mercoledì 17 dicembre 2014

Da:

Angiolo Bandinelli 
"Giardini crudeli"
pagg. 78
Ediz. Pendragon, 2014
10,00 euro


Capitolo 3


Da quando - con Baudelaire - la poesia è condannata all'urbano, tocca alla prosa penetrare le lusinghe del paesaggio. Ma a suo rischio: può uscirne indenne, e può esserne travolta e perirne. Il giardino è il labirinto, dentro ogni giardino c'è un vago orrore di violenze e di blandizie, di sacrifici crudeli. Chi riuscirà a cogliere i segreti e le metafore di un giardino, le trame grazie alle quali i suoi proprietari consumano il rapporto con uno spazio delimitato e fantastico, con una natura ristretta eppure imprevedibile, quasi sempre fallendo e ritraendosene amareggiati (e a noi resta solo farci strada attraverso l'impalpabile e mai accettata incuria in cui decadono, prima o poi, i più belli e famosi giardini)?

Ma i giardini sono ormai rari. E' possibile che in città, anche nei quartieri più aridi o sulle terrazze, scarni riquadri verdi di fiori e piante abbiano un posto di riguardo e opulento, e ad essi si rivolgono fruttuosamente le rubriche dei settimanali dedicate a ciò che è perduto; ma sono veri giardini, quelli dove si coltivano piante senza radici nel profondo? E neppure sono belli i giardini pubblici, le piante senza un padrone languono, il giardino vive nel rapporto lungo col tempo e con le gelosie di chi lo cura. Resta la tristezza dolce dei vecchi giardini abbandonati nelle ville e nei suburbi, delle aie e dei cortili.

Il giardino di Matteo e Camilla è piccolo, un fazzoletto dietro la casa (ancora una stalla restaurata), pochi metri quadrati che si affacciano su un muro a secco a filo del quale, due metri più in basso, corre la viottola da dove entrano in paese le macchine agricole e i trattori. Un giardino, dunque, che offre pochi spazi. Dalla casa si scende sul terrazzo, rettangolare, cinto da una sottile ringhiera. Due corte gradinate in pietra, una di qua e una di là, e si è nel prato. A destra si innalza un alloro, alla sinistra c'è invece un enorme rosmarino, da cui si dipartono e al quale richiamano tutte le delizie e tutte le promesse. Quelli che capitano nel giardino se ne escono in esclamazioni ammirate, giurano che mai hanno visto un cespuglio di rosmarino uguale a questo. E' di dimensioni davvero inconsuete. I rami oscillano protesi in festoni, spasmodici, in tutte le direzioni, e sormontano il terrazzo infilandosi tra le sbarrette della ringhiera: amano la pietra, l'arenaria che accumula e riverbera il calore del sole. Basta sfiorarli, passare la mano sugli aghi succulenti, per ritrarla impregnata di essenza, che resta a lungo, pesante.

Matteo lo comprò che entrava tutto in un vasetto di plastica nera interrato in un'aiola insieme a centinaia di altri, in bell'ordine. Voleva qualche pianta officinale, e un rosmarino non poteva mancare accanto alla salvia, all'origano, alla ruta, alla menta, alla borragine. Il rosmarino crebbe rapidamente. Più rapidamente di ogni altra pianta del giardino, eccetto l'alloro che lo fronteggia col suo fogliame nero. Ora è un cespuglio così folto che cinque persone tenendosi per mano riescono appena ad abbracciarlo, e dilaga fino a coprire metà del terrazzo. Per quasi tutto l'anno è una festa di verde e di blu, il blu inconsunto dei fiori che in tutte le stagioni ne punteggiano il mantello. All'inizio dell'estate i rami infittiscono, si gonfiano di umori, i nuovi sopra i vecchi rivestiti di squame, e guadagnano qualche centimetro ancora sulla ringhierina che avvolgono e celano con la forza e l'intensità di una piovra terrestre. Matteo prova un po' di orrore dinanzi a questa pianta. Gli fa venire in mente, come nessun'altra, il ceppo oscuro delle cose e delle anime.

Il suo profumo e i suoi fiori richiamano incessantemente una popolazione di insetti varia e inusitata. Accorrono da ogni parte, ammantano il cespuglio di un ronzare
turbolento. Vespe gialle e nere, api piumose con le zampette appesantite dal polline,


calabroni bluastri e coleotteri rivestiti di scaglie - nere, o scintillanti di tutte le smagliature dell'iride - partono in volo o si posano leggermente. Certi aprono la corazza e ne estraggono, come quando un violino esce dalla custodia, ali ronzanti visibili solo per un attimo prima che l'insetto torni a librarsi a mezz'aria. Mantidi impacciate, come fossero caricate di un peso enorme o rese ottuse da un male segreto, farfalle svolazzanti in scatti maniacali, tutta un'arnia in continuo e irrefrenabile moto. Sembra obbediscano a un richiamo, o piuttosto a un ordine che vieta loro di fermarsi un istante. Volano da un rametto all'altro, da un mazzetto di fiori a un cespo, si posano su un grumo blu e subito si precipitano su uno più in là, incalzando e penetrandolo con sottili antenne e proboscidi per suggerne profumi e cere.

Mentre sono ancora indaffarati le ali trasparenti li strappano via per trascinarli, malvolentieri, dall'altra parte del cespuglio dove il rito riprende, ugualmente assillato. Dietro già altri zampettano, aggrappandosi ai rami e agli aghi verdi sotto i quali il rosmarino ha il colore della cenere, o scavalcando nodosità e forcelle tra cui si stende una tela di ragno polverosa. La danza delle ali comincia il mattino presto, appena i raggi del sole, cadendo dai vertici dell'azzurro come una pioggia, si infiltrano tra i rami e fanno sentire il loro tepore. Si fa più intensa fino a culminare a mezzogiorno, sotto una luce che si è fatta arida. Il ritmo è ora intenibile, sembra che l'intero cespuglio sia scosso e vibri all'unisono, ed è difficile avvicinarglisi: vespe, calabroni, api volteggiano attorno all'intruso sfiorandolo, scattando ansiose. Nel pomeriggio il rosmarino si distende nella calura e profuma di resina, un richiamo torbido, dolciastro e repellente. Il pellegrinare delle api si fa più rado verso sera, quando pochi stanchi insetti vanno ancora in giro quasi stessero cercando di raccogliere gli avanzi del banchetto altrui, quanto è stato lasciato dall'avidità dei commensali del giorno e dalla loro furia di accumulare essenze e polveri dorate. Inattese danze


proseguono languide, fin dentro l'autunno e il primo inverno, di straniti coleotteri. Deboli, ubriachi per la stanchezza, si lasciano andare e cadono al suolo con le elitre aperte e le ali scosse da un tremito.

Poco discosto, Matteo osserva un lillà. E' un alberello smilzo, un bastoncino che sostiene pochi rametti a raggiera. Camilla ha voluto assolutamente un lillà, nel giardino. In ognuno dei giardini della zona, anche nei più poveri dove la terra secca brucia tra i cespugli, davanti al muretto o proprio in faccia alla casa c'è sempre un lillà, mai troppo alto e mai troppo bello. Solo a primavera, per un paio di settimane, i pennacchi dei lillà diventano la colorata bandiera del giardino, dell'orto, e attirano l'ammirazione dei passanti. Amano strapparne i mazzi violetti, e portarseli a casa. Gli amici in visita ne chiedono sempre, e non vengono mai respinti a mani vuote. Come se i sottili alberelli avessero il dono di riprodurne in magica quantità.

Anche Camilla ha voluto il suo lillà. Bisognava allora andare al vivaio, comprare la piantina in vaso. Invece, Matteo una notte ha preso la vanga, è uscito, si è diretto per lo stradello fin sotto il giardino dei vicini dal quale un gran ciuffo di lillà diffonde in giro polloni e virgulti primaverili, alcuni dei quali sono riusciti a farsi largo fin tra i sassi della strada, a qualche metro dalla pianta madre. Matteo si è dato da fare con la vanga. La notte era chiara e la strada era bianca, con ombre stagliate. Ha lavorato sordamente per non farsi sentire dai vicini, che sono in casa e tengono le finestre aperte e illuminate nell'aria tiepida. Sassi tenaci si sono opposti ai suoi sforzi. La
vanga ha sbattuto con clangore, a un certo momento. I vicini si sono affacciati per vedere chi sia, nel buio, a provocare estranei rumori. Matteo si è dovuto fermare per qualche istante. Alla fine, è riuscito a strappare la piantina con la radice e a portarsela a casa, dove è giunto trafelato.




venerdì 5 dicembre 2014


Da “L'Opinione”, 5 dicembre 2014
(giornale telematico: www.opinione.it)

Le dolorose tenerezze
dei “Giardini crudeli”

