca di Dio, non possa non essere anche oggi il fondamento della cultura: anche oggi come ieri, per Ratzinger, "l'assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui”. Il rarefarsi dei monasteri non estingue, non significa la morte di tale esperienza. A questa tesi cercherò di agganciare alcune riflessioni, volenterose pur se non suffragate dalla profonda ed intima cultura che rende smaglianti gli scritti di Ratzinger. Il monachesimo di cui il papa emerito ci fa il ritratto fu una grande esperienza storica, innervatasi sulle radici della civiltà classica in una ibridazione che ha - possiamo dire -  dello stupefacente: che il Dio della Bibbia, sostanzialmente antropomorfo e "creatore", potesse fondersi nell'"Essere" della metafisica greca grazie alla mediazione del Cristo, cioè del "paradosso", dell'"assurdo" di cui ci parla Tertulliano, fu davvero una impresa culturale complessa quanto spericolata. Ce lo ricorda chiaramente il prologo di Giovanni, "In principio era il Logos", le cui radici affondano nel terreno del più puro ellenismo. Ma fu pur sempre una impresa culturale e intellettuale. La grande cultura monastica medievale arricchì quella operazione filosofico-teologica di una concreta esperienza esistenziale, fu il modello visibile, la forma terrestre, la struttura sia pur transeunte ma veridica che faceva intravedere all'uomo - e gli garantiva - quella Città Celeste, il paradiso cristiano, cui doveva dunque tendere la sua vita, in tutte le forme che essa potesse assumere, quelle forme di cui ci parla Le Goff: il monaco, il cavaliere, il contadino, il cittadino, l'intellettuale, l'artista, il mercante, la donna, il santo o anche l'emarginato. Il medioevo si riconosceva interamente, e assumeva come modello, l'esperienza "dell'uomo che, individualmente o collettivamente, si separa dalla massa sociale per vivere un rapporto privilegiato con Dio". E' il monaco di cui ci parla, con affetto e vicinanza, papa Ratzinger.

Le Goff ci ricorda che quella fu una esperienza storica che ha avuto luogo in un tempo e in uno spazio definito e irripetibile, di cui dobbiamo scavare le caratteristiche grazie ad una laboriosa indagine documentaria e filologica. Per Ratzinger - dobbiamo dire "invece"? - è esperienza ancora viva se solo ci poniamo all'ascolto della sua maggiore eredità, la attenzione alla "parola". Che certo è un punto di riferimento, oggi però evanescente e vuoto perché privo di quel sistema saldamente strutturato che fu la società medievale - della quale la "parola", il "logos" insegnato dalla Chiesa rappresentava la giustificazione ultima e definitiva. C'è qualcosa di simile, che possa essere oggi presentato con efficacia e capacità di persuasione a un mondo globalizzato - non più europeocentrico - che ha nel web la sua "parola", il suo "logos" esemplare?

giovedì 10 aprile 2014


                                                         SPUNTI  DI  ATTUALITA'

Miracoli. Il "Fatto Quotidiano" solitamente fa professione di grintoso laicismo ma l'altr'ieri - solitario -  spara su due pagine una inaspettata inchiesta: prima la notizia poi tanto di commenti: "Si concluderà a metà aprile il seminario Studium organizzato a Città del Vaticano dalla Congregazione delle cause dei santi. Lo Studium, istituito da un'udienza pontificia del 1984, ha per obiettivo la formazione di postulatori e collaboratori del Dicastero, nonché delle figure di delegato episcopale e Notaio nei tribunali specifici che trattano le cause dei santi (...). Nelle 76 ore di lezione svolte presso la Pontificia Università Urbaniana si affrontano diversi temi che ai non adepti possono sembrare singolari: (...) i segni necessari e contingenti della santità, fama di martirio e teologia dei miracoli..." eccetera.  Ne viene fuori una vera e propria inchiesta sui miracoli, sul "miracolo", con due commenti di peso: il teologo Vito Mancuso e l'attore e premio Nobel Dario Fo. Mancuso è sofisticato: alla tesi per cui i miracoli sono "eventi prodigiosi che vengono dal divino" contrappone quella secondo la quale i miracoli "sorgono dal basso, dall'energia della mente umana, che non dominiamo del tutto e che la scienza non è in grado di spiegare". E ricorda che i miracoli non sono appannaggio esclusivo della fede cattolica: "nel santuario greco di Esculapio, il dio della medicina, sono stati ritrovati exvoto uguali a quelli di oggi. La stessa cosa avveniva in Egitto e oggi in India". Oddio, in proposito mi pare che la chiesa primitiva combattesse aspramente le insorgenze "miracolistiche" legate alla fede in dei e culti pagani: come può un idolo - "falso e bugiardo" - produrre salute e salvezza?

