sabato 28 dicembre 2013

martedì 24 dicembre 2013


NATIVITA'

La donna si era assopita, non gemeva più, teneva la piccola testa reclinata sul petto. Giuseppe pensò che poteva lasciarla per un po', senza rischi. Non aveva sentito, nell'orizzonte del deserto e tra i bassi tamerischi, il triste singhiozzo dello sciacallo o l'orrido riso della iena. Uscì dalla grotta, la notte era buia e fredda, ma tranquilla. In mano teneva l'otre di pelle di capra. Cercava acqua. La sua donna aveva bisogno d'acqua, molta acqua. Lui, naturalmente, non era esperto, non aveva mai assistito ad un parto, ma aveva afferrato qua e là racconti di donne, di quelli che le donne fanno quando si raccolgono tra loro a chiacchierare e sorseggiare anice profumato o leggero vino di palma. Le donne hanno sempre qualcosa da confidarsi, standosene separate dagli uomini. E naturalmente, oltre che di amore e amori, parlano di cucina e di mariti, di figli e di parti, di nascite riuscite bene o andate male, per scacciare le quali si scambiano unguenti e utili consigli. Lui le aveva frequentate poco e le conosceva anche meno, le donne, aveva sempre pensato al lavoro. Ed era contento di averlo fatto, perché a forza di gomiti, di pazienza e di abilità, pian piano era diventato, se non ricco, benestante, la sua piccola azienda di falegnameria prosperava. Si era costruito con le sue mani una casa spaziosa adornata con bei mobili, si era potuto anche comperare rotoli di papiro, o qualche costosa pergamena, con la parola del Signore, il Libro della speranza del suo popolo. Discendeva dalla stirpe di Re David, non era uno qualunque, sapeva leggere e scrivere, come pochi nel villaggio di Nazareth. Ma oltre alla lettura serale del libro sacro, nessuna distrazione, pochi amici, una vita frugale. Era così diventato un uomo maturo, cominciava a sentirsi vecchio. E un po' solo.

Ma quando, una mattina - quasi un anno prima - aveva visto passare, nelle viuzze tra le casupole, la bambina, o poco più che bambina, dallo sguardo dolce e il passo sicuro come se reggesse sulla testa un vaso di bel vetro fenicio soffiato invece che l'anfora di pesante terracotta, aveva sentito il suo cuore battere come mai prima gli era successo. Gli era sembrato che quella fanciulla avesse qualcosa di non comune nel portamento e nel profilo, insieme dolce e forte. Non la conosceva, non era di Nazareth, sicuramente era arrivata con la carovana appena giunta da Gerusalemme. Sì, quella fanciulla gli era piaciuta. Ne era restato turbato, dovette confessarselo. Ma come poteva pensare di sposarla? Troppa era la differenza di età. Per tutta la giornata, comunque, l'aggraziata visione gli passò e ripassò dinanzi agli occhi della memoria. A un certo momento, spinto da uno strano impulso, si era avvolto nel mantello, aveva lasciato i suoi operai sotto la guida del capomastro e si era recato di furia al caravanserraglio, appena fuori della porta e delle mura. Quando fu arrivato, chiese chi fossero gli ospiti che vi erano discesi da poco lasciando i cammelli nello stabbio lì dietro, con i servitori che si affaccendavano strigliandoli e buttando loro erba fresca. Si trattava di un ricco gerosolimita di nome Gioacchino, gli fu risposto, era sceso lì con la moglie e la loro figlia. Giuseppe non ci aveva pensato due volte, se avesse esitato la timidezza e la vergogna si sarebbero impadronite di lui, facendolo tornare indietro. Così si era presentato all'uomo, e senza troppi giri di parole gli aveva chiesto se gli concedeva di sposare la fanciulla: non era sua figlia? Quello lo aveva guardato un po' meravigliato, di sicuro non si aspettava che in un città straniera, uno sconosciuto, per di più in età avanzata, gli chiedesse in sposa sua figlia, appunto: “Tu mi parli di Maria” - chiese - che è figlia mia e di mia moglie Anna?” Giuseppe raccontò come l'avesse vista passare nei pressi di casa, della sua bella casa, e come se ne fosse invaghito. Non sapeva come fosse successo, sapeva bene di essere un po' troppo anziano - non troppo, in fin dei conti - ma si era deciso, sì, voleva prenderla in moglie. Maria. Lei o nessun'altra, assolutamente. L'uomo lo ascoltò, si compiacque con lui quando seppe che Giuseppe era della stirpe di David, lui stesso apparteneva alla tribù di David e la coincidenza gli sembrò davvero un buon segno. Lo fece accomodare e fece portare dallo schiavo datteri, fichi e del vino di palma. Chiacchierarono un po', Gioacchino promise a Giuseppe che ne avrebbe parlato con la moglie, Anna. Maria, raccontò, era la loro figlia amatissima, la moglie l'aveva avuta quando già era una donna anziana e, per la verità, in un modo un po' strano: per venti anni, il loro matrimonio era stato sterile, poi, d'un tratto, Anna si era ritrovata incinta: “Ma succedono tante cose, per la volontà del Signore benedetto” commentò con un sospiro: avere una figlia, se non proprio un figlio, era stato un suo grande desiderio. E ora quella sua figlia, quasi una bambina da poco fiorita come donna - come gli aveva confidato sua moglie, fiera e un po' commossa - veniva chiesta in moglie e se ne sarebbe andata di casa.