di Barbara Alessandrini
05 dicembre 2014CULTURA

Con "Giardini crudeli", edito da Pendragon, Angiolo Bandinelli esordisce come brillante e piacevolissimo autore di prosa nell'attuale e un po' ingessato panorama letterario italiano. “Sono il più vecchio esordiente della letteratura italiana - si diverte - ho superato anche Camilleri”.
Una cosa è certa, al di là di come arbusti, fiori, eventi e personaggi si intrecciano nel suo libro, si tratta di un esordio in "verde". La sua personalissima versione del green-style. Voleva scrivere “un libro dolce”, il nostro caro "radicale impunito" (ha iniziato su questa testata a scrivere per i giornali), “tra l'esercizio di stile e un girovagare per conoscere me stesso, per parlare della crudeltà degli uomini come riflesso di ciò che chiunque abbia pratica di giardinaggio conosce; tutte verità comprese mettendo per tanti anni le mani nella terra”. Più tardi la scoperta, “solo dopo averlo terminato, di aver scritto in realtà un libro sadico che racconta la spietatezza della natura”. Sì, volendo semplificare si tratta di un racconto descrittivo, un testo fito-analitico che osserva la dimensione efferata e imprevedibile del mondo vegetale e i meccanismi in cui l'uomo, la sua vocazione alla perenne concorrenzialità, alle astuzie, alla gelosia, alla vanità, si rifletta, lungo un tracciato di analogie spesso cupe con piante e fiori, in quelle sopraffazioni e crudeltà: semplice strategia di sopravvivenza. Per entrambi è in gioco il predominio, la supremazia sugli altri esemplari.
Per chi è abituato a leggere la sua raffinata produzione saggistica, poetica e di attento traduttore dei più grandi autori della letteratura inglese e francese, questo agile ma denso libro di Bandinelli non può che confermare la sua raffinata perizia nel giocare con un lessico coltivato con la cura e l'amore del tempo e svelare un'altrettanto accudita capacità letteraria e umanistica di cogliere tutta l'ambivalenza simbolica dello spazio del giardino, di scrutare vizi, morbosità, pieghe e increspature dell'animo umano attraverso approfondite conoscenze naturalistiche e botaniche.
La sensazione di una vocazione calligrafica evapora man mano che ad imporsi è quella prosa consistente e corposa con cui l'autore fissa le oscillazioni e l'imprevedibilità dei legami umani così come dei moti di piante e fiori nella feroce difesa del proprio spazio vitale. Tra sarmenti, nodosità, forcelle, rizomi e un straordinario campionario di fiori e piante che delizia il lettore spaziando dalle rose, dai tulipani ai corimbi verdi, dai tassi barbassi, alla malva, dall'iris ai corimbi verdi e blu dai pissolit agli alissi bianchi, "Giardini crudeli" è insieme un'impietosa visione grandangolare, controcampo, fotografia panoramica dall'alto ma anche sguardo circoscritto rubato tra gli interstizi di una siepe la cui chioma a tratti si sfoltisce. E' tuttavia parziale definire “sadico”, come è lo stesso autore a sostenere, lo sguardo con cui Bandinelli osserva ogni azione che si prospetta nella mente dei protagonisti di questi giardini e cattura le vicende in questo racconto, volutamente scarno di accadimenti ma concentrato in una dimensione spazio-temporale al cui interno affiorano una infinità di spietate dinamiche, metafore, sedimentati rimandi a precedenti letterari e mitologici sui giardini. Sì, dominano le connessioni tra le tormentate strategie di fiori e piante, le lotte profonde e ovattate tra radici, tra sopraffazione e vitalità, le competizione tra foglie e arbusti per guadagnarsi un lembo di luce e l'aspro cammino dei rapporti umani.
“Il giardino è il labirinto dentro ogni c'è un vago orrore di violenze blandizie, di sacrifici crudeli”. Il fil rouge che tiene insieme tutta la narrazione dei giardini è quello della crudeltà e della sopraffazione imposte dall'insensato gesto della violenta potatura iniziale di un rosaio, “un massacro”, che altera l'equilibrio di un progetto iniziale dei protagonisti, scoperto proprio nella fase in cui tutto dovrebbe ricominciare, in cui “la trama delle relazioni con la casa, il giardino, i vicini non è ancora ripresa” ed il cui spettro pervaderà tutto il racconto, fornendo anche una delle conclusioni del libro. L'errore umano produce alterazione dell'equilibrio che spinge ogni forma a “confrontarsi accanitamente con la vicina”. Rimane nei protagonisti un "horror vacui" che avviluppa quando ci si trova al cospetto di una realtà decurtata di spinta vitale e che nel racconto si manifesta tanto sul piano della progettualità botanica quanto su quello psicologico, quando le domande eluse “lasciano una specie di vuoto e una ha voglia di riempirlo”.
Sadismo, dunque, rincorso dall'autore che ama riproporlo anche in una rigorosa descrizione dello strazio centellinato a cui il gatto dei protagonisti sottopone un topolino. Tutto è scontro nello spazio del giardino, lievita in modo sordo e deflagra quando l'autore chiude l'interazione dei personaggi dei suoi cammei umani incastonati tra sospensione e attesa. Il perimetro verde in cui si consumano piccoli eroici gesti quotidiani, diventa sede e specchio di attitudini psicologiche e spirituali, la gelosia e vanità per ciò che ricompensa passione, dedizione e cura, il desiderio di domare la natura. Quantomai indovinato, è vero, il titolo “Giardini crudeli”. E' proprio Bandinelli ad evocare la lunga tradizione di riferimenti all'ambivalenza dello spazio dei giardini ove “c'è un vago orrore di violenze e di blandizie, di sacrifici crudeli”, perché vi si insinua la rappresentazione del massacro, della violenza, e indizi di sofferenza, pigrizia, vanità e orgoglio. Ma i giardini sono anche stazione di partenza per un viaggio nel tempo, piante e fiori si svelano proustiane madeleine, casuali corrimano della memoria, ritrovamento delle “tenerezze dolorose che ti assediano”. E insieme anche epifanie di passati irrefrenabili impulsi e di giovanili esperienze erotiche.
Un gelsomino, un lillà, un alloro e un rosmarino, bastano a risvegliare un vissuto sedimentato nella memoria e di cui attualizzano frammenti, a restituire frammenti del tempo ritrovato. “L'odore del giglio è l'odore della chiesa...è intollerabile, è l'odore della coscienza” ricorda il protagonista, è l'altra faccia del gelsomino, il cui profumo denso, pervasivo è penetrante come il ricordo di “un peccato rimpianto”: la scoperta del suo giovane corpo, un “peccato” consumato in un angolo di solitudine accarezzata da quei minuscoli fiori bianchi, che si svela nuovamente in un languore poi, dopo, solo accennato e attualizzato dall'autore in chiusura del racconto. Dunque giardino sede di dolce sensualità e complicità contro il metallico e monolitico e “nero” alloro.
Il giardino nutre la fisicità e i suoi ineludibili richiami, le sue imposizioni che possono condurre a rivendicare il diritto all'offesa, quella brutalmente fatta dalla iniziale maldestra potatura al 'corpo' del rosaio, e quella chiamata e desiderata come atto di riconoscimento di sé, da un corpo femminile trascurato, perché “non si può amare qualcuno se non se ne conosce il corpo”, così scrive l'amica dei protagonisti nella sua acre lettera finale, “a me piace toccare, e annusare e strofinarmi alle cose. A tutte le cose”. Perché “le cose bisogna conoscerle, saperle conoscere, per farle opulenti e dolci, ricche e felici”. Anche da questa conoscenza che afferra l'oltraggio del corpo, l'atto fondante di infierire su di esso, può passare l'amore.
Questo descrive la sofisticata penna dell'autore, questa trama, che talvolta si infittisce tal altra si allenta, di stati d'animo e condizionamenti, una metafora della rete di rapporti che come un giardino “vivono nel rapporto lungo col tempo e con le gelosie di chi lo cura”, si gonfiano di umori, come gli uomini all'inizio dell'estate. E, come nell'esistenza umana “ci sono piante che nessuno compra mai, che non si comperano”. E' così e basta. Come a voler svelare la similitudine tra le esistenze ben coltivate e i veri giardini. E nei veri giardini la rosa è regina, “il fiore per eccellenza” l'unico dalle cangianti cromie: rosse, gialle bianche striate, di multiforme materialità dalla leggerezza della seta, alla carnosità del velluto. Ad essa l'autore affida il compito di catalizzare e rivelare formidabili dedizioni e inossidabili bassezze umane, liquidata dagli sguardi abituati a scorrere solo sul sentimento dell'invidia, come fiore sempre uguale a se stesso privo di qualità odorose e di carattere, specchio di stati emotivi opposti, dai più gregariamente entusiasitici ai più livorosi che in quella bellezza non intravedono altro che “una tara oscura”. Ma il giardino è anche rappresentazione di antichi capricci e di incontenibili impulsi (al furto ad esempio): “come si può far la storia degli impulsi? Impossibile, però gli impulsi si confessano”.
Eppure “Giardini crudeli” non è solo narrazione di una realtà di simboli oscuri ma vi si dispiega anche una prospettiva luminosa della loro ambivalenza: “La felicità - scriveva Sant'Agostino - è continuare a possedere ciò che già si possiede” (Le bonheur c'est de continuer à desirer ce qu'on possede”). La felicità può esser tradita da tracciati feroci, quasi un'ombra saturnina ammantasse lo spazio botanico, ma sgorga dalle pagine di Bandinelli anche tutto ciò che lui pensava sarebbe stato il suo libro, un libro dolce, un omaggio alla moglie scozzese (“questo giardino era il nostro, anzi il tuo”) che ha preso forma riflettendo sulla diversità tra la natura cittadina degli italiani e quella inglese profondamente incline alla cultura del paesaggio e della campagna. Un testo frutto di perizia descrittiva e conoscenze sedimentate e di un occhio che, come ci dice lo stesso autore è “esercitato dalla familiarità per cogliere la traccia, il moncherino dal contorno netto e crudele o invece dove la mano è stata inabile, malamente sfrangiato”. Bandinelli però vuole molto di più ed offre compiaciuto al lettore anche il regalo di sollecitarlo a colmare le inevitabili lacune di chi non abbia familiarità con la dimensione agreste. E' convinto: “da quando con Baudelaire la poesia è condannata all'urbano tocca alla prosa penetrare le lusinghe del paesaggio”.
La verità è che il libro di Bandinelli scantona abilmente qualsiasi definizione tesa ad ingabbiarlo in un genere letterario prestabilito. Sono pagine che fluttuano tra il romanzo breve, il carnet di viaggio introspettivo e la parabola in cui domina la capacità analitica e sempre in bilico tra il razionalismo che non perde un passaggio logico ed l'irrazionalismo evocativo e suggestivo.
E' vero, è sempre quel gesto violento, sadico, quella violazione, la potatura scriteriata di un rosaio, ad aprire il racconto e a fornire una della due chiusure così dialoganti ma antinomiche nel comune richiamo alla sfera erotica, appena evocata in una e scarnificata nell'altra. Bandinelli lascia che in trasparenza si colga sempre ciò che lui ha ben metabolizzato: la terra e la natura ci forniscono sul nostro conto più insegnamenti di tutti i libri, proprio perché oppone resistenza. Ma c'è qualcosa oltre quel gioco dei rimandi simbolici, quel groviglio di sentimenti, di perfidie, astuzie e vacue competizioni tra vicini ormai imprigionati nelle loro frenesie, oltre la messa a dimora di sentimenti e aspettative, esplode l'incantevole esibita conoscenza di esemplari floreali che pochi spiazzanti passaggi psicologici bastano a far precipitare dalla dimensione del grazioso a quella del lezioso. Si mostrano dettagliate rappresentazioni dei fenomeni meteorologici e descrizioni puntuali della ritrovata vitalità degli insetti intorno a quel rosmarino, “ceppo oscuro delle cose e delle anime”. Ecco, tutto questo chiama, anzi, chiede, meraviglia in chi legge, domanda stupore per la creatività pur crudele della natura piegata alla progettualità umana.
Parafrasando Gian Battista Marino esiste un'altra chiave di lettura di queste pagine dedicate alle "foreste" dei giardini, altrettanto lecita: “E' del giardin il fin la meraviglia”. Che, per quanto ci impegniamo a ingabbiarla in orridi sentimenti, piccinerie spirituali e motivi di competizione, scontri e litigi, sarebbe anche quello dell'esistenza umana. Almeno così ci piace credere. Seneca scriveva che “solo l'albero che ha subito le aggressioni del vento è davvero vigoroso. Perché è durante questa lotta che le sue radici, messe alla prova, si fortificano”. Bandinelli lo sa, è un poeta giardiniere e conosce bene l'importanza del passaggio dalle tenerezze odorose alle “tenerezze dolorose”.

venerdì 28 novembre 2014



PROSPETTIVA CLASSICA E LUMINISMO CRISTIANO
(da "Il Foglio")


Nel suo capolavoro, ”La prospettiva come forma simbolica”, il grande critico d'arte Erwin Panofsky analizza il tema del passaggio storico e culturale dall'antichità classica greco-romana al medioevo cristiano. Scrive: “...Degna di particolare considerazione è un'opera come il mosaico di Abramo in San Vitale a Ravenna [sesto secolo d. C.]. In quest'opera è dato toccare addirittura con mano il disfacimento della concezione prospettica (…). E' difficile trovare un esempio più evidente di come la regola dello spazio semplicemente intersecato dall'orlo del quadro cominci di nuovo a cedere di fronte alla legge della superficie da esso delimitata, la quale non deve permettere che si guardi attraverso bensì deve essere semplicemente colmata (…); l'antica 'apertura sullo spazio' comincia a chiudersi (…), i singoli elementi dell'immagine - mentre hanno quasi completamente perduto il loro nesso dinamico mimetico-corporeo e il loro nesso spaziale-prospettico - appaiono legati da un nesso nuovo e, in certo modo, più intrinseco: un ordito immateriale ma omogeneo e privo di lacune, nell'ambito del quale l'alternanza ritmica di colore e oro e - nei rilievi - l'alternanza ritmica di chiaro e scuro creano un'unità coloristica e luministica”. E, a proposito di questa 'unità coloristica e luministica', Panofsky sottolinea: “è una unità la cui forma particolare trova a sua volta un riscontro teoretico nella concezione dello spazio propria della filosofia dell'epoca: nella metafisica della luce del neoplatonismo pagano e cristiano”...