Ma, più in generale: vi è tutta una letteratura di stampo libertino-illuministico che tende a spiegare in termini naturalistici gli eventi o le situazioni proprie della religiosità. David Hume scrisse la "Storia naturale della religione" a metà del XVIII secolo. Obiettivo dell'opera è trovare i fondamenti della religione nella natura umana. La religione avrebbe la sua genesi nel sentimento del timore e quale esorcizzatrice della potenza naturale, che così risulta "benigna", non più  nemica dell'uomo. Un mezzo secolo dopo, Feuerbach sosterrà che di fronte al carattere illimitato dei propri desideri e delle proprie aspirazioni l'uomo si rende conto del carattere limitato dei suoi poteri. Dio viene immaginato come l'essere nel quale tutti questi desideri sono realizzati: a Dio, infatti, nulla è impossibile, tanto meno i miracoli. Ora, con Mancuso, siamo al miracolo come "prodigio dell'energia della mente  umana". Non innova di molto, il suo è solo positivismo aggiornato e sofisticato. Il noto teologo non sembra curarsi del fatto che i miracoli avvengono in aree culturali nelle quali, appunto, il miracolo viene accettato, mentre non avvengono in aree  - o con persone - culturalmente estranee al tema (penso alle aree pur cristiane ma protestanti). Il miracolo insomma, a mio modesto avviso, non "avviene", ma "viene percepito". Basta crederci. E Fo, Fo, che dice? Ho l'impressione che le due pagine siano state poste al servizio dell'attore, che a giorni riporterà in teatro una sua nota opera, “Lu santo Jullare Francesco”. Il quale, pare, ai miracoli non credeva.

Il "caso" Braibanti. E' morto, a  91 anni, Aldo Braibanti, alcuni giornali ne hanno dato notizia. Per molti lettori quel nome non ha alcun significato, invece la sua è una vicenda esemplare, per molti versi, nella storia italiana del secolo scorso: quasi uno spartiacque tra due epoche profondamente diverse. Prima di Braibanti c'è l'Italia contadina, dai riflessi arretrati, che ne condizionano vita e usanze fin nei più segreti recessi familiari. Con Braibanti appare e comincia ad emergere un'Italia che cerca di recepire alcuni elementi di modernità, di  laica autonomia nei comportamenti individuali e sociali (siamo, per capirci, ai tempi delle battaglie per il divirzio). Aldo Braibanti, filosofo, poeta, artista non privo di genialità, venne denunciato, processato e incarcerato per aver indotto un giovane ad abbandonare la cattolicissima famiglia e ad andare a vivere con lui. Erano omosessuali. Il reato contestato a Braibanti era quello di "plagio", residuo di un codice arcaico, risalente al 1930, che puniva "chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione". Ipotizzava, dunque, il reato di schiavitù, anche quella che si può avere quando si assoggetta impropriamente ai propri voleri una persona privandola della libertà, ma anche della volontà e, in definitiva, dell'identità. Naturalmente, nulla di questo interessava la vicenda di Braibanti e del suo amico, l'accusa era un pretesto, si voleva colpire un comportamento. Nell'occasione Marco Pannella affrontò per la prima volta, in un'aula di tribunale, il tema della giustizia italiana. Fu un bellissimo, appassionante confronto. E' lo stesso tema che porta ancora oggi Pannella ad insistere nella campagna sul carcere e la "giustizia giusta": una continuità di attenzione politica e culturale che la dice lunga sullo stato della giustizia e del diritto nel nostro paese.

















lunedì 7 aprile 2014

Angiolo Bandinelli, "SCRITTURE DEL TEMPO".
Edizioni Forme Libere
11 euro

"scavate, scavate in questa
poesia, andatele dentro
fin dentro la sua malattia

a costruire, sopra immensi
orizzonti, cittadelle immortali"

giovedì 3 aprile 2014

 VERSO L'EUROPA, I CATTOLICI SONO LAICI
(da "Il Foglio"