Quando le disse della strana richiesta dell'uomo – tal Giuseppe di Nazareth, della stirpe di David - Anna era stata molto decisa. Chissà perché, non solo non ebbe nulla da obiettare, ma anzi lo torturò tutto il giorno, finché lui aveva acconsentito. “Devi ascoltare, devi ascoltarmi”, gli aveva detto, “ho uno strano presentimento e i miei presentimenti sono sempre veraci”. Così Gioacchino aveva mandato a chiamare Giuseppe, si era appartato con lui dinanzi a un paio di boccali di birra, e si erano accordati sul prezzo. Aveva tirato un po', ma Giuseppe non aveva fatto troppe obiezioni. Durante la contrattazione Anna, con mille scuse, faceva un continuo vai e vieni e cercava di capire come andassero le cose, Maria invece era rimasta reclusa, sola, in un'altra stanza. Accettò la proposta di Giuseppe in silenzio, con gli occhi bassi. Sembrava impacciata.

Una notte, poco dopo quegli eventi, Giuseppe aveva avuto un sogno. Gli era apparso un angelo che lo esortava a sposare la fanciulla delicata e sommessa. L'angelo gli aveva fatto anche una strana predizione. Lui, svegliatosi di colpo, aveva pensato che fosse uno di quei sogni che disturbano l'uomo e lo fanno anche peccare: “Gli angeli, quelli veri - i messaggeri dell'Altissimo - a volte scendono a visitare gli uomini, ma devono essere uomini importanti per il loro popolo, come Abramo, non uomini da poco come me, un piccolo falegname. L'angelo apparve ad Abramo per salvare Isacco e con lui tutta la sua discendenza, mentre io non avrò certo figli, se anche mi sposerò con la dolce Maria”. Giuseppe dimenticò il sogno, ma a Maria pensava sempre. Fecero correre un breve fidanzamento e infine le nozze, celebrate con gran festa e abbondanza di ogni specie di vettovaglie: Giuseppe comperò e fece ammazzare un bel vitello grasso, e fece circolare tra gli ospiti molti orci di vino, perché non venisse a mancare fino alla fine della sera. Tutti furono soddisfatti. Ma quando l'ultimo degli ospiti de ne fu andato, Giuseppe sollevò gli occhi alle stelle lucenti nel cielo: “Tra poco diventerò padre“, pensò, “Non ho certo i meriti di Abramo, ma prego perché la benedizione dell'Altissimo scenda su di me, la mia sposa e la nostra figliolanza”. E fu davvero felice quando lui e Maria poterono ritirarsi nella stanza che aveva arredato con mobili semplici, fabbricati da lui stesso con le sue mani esperte di ottimo falegname, conosciuto e apprezzato dovunque. Su un basso tavolo c'erano un bellissimo piatto di rame sbalzato pieno di datteri, fichi, miele, spezie e focacce, una brocca di vino di palma e una di latte di cammella, per ristorare gli sposi.

Giuseppe ricordava sempre quei momenti, li rimuginava sempre tra sé e sé. Perché quella notte non era accaduto nulla di quello che tutti si aspettavano. Lui non aveva conosciuto - come dicono i Patriarchi - quella che era divenuta sua moglie. Né quella sera né le altre che succedettero a quella. Quando la porta della stanza da letto fu chiusa dietro di loro e furono finalmente soli, Maria, con un'aria sgomenta, si era accucciata in un angolo, si era coperta gli occhi e la testa con la sottile bellissima veste del matrimonio, aveva sussurrato più volte, “No, no, no”. Lui, Giuseppe, l'aveva guardata un po' meravigliato un po' imbarazzato. Non sapeva nulla di quelle cose, era impacciato, non sapeva davvero cosa fare. Aveva però udito, da certe chiacchiere ascoltate dai cammellieri, da amici anche loro falegnami, che qualche volta le ragazze sono restie a quel che deve succedere dopo gli sponsali. Talvolta si rifiutano per molto tempo, e lo sposo può, se vuole, picchiarle e ricondurle alla ragione, oppure armarsi di pazienza e aspettare che la fanciulla rinsavisca. Ricordò anche lo strano sogno con l'angelo che aveva fatto tempo prima, ma lo scacciò infastidito. Decise di aspettare, pazientemente. Era un brav'uomo, non amava la violenza, in fin dei conti era stato solo per tanto tempo, poteva ben lasciar correre qualche giorno e qualche notte ancora. Dormì avvolto nel mantello, per terra, a fianco del letto dove si era coricata sua moglie, che non aveva voluto spogliarsi, era sempre negli abiti della cerimonia. Giuseppe si girò e rigirò, tirò più di un un sospiro, aveva paura che Gioacchino sarebbe stato incredulo, o magari si sarebbe infuriato, se lui gli avesse raccontato la verità. E figurarsi cosa avrebbe detto Anna, poi.