Districandoci tra i tecnicismi del linguaggio critico, alla fine coglieremo quel che Panofsky vuole dirci, e cioè che tra l'arte greco-romana classica e quella che si sviluppa nell'ambito della cultura cristiana primitiva si apre uno iato, se non un abisso. L'arte classica rappresentava lo spazio filtrandolo attraverso l'artificio ottico della prospettiva, l'arte cristiana abbandona la prospettiva - e con essa la rappresentazione di una natura 'osservata' con gli occhi e i sensi - per rappresentare il mondo come una unità 'immateriale', esaltata da una 'alternanza ritmica di colore e oro' o di 'chiaro e scuro' tesa ad esprimere una visione tutta spirituale e, direi, 'mentale'. Panofsky scriveva nel 1924; una ventina di anni prima un altro grande critico d'arte, Alois Riegl, aveva notato come l'arte - meglio, la scultura - della tarda romanità, più che sullo spessore imitativo (e prospettico) del rilievo, puntasse sul colorismo e sull'effetto luce-ombra prodotto dall'uso del trapano, che perforando la superficie della pietra creava un punto scuro (anzi, un reticolato di punti oscuri) in forte contrasto con il bianco della pietra: ancora luminismo, insomma, contro il 'naturalismo' dello schema prospettico. Ci troviamo di fronte a due modalità non solo dell'espressione artistica ma della intera visione del mondo, che si fronteggiano senza compenetrarsi l'una con l'altra. Approfondiamo...

Lo spazio non è altro che la luce più sottile”. Chi scrive questo tagliente definizione – riportata da Panofsky - è Proclo. Il critico la commenta: “è un'affermazione in cui il mondo viene concepito per la prima volta come un continuo e, insieme, privato della sua compattezza e della sua razionalità: lo spazio si è trasformato in un fluido omogeneo e, se così si può dire, omogeneizzante, ma non misurabile, anzi privo di dimensioni...” Proclo è il filosofo del quinto secolo che approfondì il pensiero di Plotino. Avversato dai cristiani, condivideva con loro l'immaginario complessivo del mondo, e il breve inciso riferitoci da Panofsky è già una perfetta ancorché sintetica anticipazione del pensiero e della civiltà medioevale.

Che cosa voglio dire? Semplicemente che certi attuali dibattiti e affermazioni circa la necessità di rinnovare e raccordare i rapporti tra la ragione, tipica della civiltà greca, e la fede cristiana, non tengono conto del fatto che, appunto, il cristianesimo primitivo e medievale segnò una frattura profonda rispetto alla classicità: la fede, la luce che viene da Dio (l'Uno neoplatonico), divenne elemento determinante e assoluto nella concezione del mondo. In altra forma, uno dei più alti paradigmi della religiosità cristiana, “Credo quia absurdum”, era, alla sensibilità greca, abissalmente inconcepibile. L'assurdo – lo scandalo (della croce?) - diventava il centro della vita dello spirito.

Tutto quel che del mondo classico poteva essere assorbito e utilizzato dalla nuova, sconvolgente fede, venne catturato nel corso del secolare dibattito tra gli intellettuali dei due campi, il pagano e il cristiano. Il naturalismo della ragione ritornò a galla e alla fine divenne antagonista della fede, ma semplificare oggi la questione proponendo una loro riconciliazione è affermazione di stampo volontaristico: tornare alla 'ragione' classica, riproporla come interlocutrice di una fede che si è a sua volta profondamente evoluta, pare a me un artificio, un errore teorico-storico. Anche perché è assente, oggi, un elemento essenziale: l'univocità delle interpretazioni su cosa sia la fede e soprattutto su cosa sia la ragione. Siamo comunque in un ambito prettamente culturale, non ontologico.


sabato 15 novembre 2014

Oggi il "Foglio" dedica una pagina alla collana Pendragon "I chiodi", e soprattutto ai "Giardini crudeli" di Angiolo Bandinelli che la aprono.

 Il 25 novembre, alle 18, lo presentiamo alla Libreria Trame Libreria Bookshop di Bologna con Paola Pallottino. Venite in molti, anche da lontano, e intanto compratelo.

venerdì 24 ottobre 2014


RADICALI ITALIANI A CONGRESSO
di Angiolo Bandinelli

(da "Cronache del Garantista")

Sul fondale issato dietro il tavolo della presidenza del prossimo Congresso di Radicali Italiani (Chianciano, 30 ottobre - 2 novembre p.v.) dovrebbe apparire, in caratteri cubitali, la seguente scritta: “Per la pace / per lo Stato di diritto / democratico federalista laico / contro il ritorno del prevalere dei regimi”. Da alcuni radicali sono state sollevate obiezioni che però, anche se accolte, non ne modificherebbero sostanzialmente il senso. La stesura definitiva spetta comunque al segretario di Radicali Italiani (cioè a Rita Bernardini) che, per lo statuto ricalcato su quello del Partito Radicale, resta - nell'anno in cui è in carica - il dominus unico del movimento e risponde del suo operato solo al Congresso annuale, che spetta a lui convocare fissandone anche il tema.

Mi pare utile, sia pure in attesa della decisione di Rita Bernardini, offrire quel testo all'attenzione di una platea più vasta di quella dei frequentatori di uno o l'altro dei siti radicali. Quel testo, infatti, propone al dibattito congressuale di avviare un sostanziale approfondimento della linea del Movimento, rafforzandone il legame con il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito (PRNTT), di cui peraltro è soggetto costituente, ampliando di 180 gradi l'orizzonte dei suoi obiettivi e riportandolo all'osservazione puntuale e all'iniziativa sui temi più scottanti della politica mondiale: Radicali Italiani non deve essere una "provincia" localista della galassia, e il suo Congresso, ma poi il Movimento in sé e i suoi singoli iscritti, dovranno sempre più farsi carico di una situazione internazionale nella quale alcuni fenomeni regressivi da tempo presenti in forma endemica rischiano di esplodere sconvolgendo e travolgendo i già precari equilibri internazionali, con il ritorno di antiche forme di regime affiancate dalle nuove - non meno aggressive anche se più insidiose - che affiorano anche sull'uscio di casa, in Europa e, ovviamente, in Italia. Di queste nuove forme di regime si è discusso nel Convegno svoltosi a Bruxelles il 18/19 febbraio scorso ("Ragion di Stato contro Stato di Diritto"), il cui dossier viene in queste ore sottoposto al vaglio dei parlamentari della Camera dei Comuni, a Londra.

Per la prima volta, da anni, rientra nel dibattito congressuale dei radicali il tema della pace. Nato antimilitarista, il partito radicale del 1962 fu un efficace interlocutore-avversario di un PCI che si dichiarava "pacifista" nella difesa degli interessi dell'Unione Sovietica, all'epoca tesa nella sfida all'arsenale atomico americano, cui essa temeva di non poter contrapporre una tecnologia e una capacità di contrasto adeguata. L'odierno appello alla pace è un richiamo al dovere di rinnovare e rafforzare le difese della democrazia e delle democrazie contro i rischi di una crisi possibile e forse probabile e per opposi al riaffacciarsi, nel mondo, delle "democrazie reali". Radicali Italiani dovrà mettere in atto iniziative adeguate, innanzitutto per far crescere il "Diritto Umano alla Conoscenza - come ammonisce il Convegno di Bruxelles - su quel che lo Stato fa per conto del Diritto e della Legalità e per conto dei cittadini in nome dei quali governa". Il Partito Radicale (PRNTT) vuole portare dinanzi all'ONU questi temi, e richiama ora a questo essenziale compito anche Radicali Italiani, sottraendoli al rischio di proporsi come una copia attardata del populismo grillino, del resto ormai in via di esaurimento, sconfitto dalla superficialità di una lotta contro "la casta" del tutto impari alle necessità reali del paese. E' bene che Radicali Italiani raccolga l'appello, svincolandosi dalle illusioni del localismo associativo, responsabile - tra l'altro - di una vera e propria usurpazione statutaria, in quanto tende a mettere in ombra, con una inaccettabile occupazione del proscenio, le ragioni dell'iscritto, del militante, che al livello istituzionale è il vero, unico e solo soggetto formativo del Movimento stesso, così come lo è per il Partito Radicale. Le Associazioni sono, nello statuto, nella storia e nella prassi radicali, aggregati sempre "occasionali", strumentali e pragmatici, utili per singole battaglie ed iniziative, mai però depositari di un mandato illimitato né termini di tempo, e soprattutto senza pretese per quel che riguarda la determinazione della linea del Movimento. Il Congresso di Chianciano dovrà ristabilire le priorità statutarie, rafforzare il potere e il dovere istituzionale del Segretario annuale, far sì che egli (lui o lei) possa sviluppare il mandato congressuale con la collaborazione fattiva, anche se dialettica, del Tesoriere.

A conclusione di un grande anno, che ha visto convergere sul tema radicale della giustizia il Presidente della Repubblica e Papa Francesco, e la battaglia per le carceri fare enormi passi avanti, in Italia e in Europa, il Congresso di Radicali Italiani potrà dare l'avvio ad un anno ancor più grande, dedicato ad una valida Campagna transnazionale contro la Ragion di Stato e per lo Stato di Diritto.

mercoledì 8 ottobre 2014


                                                    UTERI, FAMIGLIE, SINODO
(da "Il Foglio)


Questa è grossa. Anzi è, decisamente, grossissima. Dopo l'utero in affitto, dopo l'eterologa, adesso abbiamo il bambino che nasce e si sviluppa dentro un utero trapiantato. La madre - quella che lo ha partorito - era nata senza, lo ha ricevuto per via chirurgica, con un trapianto (la vicenda me ne ha fatto ricordare un'altra di qualche anno fa, quando i ricercatori della Cornell University di New York misero a punto un  “utero artificiale” da utilizzare quando la donna sia impossibilitata a sostenere la gravidanza; ricordo che un bioeticista cattolico si disse certo che “un bambino nato da un utero artificiale sarebbe ad alto rischio di malattie mentali”: una balla, ma passò).  Tornando all'oggi, che diremo? Diremo che "non c'è più religione?" Forse dovremmo dirlo, visto che almeno per la religione cattolica sono già condannati l'utero in affitto e l'eterologa. Ora la chiesa si trova davanti a questo ulteriore ritrovato di una scienza sempre più faustiana, e fatalmente dovrà pronunciarsi negativamente anche su di esso. Dovrà condannarlo, è sicuro: perché, di quale madre è figlio il bimbo? Di quella che se lo è portato dentro per otto mesi, o della donna cui apparteneva l'utero trapiantato? Non è una questione oziosa, la donatrice vive ed è presumibilmente vegeta, ancorché in menopausa. Vegeta, altrimenti l'équipe medica che ha realizzato l'eccezionale intervento non avrebbe scelto, per il trapianto, il suo utero. Si capisce comunque che la foto di Vincent (il bambino) giri il mondo. E si capisce anche che l'evento sia accaduto in Svezia, un paese dove notoriamente certe problematiche etiche trovano scarsa attenzione ma si bada al sodo, specie se in salsa scientifica.