Uno dei temi cari alla polemica cattolica contro l’unificazione risorgimentale - tema abusato peraltro anche da polemisti marxisti e comunisti - fu che il moto unitario, opera di una èlite borghese, aveva forzosamente cancellato o comunque calpestato la più profonda sostanza culturale, etica e religiosa del paese, espressa dalle grandi maggioranze popolari e contadine. Nella polemica vennero più volte rievocati i moti antigiacobini e quelli antirisorgimentali esplosi qua e là, spesso guidati o aizzati da preti legati al territorio. La polemica antiunitaria poté contare soprattutto di una prestigiosa intellettualità della Chiesa romana, che elaborò idee e slogan pesantissimi: nel marzo del 1861, dopo che Pio IX aveva condannato il nuovo Regno d'Italia come "negazione di Dio", "Civiltà Cattolica" definì "mostruosa", "fittizia", "innaturale", l'unificazione, mettendo in guardia i cattolici dall'"idolatria della patria" e dal complotto tessuto "sotto la guida occulta della massoneria". Nel primo fascicolo della rivista, nel 1850, Matteo Liberatore sosteneva che la "rivoluzione italiana" era un'ultima tappa nella lunga catena di attacchi alla fede cattolica iniziata con la riforma protestante. La polemica dilatò i suoi obiettivi. Nel 1864, con Pio IX, arrivò la condanna delle dottrine liberali e delle “cosiddette libertà moderne”, che erano poi la libertà di pensiero, di coscienza, di parola e di stampa. Finalmente il Sillabo, pubblicato nel 1864 assieme all'Enciclica "Quanta Cura", tracciò una linea di demarcazione invalicabile tra il cattolicesimo e la modernità. Tutta roba nota, ho solo spulciato qua e là tra il lungo elenco dei documenti papalini ed ecclesiali di rifiuto della storia e della modernità. Il Concilio Vaticano II tentò di ristabilire un dialogo con i tempi, ma credo che pochi eventi siano altrettanto malvisti e persino respinti all'interno del mondo cattolico.

Oggi, atteggiamenti antirisorgimentali e antiunitari vengono di nuovo agitati da forze politiche non proprio marginali. E non è strano che quei temi sostengano tutt'assieme una polemica antieuropea non meno intensa di quella antiunitaria. Io ricordo che la campagna per il divorzio venne salutata nella stampa straniera come un passo verso l’Europa di una Italia "recalcitrante" come uno di quei muli che ancora popolavano un paese quasi interamente agricolo. Non solo: mi pare che con l'antieuropeismo di oggi stia riaffiorando - sia pure non esplicitamente - la grande faglia che divise il paese durante quella campagna, la faglia tra laici e integralisti - non solo cattolici, ripeto, ma anche dotti e ferrati marxisti, ostili ad una istituzione che, secondo loro, avrebbe separato e contrapposto le masse cattoliche da quelle socialiste, univocamente protese verso la conquista del potere e la grande, attesissima, vittoria proletaria sulla borghesia, la sola interessata a quella istituzione che è il divorzio, borghese appunto. Temi non molto lontani, almeno per lo spirito rancoroso, vengono oggi sbandierati contro l’Europa, denunciata come prodotto del capitale, delle banche, dei grandi interessi finanziari, di tutta una consorteria antipopolare, dunque antidemocratica. E, di nuovo, si affacciano integralismi antilaici, rivendicazioni di un passato - i localismi ne sono espressione inconscia - nel quale solo si riscontrano virtù e sentimenti autentici e validi. Non è detto che la modernità sia tutta un bene, e che intorno all'Europa non si debba e possa discutere, ma spaventa che appaiano già padrone del campo e senza alcuna opposizione seria solo le forze ostili all'Europa e alla sua modernizzazione, che non può non puntare all'incontro, la fusione e la reciproca integrazione di linguaggi ed esperienze.

C'è comunque da notare positivamente - ed è per questo che abbiamo ricordato le voci cattoliche ostili al Risorgimento - che questa volta le tesi che (almeno a me) appaiono antimoderne non provengono dalla cultura o alla dottrina cattolica. Anzi. Scomparsi come forza politica autonoma, i cattolici impegnati non sembrano affollare le schiere di Le Pen o di Grillo, semmai è il contrario. Se dobbiamo felicitarci con il mondo dei fedeli alla cattedra di San Pietro, è che oggi essi sono in larga misura nel campo dei moderati, persino illuminati, attenti alle voci della modernità, attivi sostanzialmente nel campo europeista (anche se non accontentati nella pretesa del riconoscimento delle "radici cristiane" dell'Europa). Continuano, e continueranno, a battersi per la difesa dei "valori etici", "non negoziabili", ma la legittima battaglia non ha i toni aggressivi di qualche anno fa. I cattolici impegnati in politica esercitano il loro diritto di operare nello spazio pubblico senza più la pretesa all'assolutismo antimoderno. E' una atmosfera, questa, che arricchisce e rifonda l "dialogo" con i laici fino a poco fa impaludato in una intransigenza, in definitiva, poco produttiva. Chissà se questo sta accadendo per diretto impulso di papa Francesco, ma se così è perché non felicitarsene? Perché denunciare con acredine che il papa argentino piace più ai laici che ai cattolici (dico "cattolici", non "credenti")?