Non sarà un diritto, ma certo il desiderio di figli fa fare cose incredibili. Comunque, tutto questo accade nei giorni in cui a Roma è in corso un Sinodo Straordinario per discutere sui temi della famiglia. Immagino che problematiche di questo tipo affioreranno nel dibattito, anche se pare che la questione più spinosa sarà la possibilità o meno di aprire la comunione ai divorziati e a quanti siano passati a seconde nozze, magari solo civili. “I divorziati risposati civilmente appartengono alla Chiesa”, ha sostenuto nella sua "Relatio" introduttiva  il cardinale Peter Erdo, arcivescovo di Budapest, anche se aggiungendo, cavillosamente, che “nel caso di un matrimonio sacramentale (consumato), dopo un divorzio, mentre il primo coniuge è ancora in vita, non è possibile un secondo matrimonio riconosciuto dalla Chiesa”. Il tema   rappresenta “solo un problema nel grande numero di sfide pastorali oggi acutamente avvertite”, ma occupa molte delle tredici cartelle del discorso pronunciato da Erdo. Ad ogni modo, saranno sotto tiro “non le questioni dottrinali", ma le questioni “di natura squisitamente pastorale”.

Verrà ripresa nel Sinodo la tesi, oggi molto in voga in certi dibattiti italiani, che occorra soprattutto pensare a difendere la "famiglia naturale"? E' improbabile.  Le vicenda svedese ci ammonisce che ormai di "naturale" c'è poco, nelle questioni relative alla fertilità, alla nascita e, in generale, alla famiglia. Ma gli ottimi padri non hanno forse bisogno di questi ammonimenti, loro sanno benissimo che l'idea che vi sia una famiglia "naturale" da proteggere dagli attacchi relativistici della modernità è del tutto sballata, un portato di certo residuo eurocentrismo duro a morire, anche nella chiesa. Dei quasi duecento partecipanti al Sinodo, più della metà (106) proviene dall'Asia, dall'America latina, dall'Africa e dall'Oceania. E basta un giornalista de "La Stampa" per ricordare che ormai più che della "famiglia" occorrerà parlare di tante "famiglie", assai diverse ma non meno bisognose di attenzione e assistenza: "Ci sono regioni africane dove esistono matrimoni combinati tra bambine di dieci anni e uomini di sessanta. Ci sono Paesi, come il Niger e il Ciad, dove oltre il 70 per cento delle donne che oggi hanno un'età compresa tra i 20 e i 24 anni si sono sposate prima di averne compiuti 15"..."E non è certo facile per la Chiesa parlare di 'legge naturale' in regioni nelle quali è la poligamia ad essere considerata 'naturale', così come è cosiderato 'naturale' ripudiare una moglie non in grado di fare figli, o figli maschi", mentre in Melanesia esistono "società matriarcali nelle quali la responsabilità per l'educazione dei bambini è affidata gli zii materni più che al padre biologico".

Uno degli argomenti più in voga tra quanti nella Chiesa paventano certi cambiamenti è che la "misericordia" spesso invocata da Papa Francesco non possa né debba mai essere disgiunta dalla giustizia, e che la vera misericordia è proprio la giustizia. Mi viene da osservare, un po' semplicisticamente, che la giustizia è argomento intriso di rigorosa, consequenziaria logica, mentre la misericordia è moto dell'animo e della volontà che, se pur non estemporaneo e ingenuamente semplicistico, non può esimersi dal superare di slancio, quando necessario, le strettoie del diritto canonico. Nella passione di Cristo, il peccatore non diventa fratello? Io così credevo.

sabato 27 settembre 2014

A V V I S O

Colf rumena, cinquantenne, abile, zelante, massima serietà, assolutamente affidabile, cerca lavoro anche per un giorno alla settimana (preferibilmente martedì, giovedì, sabato, min. 3 ore) in zone facilmente raggiungibili da Termini.
Contattare me attraverso il blog o all'indirizzo e.mail:
angiolo.bandinelli@tiscali.it
(accordi diretti, nessun problema contributi)

lunedì 22 settembre 2014


la notte ci scalda

attenderemo
la mano nella mano
fino a domani?

non c'è nulla
stasera –
la luna ci avvertirà
se qualcosa accade

sabato 20 settembre 2014

§§§§§

un daino sbucò
dalla macchia
si bloccò
davanti alla nostra auto

vi guardaste negli occhi

tu decidesti di arretrare
lentissimamente -

lentamente, lui
si ritirò nella macchia.

*****************

venerdì 12 settembre 2014

A V V I S O

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venerdì 20 giugno 2014


 
                               AIUTO! IL "PRINCIPIUM INDIVIDUATIONIS"
                                                    SI E' CAPOVOLTO



Oddio, che confusione! C'è un uomo, Alessandro, che a un certo punto diventa donna prendendo il nome di Alessandra; ma questa donna vuole continuare ad essere il marito che era l'uomo da cui lei è sbucata come una farfalla dalla crisalide. Alessandra vuole vivere assieme alla moglie di Alessandro: la ama sempre, anche da donna, dice. Un bel pasticcio, che apre il varco a una quantità di osservazioni anche sapide (come potrebbe essere altrimenti?): nella sua avventurista campagna referendaria contro il divorzio, Amintore Fanfani arrivò a preconizzare che qualche moglie, con l'avvento dell'infausto istituto, sarebbe scappata di casa con la sua servetta abbandonando marito e prole. Non accadde così, ovviamente, o almeno non si verificò in Italia una significativa accentuazione statistica del lesbismo (ammesso che quello di Alessandro/Alessandra sia un caso di lesbismo). Il caso Alessandro/Alessandra porterà comunque un ulteriore scompiglio, possiamo immaginarne repliche di ogni genere: per dire, che succederebbe se, uno (o una) dei partner di una coppia monosessuale regolarmente sposata (dalla legge finalmente introdotta) volesse cambiare sesso? La faccenda potrebbe - perché no? - verificarsi, all'inverso rispetto al nostro caso.

Ma diciamo pure che di storie, o cronache, analoghe sono già pieni i giornali, avidi di inseguire e spiattellare vicende fino a ieri inaudite e forse (ipocritamente) impensabili. Però, una volta esaurita la (morbosa) curiosità, queste pruriginose storie come vanno a finire? Chi se ne occupa? Perché in definitiva si tratta del destino, della felicità o infelicità, di persone reali, non di manichini, di fantasmi o di personaggi da settimanale rosa. Neanche il più intransigente cattolico si oppone alla concessione di “nuovi e ben calibrati strumenti di solidarietà tra le persone”, come si esprime l'”Avvenire”. Certo, se anche in Italia questi strumenti fossero già stati introdotti, la coppia da cui ho preso le mosse non costituirebbe un fatto di cronaca, i due (o meglio, le due) potrebbero semplicemente e facilmente modificare l'atto costitutivo della loro convivenza e riprendere tranquillamente la loro vita, non farebbero notizia. Invece così non è, perché gli stessi che oggi lanciano i loro gridi di allarme impediscono che venga introdotta una normativa adeguata a soddisfare le richieste delle coppie monosessuali. Lo stiamo constatando in questi giorni: modificando un atteggiamento fino ad oggi ostile ad ogni intervento nel settore dei diritti civili, il Pd renziano sembra deciso ad introdurre in Italia una forma di unione civile valida in primo luogo per le coppie gay. Subito si sono scatenati i puristi della Crusca matrimoniale, pronti a mettere i cavilli tra le ruote. Questo accanimento nel proibire, nel chiudere (e far chiudere) gli occhi dinanzi a una realtà che non piace è una vera e propria tortura, non meno violenta di quella che nel medioevo si praticava con strumenti come il cavalletto, la ruota dentata o la "vergine di Norimberga". E' una violenza che cerca di evitare che si stabilizzi una qualche nuova forma del "principium individuationis" dettando, per il riconoscimento della identità, norme strette e invalicabili: tu sei quello che io ti impongo di essere, altrimenti sarai un fuorilegge. All'epoca del divorzio c'erano i "fuorilegge del matrimonio", coppie condannate all'inesistenza, o quanto meno al sotterfugio colpevolizzato, alla menzogna punibile, all'infelicità senza speranza. A un certo punto quei fuorilegge si sono organizzati, sono usciti allo scoperto e hanno vinto la loro battaglia, facendosi riconoscere dalla società e imponendole la loro reale identità, umana, psicologica nonché sociale e pubblica. La loro non era una pretesa insensata, tant'è che la società non si è sfracellata. Se l'istituto matrimoniale è in crisi, questo lo si deve ad altri fattori; persino all'incapacità delle chiese e delle fedi di proporre e fare accogliere - senza violenza - un sentimento, un modello di vita consono alla tradizione professata e conclamata, ai convincimenti dichiarati o a un'etica assolutista, di origine religiosa.

Non c'è però da assumere un atteggiamento vendicativo, accusatorio. Sarebbe improprio definire un evento del tipo di quello di Alessandro/Alessandra come una conquista della modernità su una reazione in agguato. Tutto potrebbe capovolgersi, impensabilemente, da un momento all'altro. Le evoluzioni del gusto, delle consuetudini condivise (o imposte) grazie al controllo sociale sono state le più varie. Contro il leggero, disinvolto o anche libertino (boccaccesco, no?) Rinascimento, con le sue colorate e vivaci vesti maschili e femminili, la modernità protestante, puritana, propose uno stile severo dominato da colori foschi e cupi, il nero come dominante. Papa Borgia fu esempio di dissolutezze, la laicissima Regina Vittoria mise i mutandoni anche alle gambe dei pianoforti e il verbo per indicare l'atto sessuale fu "to "spend", cioè spendere, perdere, letteralmente "dis-seminare" il seme, secondo la condanna biblica dell'onanismo. Per fortuna, il puritanesimo ci ha regalato Hester Prynne, l'immortale adultera, l'eroina de "La lettera scarlatta".

domenica 25 maggio 2014


                                                                INSTABILI EQUILIBRI

                                                                         (da "Il Foglio")

Il Morandi che mi fronteggia sulla parete della Galleria è un olio di appena cm. 22x30. In primo piano spiccano tre bottiglioni, dei quali uno bianco sporco, il secondo di due tonalità di ocra mentre il terzo, come altri tre in seconda fila, si smarrisce in un opaco bruniccio. Un buon Morandi, anche se non esaltante come altre opere del pittore bolognese, quelle - ricordo - nelle quali analoghe bottiglie sembravano rivestite di una finissima polvere, forse la polvere del tempo depositatasi durante immemorabili soggiorni in dimenticate soffitte o cantine. Indugio davanti a questo quadretto, temo di essere forse un suo raro, se non ultimo ammiratore: cosa può esserci di più lontano dall'oggi di una pittura come questa? Sospiro, penso che sarebbe bello se un critico vi si dedicasse un po'. Analoga accorata impressione me la fa il Licini appeso un po' più in là, una minuta geometria di bianchi sporchi, un tenero azzurro e minuscoli triangoli, rosso, lilla e blù. Anche questo di piccole dimensioni (cm. 25x19) e risalente addirittura al 1932.

Perché mi attirano queste vecchie operine? Sì, lo confesso, mi emozionano: sono ancora "pittura", un genere artistico scomparso, abbandonato senza rimpianti ai pittori domenicali, ai dilettanti di provincia. Oggi sono molto contento che una Galleria come questa, la "Erica Fiorentini di arte contemporanea", li riproponga nelle sue spaziose sale di Via Margutta, in un contesto non di recupero ma di ri-lettura, in confronto e dialogo con altre opere di diversa tecnica e di diversa epoca, ma soprattutto di diverso spirito e intonazione. Il titolo della mostra vuole essere eloquente introduzione all'inconsueto mix: "Equilibri". Le opere allineate alle pareti o su supporti sono, oltre a questo Morandi, di Giovanni Anselmo (1990), Giacomo Balla (1918), Simone Berti (2009), Alexander Calder (1964),  Alice Cattaneo (2014), Pietro Fortuna (2014), Fausto Melotti (1959), Maurizio Muchetti (1965), Grazia Toderi (2009), Gilberto Zorio (2010); nella loro diversa datazione - quasi un secolo tra la più vecchia e la più recente - sono raggruppate assieme da un filo interpretativo concettoso ma, alla fine, azzeccato.

Se un artista lavorò sotto il segno dell'equilibrio fu Giorgio Morandi. Mi si scusi se il mio discorso parte, o riparte, di lì, da lui. Le stagioni morandiane le ho, almeno in parte, vissute o - come si usa dire - sperimentate sulla mia pelle. Un mesetto fa, ho donato alcune "chine" di mio padre, il pittore Aldo Bandinelli (1877-1977), rispettivamente alla Galleria Civica di Modena e alla raccolta di grafica della Biblioteca degli Intronati, a Siena. Mio padre è stato attivo, più o meno, nello stesso arco di tempo di Morandi (o di Licini, per stare a noi). E io ho la netta sensazione che l'arte di quelle generazioni sentisse profondamente il tema dell'equilibrio. Equilibrio compositivo - che in Morandi (o in Licini) fu essenziale - ma anche equilibrio interiore. Era magari una forma di compensazione, di risarcimento, per gli "squilibri", gli eccessi, delle arti - o anche della storia - di una generazione precedente, quella delle grandi avanguardie di inizio secolo, il Ventesimo; ma alla fine fu anche una buona chiave di assorbimento dei risultati positivi di quelle avanguardie nel momento in cui le si abbandonava e ripudiava. Certo, le teorizzazione di un Soffici o di un Ojetti tentarono di (col)legare l'aura da "Rétour à l'ordre" con il clima politico vigente. Alcuni artisti si sottomisero a questa interpretazione, ma probabilmente non furono la maggioranza, vestissero o no l'orbace per le feste ufficiali, la Biennale o la Quadriennale. Ci furono anche i ribelli - gli artisti del "gruppo dei Sei" o quelli di "Corrente", forse quelli della "Scuola Romana" - che però, se polemizzavano con l'arte ufficiale, non si spingevano più negli eccessi avanguardistici, restavano dei moderati. Tra i ribelli, a maggior ragione, metteremmo il solitario Licini, con il suo astrattismo - o, più tardi, surrealismo - che lo avvicinava a Klee o a Kandinsky. Ma anche lui, del resto amico di Morandi, è misurato, la sua pittura migliore e più matura resta nel segno dell'equilibrio. Nel dopoguerra, Licini si salvò dal'iconoclastia antifigurativa che travolse anche Morandi, come il romano Mafai, inducendo l'uno e l'altro a nefaste deviazioni. Ma tutta quella loro pittura, equilibrio compreso, non era da buttare via. Aveva sì una impronta italiana e forse provinciale, ma non era - in partenza - reazionaria. Oddio, Soffici fu di sicuro reazionario, ma restando all'ombra di Cézanne, oltre che degli scontati quattrocentisti toscani. E in definitiva, pur dietro a Soffici o ad Ojetti nascevano fiori straordinari, spontanei, leggeri, non male quanto a profumo, quasi impensabili in quel clima che si voleva invece marziale, guerriero, sempre scattante: nascevano nel raro humus dell'idillio e dell'intimismo. Ed ecco Morandi, ecco Licini intimisti e idilliaci, come ci confessano le due operine che ammiriamo alla galleria Fiorentini.

Dopo questo abbrivio un po' (chiedo venia) nostalgico, cosa c'entra ora un'opera di Maurizio Mochetti, artista quanto mai estroverso, versatile e poliforme, figlio di esperienze diverse, che ha contatti con l'arte prebellica solo perché alla Accademia ebbe come docenti i pittori Franco Gentilini e Luigi Montanarini? Mochetti è artista gestaltico, concettuale, lui stesso sostiene che l'arte è tutta nel progetto. E infatti la sua poliforme e polimaterica produzione è un susseguirsi di progetti. A volte mi fa pensare piuttosto a Beuys - un Beuys non usurato e drammatico, puramente narrativo - con i suoi riferimenti a macchinismi vari, a partire dai prediletti aeroplani Natter. Bizzarrie? Il concettuale a volte si riduce all' (o  si esalta nell') ingegnoso. Almeno da Duchamps in poi, questo è l'unanimemente riconosciuto confine che l'arte contemporanea si trova a varcare ad ogni momento. E sicuramente Mochetti gioca molto su questo confine quando, forse consumata la possibilità di ulteriori ricerche nel campo della luce e dello spazio da lui esplorato nei felici esordi, avvia una sorta di rievocazione (per nulla nostalgica, anzi piuttosto a freddo) di strutture tecnologiche anomale, paradossali, estreme, come possono essere gli aerei messi in campo dall'ultimo nazismo o il "Bluebird", l'automobile da record di Donald Campbell, o un aereoplano Piaggio o Lockheed. L'opera qui esposta rientra però, senza fatica, nel quadro tematico della mostra (ricordiamolo ancora: "equilibri"). Le dimensioni stesse (cm 50x50x5) del contenitore di perspex trasparente che è insieme materia e forma dell'opera sono compatibili con un quadro (e dàlli) di Morandi. Stesse proporzioni, stesso "equilibrio" insomma. E l'ombra proiettata dal perspex, compresa quella di un "foro di 5 mm" prodotto sulla superficie trasparente, disegna sul muro una traccia che è ancora un segno di misura, un elemento minimalista che non richiede altro che se stesso, non rimanda ad altro, ad un concetto genitoriale. Il progetto è, una volta tanto, forma; quasi un richiamo alle origini della pittura più classica - anche se inconsapevole, inconscio.

Non compio forzature se dopo Mochetti menziono Piero Fortuna o Gilberto Zorio. Anche Fortuna gioca, gioca con i materiali. Anche lui è concettoso, anche lui è ingegnoso, con quel coltellino a serramanico infilato (cascato per sbaglio?) tra strutture in acciaio, ebano e ottone, su cui grava il titolo, in irlandese ("Luì na gréine": tramonto). Gilberto Zorio piglia invce sul serio l'obiettivo di creare spazi polimaterici. Il suo "Stella notte" (cm. 100x130)  è adeguato alla bisogna.

E che diremo ora del Balla qui esposto?  Oggetto, o oggettino incomparabile che, almeno a me, giunge nuovo nella produzione di Balla, curiosissima opera più da scenografo che da pittore, giochino spiritoso che ci riporta al tema della mostra solo per le dimensioni lillipuziane: per l'aspetto, diciamo così, ludico, come potrebbero essere i ritagli fatti con le forbici su un foglietto per fare divertire un bambino ammalato e annoiato. Ma Balla insiste, ci vuole dire che è serissimo, le carte sono colorate, addirittura "coupures" da stampati. La datazione ci viene facile, se non altro perché le carte recano ancora frammenti di dicitura scelti con sensibilità da futurista. Colloco quest'opera,  idealmente, accanto al "Piccolo Rosso" di Calder, un "mobile" lilipuziano (cm 13x25) uno di quei suoi gingilli che hanno dato origine ad una oggettistica d'uso quanto mai variata, fino a certe collane o monili che tutti, prima o poi, abbiamo regalato a una qualche signora. Ma può, di per sé, la dimensione darci il senso dell'equilibrio? Certamente: comunque, i "mobiles" di Calder, quale che sia la loro dimensione, sono sempre strutture in equilibrio, anche se instabile. Così, anche il giochino di Calder entra rispettabilmente nel catalogo della galleria marguttiana (curato da Laura Cherubini).

Nell'introduzione al catalogo, Erica Fiorentini ci addottrina: il latino "equilibrium" "è composto da "aequus" e "libra". I due termini rimandano ad un senso di instabilità continuamente corretta e compensata, cosicché gli elementi restino sempre in bilico senza "sbilanciarsi" (appunto) da una o l'altra parte. E' il secondo modo di essere di un equilibrio: c'è infatti l'equilibrio statico, ed è quello espresso da Morandi, e c'è un equilibrio instabile e sempre in pericolo. E' quello appunto di Calder, ma anche di altre delle opere qui esposte. Giovanni Anselmo presenta un massiccio rettangolo di granito rosso di Balmoral (cm. 120x100x30, titolo: "Il colore mentre solleva la pietra/la pietra mentre solleva il colore"). Il rettangolo è appeso un po' di sbieco, e nonostante il cavo d'acciaio che l'attraversa cerchi di imporre un certo equilibrio di proporzioni, l'effetto complessivo è lievemente angosciante, evoca il rischio di uno squilibrio, anzi di una precarietà, come quando in una scenografia teatrale si vede alla parete un quadro appeso sghembo: lì tra poco scoppierà una tragedia.

La Fiorentini osserva poi che "nella storia della cultura occidentale vi è un alternarsi di una concezione che vedeva nella tensione all'armonia e all'equilibrio perfetto la rivelazione dell'odine certo e immutabile della creazione, e (qui citando Mark Ravenhill) 'di un'idea romantica per la quale l'arte che non sia ispirata dall'impulso fondamentale a creare una visione squilibrata del mondo è probabilmente cattiva o mediocre' ". Quella di Morandi non è (probabilmente) arte mediocre, anche se possiamo apprezzare la trovata di Anselmo, indirizzata al plesso solare come il ben assestato cazzotto di un pugile. Scherzo, naturalmente: e nella mostra ci offrono ulteriori esempi di s-quilibrio l'installazione di Alice Cattaneo e - magari tiratavi per i capelli - l'opera grafica (grafite, carboncino, sanguigna su carta) di Simone Berti. Alice Cattaneo costruisce con tondini di ferro smaltati di bianco un parallelepipedo, poi lo schiaccia, lo deforma, infine sospende nello sghembo spazio che ne risulta un sottile reticolato nero di fili di nylon (nella lista delle opere vengono menzionate anche "fascette per cablaggio", io non le ricordo). Si perdoni la pignoleria dell'elencazione, ma in queste opere l'elencazione dei materiali è (quasi) tutto, è lo spartito-guida nel gioco di "costruzione-decostruzione" di cui parla, a proposito di questa artista, Erica Fiorentini. Che azzarda anche una osservazione un po' fuori degli schemi critici per rientrare piuttosto in quelli della psicologia (di quale scuola o tendenza, così su due piedi non saprei dire), lì dove fa riferimento all'"inestricabile conflitto" che è nella psiche umana, tra "l'aspirazione all'equilibrio e l'attrazione verso la sua perdita"; oppure quando, con modulazione storicizzante, cita un'arte privilegiata e primaria solo perché ispirata ad oscuri impulsi verso lo squilibrio. Echeggia in queste parole una tendenza che ha avuto parecchi padri e parecchi seguaci: l'avversione per gli statici equilibri della cultura rinascimentale all'italiana. Non credo, anche se lei ne fa il perno della sua presentazione al catalogo, che la Fiorentini la condivida, se non altro perché la sua mostra - molto italiana - pone al centro l'idea di equilibrio come punto focale di arrivo, per questa o quella qualunque  ricerca artistica. Non è, lo s-quilibrio, una negazione, o al massimo una aspirazione a qualcos'altro, ad una desiderata e forse irraggiungibile perfetta immobilità? L'equilibrio è autosufficiente, non "desidera" nulla, tanto meno il suo contrario, altrimenti - semplicemente - non sarebbe quel che è.

Lasciamo stare queste sottigliezze, anche se continuamente evocate quando guardiamo un'opera d'arte contemporanea, quella del dopo-pittura, per intenderci. E ora soffermiamoci davanti alle opere di Grazia Toderi, "Orbite Rosse" (cm. 35x40) del 2009. Toderi non sfugge alla responsabilità della esattezza. A me era venuto fatto di definire questi suoi lavori come mappe cosmologiche di una astrologia rinascimentale, un tracciato di ellittiche orbite sulle quali si spostano soli, pianeti e satelliti, resi - mi ero detto - con gocce di stagno fuso, quello degli idraulici di un tempo. E infatti, con onestà, nella lista le opere della Toderi sono descritte come eseguite su carta con grafite, metalli e "stagno fuso". Torniamo infine idealmente indietro, rispetto a queste complesse elaborazioni postmoderne, con il teatrino polimaterico di Fausto Melotti. L'originale scultore fu sicuramente, anche per ragioni anagrafiche, artista avvezzo al rispetto degli, o dell'equilibrio, nelle sue diverse forme, statiche o mobili. L'opera qui presentata forse non è coerente con il tema della mostra, o forse sono io che non riesco a trovare tale coerenza. Mi piace però la manualità "novecentesca" con cui l'artista foggia i pupazzetti inseriti (un po' - se non vado errato - alla Arturo Martini) in una cornicetta di legnetti colorati.

Mio dio, dopo questa lunga e inadeguata ricognizione della mostra allestita con passione da Erica Fiorentini forse si capirà che sono uno di altri tempi, di un tempo ormai sepolto in distanze siderali, quello che fu definito il "secol breve".


giovedì 15 maggio 2014


IL PANTHEON DEL LAICO


Il laicista è simile, senza che lui lo voglia, al clericale cui si contrappone e che risolutamente combatte. Il clericale, o magari solo il credente, crede (appunto) nei Santi, ne sfoglia e venera l'elenco, ne ha uno per ogni occasione; nella lunga stagione del suo protagonismo culturale, il laicista ha eretto a sua volta un bel Pantheon di figure di rilievo sociale ed umano - eccellenze etiche, culturali, ecc. - che qualcosa a che fare con gli altari e le immagini dei Santi ce l'ha. Mi pare sia stato l'illuminismo a diffondere la fede nella virtù pedagogica del personaggio illustre e a promuovere, in questa cornice di nuova "religione civile", l'intitolazione di strade e piazze (ma anche di monumenti) a cotante figure. A Roma, mi fa sempre senso scoprire la statua del personaggio polemicamente eretta dopo il 1870 - tipico, il Giordano Bruno di Campo de' Fiori - fianco a fianco della statua o l'immaginetta del Santo o della Madonna, in una mutua rincorsa a strappare la riverenza - se non la reverenza -  del passante.

Il laico, come non ha santi non dovrebbe avere personaggi da specialmente ossequiare. Però giorni fa, sfogliando un giornale, mi sono soffermato un po' dinanzi alle immagini di quattro figure per le quali mi è venuto spontaneo un sentimento di rispetto e che ho collocato subito in un personale, simbolico Pantheon. Erano i ritrattini di Jean Jacques Rousseau, di Johann Heinrich Pestalozzi, di Friedrich Fröbel e di Maria Montessori, ricordati per la loro attività di pedagogisti: Rousseau per l'"Emile", Pestalozzi, Fröbel e la Montessori per le loro idee innovative e e per i loro sforzi intesi a realizzare istituzioni dove applicarle.  Cosa hanno i comune questi educatori, cosa mi ha fatto pensare a loro come benefattori dell'umanità? In un modo o nell'altro, tutti e quattro hanno cercato di sviluppare una idea di educazione libera e liberatrice, affidata alla spontaneità della natura, nella fiducia che le capacità e possibilità dell'uomo tendano al bene, e che tali capacità e possibilità debbano aessere stimolate con una educazione aperta, non punitiva. Le idee dei quattro furono avversate dalle politiche, dalle abitudini, dalle chiese dei loro tempi. Ancora da ragazzino, ricordo come i neonati venissero fasciati strettamente, un po' come il bambinello dell'Aracoeli, contravvenendo all'intuizione e predicazione rousseuiana di lasciar libere da costrizioni e sostegni le gambette del neonato.

Via via, Pestalozzi, Fröbel e Montessori introdussero nell'educazine concetti che quella intuizione rousseuiana riprendevano e ampliavano: l'educazione, per loro, deve essere educazione alla libertà e nella libertà. Fröbel ideò quell'istituzione straordinaria che è il Kindergarten, dove il bambino è lasciato libero di esprimere il proprio mondo interiore, non attraverso il linguaggio ma attraverso il gioco. L’educazione del bambino è celebrazione ed esaltazione dell’autonomia spirituale dell’essere umano che quegli già è in nuce. Il Kindergarten, la scuola-giardino, è il luogo in cui l'infanzia, similmente a una pianta, cresce e si sviluppa secondo le sue necessità interiori. Il gioco è stimolato da materiali e attività attentamente scelti nel loro significato pedagogico. Per i più piccoli Fröbel ideò i doni, oggetti di legno offerti al bambino per indurlo alla scoperta della realtà e di se stesso: una palla, una sfera, un cubo, un cilindro, forme adeguate, nel loro semplice geometrismo, a stimolare le potenzialità del bambino: l' osservazione, l'esercizio tattile, la separazione e la ricostruzione di dati elementari. Ne "L'Educazione dell'uomo" (1826), Fröbel sviluppa le riflessioni di Pestalozzi sui concetti educativi di spontaneità e intuizione e il misticismo dei filosofi suoi contemporanei. Maria Montessori (ma anche due altre figure dimenticate, le sorelle Agazzi) si rifaranno a lui. Per questi pedagogisti, l'uomo non sarà "ideologicamente" buono, non sarà necessariamente il "buon selvaggio" di Rousseau, ma l'educazione può e deve cogliere e sviluppare i germi delle sue qualità positive. Siamo alle soglie dell'etica della responsabilità. Da Rousseau a Fröbel a Maria Montessori corre un lungo sottile filo, la sostanziale fiducia nell'uomo, non più visto come l'erede e il portatore della colpa primigenia di Adamo. Adamo espia con il lavoro quella colpa, Fröbel cerca di assimilare il lavoro al gioco originario e, reciprocamente, ne scava la forza salvifica, non impone l'aspetto della pena. In definitiva, da Rousseau alla Montessori si dispiega una sorta di permanente rivoluzione dell'umano, un aspetto dell'illuminismo che a volte è in pieno contrasto con altri aspetti, pur anch'essi propri di quel grande movimento culturale: quelli da cui nasce l'etica dello Stato, la morale istituzionalizzata e la stessa "religione civile", che può ammettere, o richiedere, una statua commemorativa ma solo per figure non socialmente antagoniste. Poi magari ci sono eccezioni: ma volete mettere a confronto l'angusta e corta Via Montessori, relegata al quartiere Trionfale, con l'immenso viale Palmiro Togliatti?

domenica 11 maggio 2014

I miei giudizi sono importanti per me, ne sono geloso. Non ho mai voluto, ed ho sempre evitato, che fossero importanti per gli altri.

venerdì 9 maggio 2014

                                                                 COMIZI

da "Il Foglio"

Domenica pomeriggio. Mi stacco (a fatica) dal computer, mi vesto ed esco, voglio sgranchirmi le gambe. Mi dirigo verso la via principale del quartiere, un quartiere semicentrale però oggi deserto, con le serrande tutte chiuse se non fosse per l'immancabile spaccio dei cinesi, il banco dei fruttivendoli del Bangladesh, e poi i caffè e la libreria cui mi indirizzo tanto per avere un obiettivo.  A metà strada, una piazzetta ornata di stente aiole dinanzi all'ingresso del mercato di quartiere. Ora, ovviamente, è chiuso ma nella piazzetta c'è un po' di folla, sento qualcuno che parla. Una donna mi mette in mano un depliant a colori con in copertina una immagine di Cristo: “La grande Missione in 100 Piazze di Roma”. La gente si tiene disciplinatamente su tre lati, il quarto ha al centro un modesto palco e un microfono, cui fanno ala, da una parte tre chitarristi dall'altra quattro o cinque suonatori con strumenti vari. Indietro, defilato,  scorgo un prete, tutto in bianco, seduto su una sedia, le mani distese sulle ginocchia, a capo chino. Al microfono sta ora parlando un giovane, vestito modestamente. Non mi pare il suo sia un discorso forbito, trovo più esplicito e conclusivo il distico tratteggiato a grandi caratteri su uno striscione alle sue spalle: “La fede viene per l'ascolto del kerigma”. Il depliant mi fornisce ulteriori spiegazioni: la “Grande Missione” consiste in cinque incontri – immagino come questo – che si terranno durante il mese di maggio nelle 100 piazze evocate. Leggo anche: “Con papa Francesco, nelle piazze ad annunciare Gesù Cristo, Egli ci salverà”, e quindi, una enigmatica frase di San Paolo: “Dio ha voluto salvare i credenti mediante la stoltezza della predicazione (del Kerigma)”. Quel termine, “stoltezza”, nei secoli ha disturbato, e ancora disturba, parecchi: se mi è consentita l'integrazione, i “benpensanti”. I quali, come è noto, hanno gran cura della saggezza, quando si identifichi con la (loro) occhiuta prudenza.

Non so se l'iniziativa sia dovuta all'impulso di Papa Francesco e al suo modello ecclesiale. Ricordo qualcosa di simile, chitarre comprese, all'epoca e subito dopo il Concilio Vaticano II, quando i laici si trovarono sorprendentemente a dover e poter occupare le chiese con i loro dialetti culturali ed etici, non più contrapposti al latino che scendeva dai pulpiti. Durò poco, quei tentativi vennero presto riassorbiti. Ma il richiamo della parola gridata in piazza mi ha sempre affascinato. Ho fatto anche io comizietti tipo questo, reggendo un identico altoparlante con il manico come il calcio di una pistola. Forse il mio primo fu a Verona o a Vicenza, nel corso di una marcia antilitarista Milano-Peschiera. Tenevamo comizietti del genere ad ogni paese o città che la nostra carovana attraversasse: accanto a noi Radicali - impacciati borghesi strappati fuori dalle loro giacche e cravatte - c'erano i primi capelloni, i primi freaks, le prime femministe, i primi anticlericali e antimilitaristi ignari di una gloriosa tradizione protosocialista. I camionisti che incontravamo, quando porgevamo loro i volantini (stando attenti che non se ne perdesse uno) ci gridavano dietro qualcosa come: “Andé a lavurà”. E c'erano i primi fumatori di marijuana, la sera si rifugiavano in qualcuna delle baracche che ci ospitavano nei posti di tappa. Allora noi non sapevamo nulla di droghe, di marijuana, di erba, di cannabis. Marco decise di andare a dormire anche lui in quella baracca, poi ci riferiva sul nuovo fenomeno socioculturale.

Quei miei primi comizietti mi stremavano, mi pareva di trovarmi sempre dinanzi ad un vuoto incolmabile e tremendo. Il vuoto era dentro di me, dovevo inventarmi una attitudine cui non ero assolutamente preparato. Quei comizietti rompevano infatti, e sfidavano, un clima sociopolitico segnato dai grandi, oceanici comizi dei grandi partiti di allora, i partiti "di massa", o anche dalla incipiente TV.  Ne tenevano di altrettanto sparuti certe frange di estremisti, di sfigati, di ferrivecchi culturali, io avevo una gran paura che anche noi fossimo assimilati a questi... Parlare alla gente è un affare difficile. Ma ho avuto sempre una simpatia per la parola, rispetto allo scritto. Non sempre la parola del comiziante è all'altezza del "kerigma", però dà la sensazione che sia un affare laico. Bisogna sforzarsi di essere dialoganti, magari convincenti (allo sbaraglio: laici, appunto). All'epoca del divorzio mi toccò fare un comizio a Orte, borgo selvaggio quant'altri mai. La piazza era gremita di gente dall'aspetto contadino. Appoggiati al muro in fondo alla piazza, due uomini in giacchetta nera e la camicia senza il colletto, con la sola cimasa. Li guardavo: feci con me stesso una scommessa. Avrei giudicato riuscito il comizio se mi fossi fatto ascoltare e capire da quei due. Sapete? Non si staccarono mai dal muro, gli occhi sempre piantati su di me. Non sono un pauperista, ma questo ritorno ai comizietti di quartiere con l'altoparlante a mano ho la sensazione che indichi un cambiamento di epoca, anche se non epocale. E non è detto sia un ritorno indietro.

giovedì 17 aprile 2014

IL MONACHESIMO SECONDO RATZINGER

Il “Foglio” viene (ri)pubblicando alcuni “grandi discorsi” di papa Benedetto XVI. Anche a me l'iniziativa piace, non vi è dubbio che Ratzinger abbia le stimmate del grande professore, ricco di una cultura profonda e intensa, da intellettuale capace - come si esprime Giuliano Ferrara - “di un concettualismo stilnovista fatto di intelletto e amore". Ci insegna sempre qualcosa, anche nel (possibile nostro) dissenso. Il 4 aprile il giornale ha presentato il famoso discorso tenuto a Ratisbona nel settembre del 2006 che innescò un vivacissimo dibattito sul rapporto dell'Islam con la “ragione”; l'11 aprile quello tenuto nel settembre 2008 al Collège des Bernardins di Parigi, “un luogo storico, edificato dai figli di San Bernardo di Clairvaux". In questo intervento, Ratzinger esplora e ripercorre il cammino del “monachesimo occidentale”, e quindi delle “origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea”, ponendo alla fine una domanda scottante, drammatica: l'esperienza di quei lontani monaci "interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato"? Per dare risposta all'interrogativo, Ratzinger sviluppa una articolata, splendida riflessione sulla "natura" profonda di quel monachesimo.

Per pura coincidenza, sto sfogliando un libro collettaneo, organizzato da uno studioso ed  esperto di quel mondo e della intera cultura medievale, Jacques Le Goff, purtroppo venuto recentemente a mancare. In uno dei saggi, Giovanni Miccoli ci avverte che “monaci e monasteri hanno cessato da tempo di far parte della comune esperienza degli abitanti d'Europa". “I monasteri e i priorati – cluniacensi, cisterciensi, certosini, camaldolesi, vallombrosani – che nel XII secolo, all'apogeo dell'espansione monastica, popolavano a migliaia le contrade d'Europa, si sono ridotti a poche centinaia in tutto il mondo” e “i loro diminuiti abitatori restano una presenza silenziosa e rara, spesso inavvertita per lo stesso popolo cristiano”..."Non figurano più tra gli incontri ordinari e ricorrenti del suo paesaggio storico”. E' una fredda constatazione cui Ratzinger contrappone la tesi - in lui nutrita di profonda convinzione razionale oltreché spirituale - che quanto costituiva l'essenza di quel monachesimo, cioè la continua ricerca di Dio, non possa non essere anche oggi il fondamento della cultura: anche oggi come ieri, per Ratzinger, "l'assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui”. Il rarefarsi dei monasteri non estingue, non significa la morte di tale esperienza. A questa tesi cercherò di agganciare alcune riflessioni, volenterose pur se non suffragate dalla profonda ed intima cultura che rende smaglianti gli scritti di Ratzinger. Il monachesimo di cui il papa emerito ci fa il ritratto fu una grande esperienza storica, innervatasi sulle radici della civiltà classica in una ibridazione che ha - possiamo dire -  dello stupefacente: che il Dio della Bibbia, sostanzialmente antropomorfo e "creatore", potesse fondersi nell'"Essere" della metafisica greca grazie alla mediazione del Cristo, cioè del "paradosso", dell'"assurdo" di cui ci parla Tertulliano, fu davvero una impresa culturale complessa quanto spericolata. Ce lo ricorda chiaramente il prologo di Giovanni, "In principio era il Logos", le cui radici affondano nel terreno del più puro ellenismo. Ma fu pur sempre una impresa culturale e intellettuale. La grande cultura monastica medievale arricchì quella operazione filosofico-teologica di una concreta esperienza esistenziale, fu il modello visibile, la forma terrestre, la struttura sia pur transeunte ma veridica che faceva intravedere all'uomo - e gli garantiva - quella Città Celeste, il paradiso cristiano, cui doveva dunque tendere la sua vita, in tutte le forme che essa potesse assumere, quelle forme di cui ci parla Le Goff: il monaco, il cavaliere, il contadino, il cittadino, l'intellettuale, l'artista, il mercante, la donna, il santo o anche l'emarginato. Il medioevo si riconosceva interamente, e assumeva come modello, l'esperienza "dell'uomo che, individualmente o collettivamente, si separa dalla massa sociale per vivere un rapporto privilegiato con Dio". E' il monaco di cui ci parla, con affetto e vicinanza, papa Ratzinger.

Le Goff ci ricorda che quella fu una esperienza storica che ha avuto luogo in un tempo e in uno spazio definito e irripetibile, di cui dobbiamo scavare le caratteristiche grazie ad una laboriosa indagine documentaria e filologica. Per Ratzinger - dobbiamo dire "invece"? - è esperienza ancora viva se solo ci poniamo all'ascolto della sua maggiore eredità, la attenzione alla "parola". Che certo è un punto di riferimento, oggi però evanescente e vuoto perché privo di quel sistema saldamente strutturato che fu la società medievale - della quale la "parola", il "logos" insegnato dalla Chiesa rappresentava la giustificazione ultima e definitiva. C'è qualcosa di simile, che possa essere oggi presentato con efficacia e capacità di persuasione a un mondo globalizzato - non più europeocentrico - che ha nel web la sua "parola", il suo "logos" esemplare?

giovedì 10 aprile 2014


                                                         SPUNTI  DI  ATTUALITA'

Miracoli. Il "Fatto Quotidiano" solitamente fa professione di grintoso laicismo ma l'altr'ieri - solitario -  spara su due pagine una inaspettata inchiesta: prima la notizia poi tanto di commenti: "Si concluderà a metà aprile il seminario Studium organizzato a Città del Vaticano dalla Congregazione delle cause dei santi. Lo Studium, istituito da un'udienza pontificia del 1984, ha per obiettivo la formazione di postulatori e collaboratori del Dicastero, nonché delle figure di delegato episcopale e Notaio nei tribunali specifici che trattano le cause dei santi (...). Nelle 76 ore di lezione svolte presso la Pontificia Università Urbaniana si affrontano diversi temi che ai non adepti possono sembrare singolari: (...) i segni necessari e contingenti della santità, fama di martirio e teologia dei miracoli..." eccetera.  Ne viene fuori una vera e propria inchiesta sui miracoli, sul "miracolo", con due commenti di peso: il teologo Vito Mancuso e l'attore e premio Nobel Dario Fo. Mancuso è sofisticato: alla tesi per cui i miracoli sono "eventi prodigiosi che vengono dal divino" contrappone quella secondo la quale i miracoli "sorgono dal basso, dall'energia della mente umana, che non dominiamo del tutto e che la scienza non è in grado di spiegare". E ricorda che i miracoli non sono appannaggio esclusivo della fede cattolica: "nel santuario greco di Esculapio, il dio della medicina, sono stati ritrovati exvoto uguali a quelli di oggi. La stessa cosa avveniva in Egitto e oggi in India". Oddio, in proposito mi pare che la chiesa primitiva combattesse aspramente le insorgenze "miracolistiche" legate alla fede in dei e culti pagani: come può un idolo - "falso e bugiardo" - produrre salute e salvezza?

Ma, più in generale: vi è tutta una letteratura di stampo libertino-illuministico che tende a spiegare in termini naturalistici gli eventi o le situazioni proprie della religiosità. David Hume scrisse la "Storia naturale della religione" a metà del XVIII secolo. Obiettivo dell'opera è trovare i fondamenti della religione nella natura umana. La religione avrebbe la sua genesi nel sentimento del timore e quale esorcizzatrice della potenza naturale, che così risulta "benigna", non più  nemica dell'uomo. Un mezzo secolo dopo, Feuerbach sosterrà che di fronte al carattere illimitato dei propri desideri e delle proprie aspirazioni l'uomo si rende conto del carattere limitato dei suoi poteri. Dio viene immaginato come l'essere nel quale tutti questi desideri sono realizzati: a Dio, infatti, nulla è impossibile, tanto meno i miracoli. Ora, con Mancuso, siamo al miracolo come "prodigio dell'energia della mente  umana". Non innova di molto, il suo è solo positivismo aggiornato e sofisticato. Il noto teologo non sembra curarsi del fatto che i miracoli avvengono in aree culturali nelle quali, appunto, il miracolo viene accettato, mentre non avvengono in aree  - o con persone - culturalmente estranee al tema (penso alle aree pur cristiane ma protestanti). Il miracolo insomma, a mio modesto avviso, non "avviene", ma "viene percepito". Basta crederci. E Fo, Fo, che dice? Ho l'impressione che le due pagine siano state poste al servizio dell'attore, che a giorni riporterà in teatro una sua nota opera, “Lu santo Jullare Francesco”. Il quale, pare, ai miracoli non credeva.

Il "caso" Braibanti. E' morto, a  91 anni, Aldo Braibanti, alcuni giornali ne hanno dato notizia. Per molti lettori quel nome non ha alcun significato, invece la sua è una vicenda esemplare, per molti versi, nella storia italiana del secolo scorso: quasi uno spartiacque tra due epoche profondamente diverse. Prima di Braibanti c'è l'Italia contadina, dai riflessi arretrati, che ne condizionano vita e usanze fin nei più segreti recessi familiari. Con Braibanti appare e comincia ad emergere un'Italia che cerca di recepire alcuni elementi di modernità, di  laica autonomia nei comportamenti individuali e sociali (siamo, per capirci, ai tempi delle battaglie per il divirzio). Aldo Braibanti, filosofo, poeta, artista non privo di genialità, venne denunciato, processato e incarcerato per aver indotto un giovane ad abbandonare la cattolicissima famiglia e ad andare a vivere con lui. Erano omosessuali. Il reato contestato a Braibanti era quello di "plagio", residuo di un codice arcaico, risalente al 1930, che puniva "chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione". Ipotizzava, dunque, il reato di schiavitù, anche quella che si può avere quando si assoggetta impropriamente ai propri voleri una persona privandola della libertà, ma anche della volontà e, in definitiva, dell'identità. Naturalmente, nulla di questo interessava la vicenda di Braibanti e del suo amico, l'accusa era un pretesto, si voleva colpire un comportamento. Nell'occasione Marco Pannella affrontò per la prima volta, in un'aula di tribunale, il tema della giustizia italiana. Fu un bellissimo, appassionante confronto. E' lo stesso tema che porta ancora oggi Pannella ad insistere nella campagna sul carcere e la "giustizia giusta": una continuità di attenzione politica e culturale che la dice lunga sullo stato della giustizia e del diritto nel nostro paese.

















lunedì 7 aprile 2014

Angiolo Bandinelli, "SCRITTURE DEL TEMPO".
Edizioni Forme Libere
11 euro

"scavate, scavate in questa
poesia, andatele dentro
fin dentro la sua malattia

a costruire, sopra immensi
orizzonti, cittadelle immortali"

giovedì 3 aprile 2014

 VERSO L'EUROPA, I CATTOLICI SONO LAICI
(da "Il Foglio"

Uno dei temi cari alla polemica cattolica contro l’unificazione risorgimentale - tema abusato peraltro anche da polemisti marxisti e comunisti - fu che il moto unitario, opera di una èlite borghese, aveva forzosamente cancellato o comunque calpestato la più profonda sostanza culturale, etica e religiosa del paese, espressa dalle grandi maggioranze popolari e contadine. Nella polemica vennero più volte rievocati i moti antigiacobini e quelli antirisorgimentali esplosi qua e là, spesso guidati o aizzati da preti legati al territorio. La polemica antiunitaria poté contare soprattutto di una prestigiosa intellettualità della Chiesa romana, che elaborò idee e slogan pesantissimi: nel marzo del 1861, dopo che Pio IX aveva condannato il nuovo Regno d'Italia come "negazione di Dio", "Civiltà Cattolica" definì "mostruosa", "fittizia", "innaturale", l'unificazione, mettendo in guardia i cattolici dall'"idolatria della patria" e dal complotto tessuto "sotto la guida occulta della massoneria". Nel primo fascicolo della rivista, nel 1850, Matteo Liberatore sosteneva che la "rivoluzione italiana" era un'ultima tappa nella lunga catena di attacchi alla fede cattolica iniziata con la riforma protestante. La polemica dilatò i suoi obiettivi. Nel 1864, con Pio IX, arrivò la condanna delle dottrine liberali e delle “cosiddette libertà moderne”, che erano poi la libertà di pensiero, di coscienza, di parola e di stampa. Finalmente il Sillabo, pubblicato nel 1864 assieme all'Enciclica "Quanta Cura", tracciò una linea di demarcazione invalicabile tra il cattolicesimo e la modernità. Tutta roba nota, ho solo spulciato qua e là tra il lungo elenco dei documenti papalini ed ecclesiali di rifiuto della storia e della modernità. Il Concilio Vaticano II tentò di ristabilire un dialogo con i tempi, ma credo che pochi eventi siano altrettanto malvisti e persino respinti all'interno del mondo cattolico.

Oggi, atteggiamenti antirisorgimentali e antiunitari vengono di nuovo agitati da forze politiche non proprio marginali. E non è strano che quei temi sostengano tutt'assieme una polemica antieuropea non meno intensa di quella antiunitaria. Io ricordo che la campagna per il divorzio venne salutata nella stampa straniera come un passo verso l’Europa di una Italia "recalcitrante" come uno di quei muli che ancora popolavano un paese quasi interamente agricolo. Non solo: mi pare che con l'antieuropeismo di oggi stia riaffiorando - sia pure non esplicitamente - la grande faglia che divise il paese durante quella campagna, la faglia tra laici e integralisti - non solo cattolici, ripeto, ma anche dotti e ferrati marxisti, ostili ad una istituzione che, secondo loro, avrebbe separato e contrapposto le masse cattoliche da quelle socialiste, univocamente protese verso la conquista del potere e la grande, attesissima, vittoria proletaria sulla borghesia, la sola interessata a quella istituzione che è il divorzio, borghese appunto. Temi non molto lontani, almeno per lo spirito rancoroso, vengono oggi sbandierati contro l’Europa, denunciata come prodotto del capitale, delle banche, dei grandi interessi finanziari, di tutta una consorteria antipopolare, dunque antidemocratica. E, di nuovo, si affacciano integralismi antilaici, rivendicazioni di un passato - i localismi ne sono espressione inconscia - nel quale solo si riscontrano virtù e sentimenti autentici e validi. Non è detto che la modernità sia tutta un bene, e che intorno all'Europa non si debba e possa discutere, ma spaventa che appaiano già padrone del campo e senza alcuna opposizione seria solo le forze ostili all'Europa e alla sua modernizzazione, che non può non puntare all'incontro, la fusione e la reciproca integrazione di linguaggi ed esperienze.

C'è comunque da notare positivamente - ed è per questo che abbiamo ricordato le voci cattoliche ostili al Risorgimento - che questa volta le tesi che (almeno a me) appaiono antimoderne non provengono dalla cultura o alla dottrina cattolica. Anzi. Scomparsi come forza politica autonoma, i cattolici impegnati non sembrano affollare le schiere di Le Pen o di Grillo, semmai è il contrario. Se dobbiamo felicitarci con il mondo dei fedeli alla cattedra di San Pietro, è che oggi essi sono in larga misura nel campo dei moderati, persino illuminati, attenti alle voci della modernità, attivi sostanzialmente nel campo europeista (anche se non accontentati nella pretesa del riconoscimento delle "radici cristiane" dell'Europa). Continuano, e continueranno, a battersi per la difesa dei "valori etici", "non negoziabili", ma la legittima battaglia non ha i toni aggressivi di qualche anno fa. I cattolici impegnati in politica esercitano il loro diritto di operare nello spazio pubblico senza più la pretesa all'assolutismo antimoderno. E' una atmosfera, questa, che arricchisce e rifonda l "dialogo" con i laici fino a poco fa impaludato in una intransigenza, in definitiva, poco produttiva. Chissà se questo sta accadendo per diretto impulso di papa Francesco, ma se così è perché non felicitarsene? Perché denunciare con acredine che il papa argentino piace più ai laici che ai cattolici (dico "cattolici", non "credenti")?

martedì 18 marzo 2014

la vita può avere momenti gradevolmente pieni, l'esistenza ha vuoti incolmabili

venerdì 14 marzo 2014

Nella vita della psiche le conclusioni - tutte le conclusioni - sono       sempre momentanee, provvisorie

lunedì 10 marzo 2014

                                                            SCRITTORI CATTOLICI


Gerard Manley Hopkins è uno dei massimi poeti inglesi dell'ottocento, dell'età vittoriana. Era un prete, anzi un gesuita, mi pare che dovette chiedere ai suoi superiori la dispensa per potersi dedicare alla diletta Musa. Il suo capolavoro è "The wreck of the Deutschland", un lungo poema ispirato ad un naufragio nel quale erano morte 157 persone, tra cui cinque suore francescane in fuga dalla Germania per sottrarsi alla politica anticattolica nota come "Kulturkampf". Hopkins è un grande poeta, ed è poeta intensamente cattolico, il suo percorso esistenziale ci richiama quello di Clemente Rebora, anche lui sacerdote e poeta. In questa sede mi interessa segnalare che Hopkins fu un formidabile sperimentatore linguistico. La sua poesia è tecnicamente difficilissima, ne conosco una sola traduzione in italiano, una vera impresa.  Come dire che in Hopkins la fede religiosa non si oppose alla "modernità" più spinta e rischiosa: Hopkins fu addirittura un protagonista della più spericolata avanguardia letteraria. Ciò è stato possibile perché era (anche lui) un gesuita?

Mi chiedo cosa possa significare, in generale, essere uno “scrittore cattolico”. Che è altra cosa - mi pare -  dall'essere uno scrittore “cattolico” (ci sono poi anche scrittori che chiamerei "di chiesa": io, da ragazzino, lessi proficuamente una raccolta di splendide lettere di Santa Saterina da Siena, dense di umori politici e civili). La mia curiosità viene soddisfatta da Wikipedia, che mi  offre una intera paginata di "scrittori cattolici". Nella lista incontro nomi eccellenti, quasi tutti contemporanei (e già questo dice qualcosa). Cito a caso: da Jean Guitton a Sigrid Undset, da Francois Mauriac a Giovanni Testori, da Bruce Marshall a Thomas Merton, a Susanna Tamaro,  e via via gli altri.  Nome eccellente su tutti? Verlaine, credo. Ma cosa li distingue, e cosa li accomuna? Ci sono snob come Waugh e Claudel, peccatori come Verlaine e Tommaseo (lui però non è su Wikipedia) che, secondo Manzoni, stava con un piede in sagrestia e l'altro in bordello, probabilmente ci sono asceti - anche se, nella lista, non riesco ad individuarne uno - ma non si può dire che questi o quelli trattino di argomenti apparentabili. Una qualche comunanza tra loro possono vantarla i polemisti francesi, da De Maistre a Bloy a Péguy, che facevano fronte comune contro la laicizzazione progressista, in forme e con una vigoria che non hanno riscontro in Italia. Graham Greene può essere collocato vicino a Chesterton, per loro la fede è una ricerca dell'Altro nelle pieghe della vita, ecc. Robert Lowell si convertì al cattolicesimo ("...gli occhi di Bernadette/che vide Nostra Signora, alta nella grotta/di Massabielle - così chiara la vide/ che la visione acciecò gli occhi/ della ragione...", traduz. mia) ma la fede non lo salvò dall'alcoolismo né dai disturbi psichiatrici.

La lista è, come ho detto, innanzitutto di contemporanei, però non c'è dubbio, per dire, che già Manzoni sia fortemente connotato sotto quella etichetta (o insegna?). Manzoni è cattolico, anche se con tendenze gianseniste assai forti e una spessa patinatura illuminista, e in quella veste appartiene ad un secolo, l'ottocento, ricco di scrittori immersi nel religioso o comunque con problematiche etiche, il senso del peccato, la colpa, l'angoscia, ecc.: c'è Melville,  c'è Dostojewsky e il cardinale Newman, c'è Kierkegaard... Nietzsche si occupa addirittura della "morte di dio".

Ho interrogato Google, ovviamente, ma non mi pare di avervi incontrato una analoga lista di "scrittori protestanti". Se dovessi individuare uno scrittore che possa essere definito tale è Melville, con il suo “Moby Dick”. Melville è protestante come Manzoni è cattolico, ma  i due hanno in comune l'attenzione verso il destino, il confronto con il male, il tema della salvezza. Achab sfida il destino per potersi confrontare con il Male, la balena bianca, demone esterno ma anche interiore. Manzoni descrive la lotta del bene contro il male in termini individuali - con Borromeo e l'Innominato come simboli e protagonisti - ma la sfida tra i due poli della morale lui la vede dispiegarsi soprattutto nella storia, nella grande storia dell'umanità e della società. Per Manzoni, gli uomini dovrebbero seguire i precetti della ragione illuminista, per esempio adottando leggi economiche liberiste (!!!) che favoriscano il commercio dei grani ed evitino la carestia; se non lo fanno, la loro disattenzione si tramuta in colpa, e dio li punirà abbattendosi giansenisticamente, con la peste, sul mucchio: Padre Cristoforo muore (accanto a Don Rodrigo) mentre si salva, accanto a Renzo e Lucia, il povero Don Abbondio, incolpevole ma certo non attento ai suoi doveri.  Quello degli "scrittori cattolici" è insomma un variato "melting pot". Se dovessi - maliziosamente - dire quale è l'espressione che meglio mi fa identificare lo scrittore cattolico, sceglierei Charles Péguy: "Il peccatore è al centro della Cristianità. Nessuno è così competente quanto il peccatore in materia di Cristianità. Nessuno, tranne il Santo".