La mattina dopo sì era levato prestissimo come il solito, aveva un cantiere aperto, gli operai già lo aspettavano, insonnoliti. Scacciò da sé, durante il giorno, il pensiero di quella notte. Ma quando la sera rientrò a casa, Maria lo attendeva, in piedi, a fianco della tavola apparecchiata per la cena. “Cosa hai, Maria?”, le aveva chiesto, un po' in apprensione. Lei, senza sollevare gli occhi da terra, rispose: “Sono incinta. Aspetto un bambino”. Lui era rimasto folgorato. Le aveva preso la mano, l'aveva scossa, aveva anche cacciato un grido disperato: “Cosa mi dici?” Maria allora sollevò verso di lui gli occhi, che aveva grandi e umidi come una gazzella, e sussurrò con voce matura e dolce: “Non temere, Giuseppe. Non ti ho tradita, e non ti tradirò mai. Tu sei il mio sposo, il mio unico sposo. Ma non so cosa mi sia accaduto: un angelo è venuto a me...” Gli raccontò quello che le era successo tempo prima, e che lei aveva taciuto con tutti, anche con la madre e il padre. “Tu partorirai il salvatore del mondo”, le aveva detto l'angelo. Giuseppe era sempre più sconcertato. “Forse hai sognato..”, osò dire, con voce compressa per l'emozione, anche Maria aveva forse sognato, e l'angelo - forse lo stesso che era apparso anche nel suo sogno, o forse incubo - aveva detto il falso, non era un angelo ma il demonio tentatore. Lei gli si inginocchiò davanti: “Devi credermi, mio amato sposo Giuseppe, devi credermi, devi credermi, non so cosa sarà di me, non so cosa ora sarà di te: io so solo che un angelo mi ha parlato...io sono incinta.”
* * *
Giuseppe si allontanò dalla grotta, amareggiato. Rimuginò ancora una volta quel tormentoso pensiero: “Signore, non so che fare, Tu solo puoi aiutarmi. Ho creduto e credo a Maria, è troppo giovane, bella e pura, non mi ha mentito. E io la amo, l'ho amata da quando l'ho vista. Quello che mi ha raccontato, però, mi turba sempre, devo ammetterlo... L'apparizione di un angelo, quelle sue parole strane: 'piena di grazia', le ha detto...Che significano? Io conosco solo una grazia, Signore, ed è la Tua grazia, che cade indiscriminatamente sull'uno o l'altro di noi uomini, non sappiamo perché e dobbiamo accettarla, come l'accettò Giobbe, il Paziente. Ma che Tu, o Signore dei cieli, abbia rivestito della tua grazia una donna mi è difficile da capire. E Maria è solo una piccola donna, è la moglie di un falegname, non è la regina di Saba, non è Sara, moglie di Isacco, non è Rebecca, madre di Giacobbe. Sara era vecchia, e aveva ragione di dare del matto a colui che le chiese se stesse aspettando un figlio. Ma Maria è giovane, e un figlio lo sta aspettando davvero, il tempo è scaduto, sta per partorire. E allora chi è il padre, chi può essere il padre? Lei dice che l'annuncio le è venuto dall'angelo e io debbo crederle, ma questo mi pesa. Io non l'ho smentita dinanzi a a suo padre, quando lui si è felicitato con noi. Forse Anna, sua madre, sospetta qualcosa, o è al corrente. Anna sembra una donna saggia. Ma le donne - e poi figurarsi quando si tratta di madre e figlia - si tengono per mano, si aiutano, si coprono vicendevolmente l'una i segreti dall'altra. Segreti... Maria ha un segreto, almeno quello che ha dovuto rivelare a me...”

Pieno di angoscia, Giuseppe pensava e ripensava a quanto gli stava accadendo, mentre ora rientrava alla grotta con sulle spalle l'otre rigonfio e gocciolante. Era giunto a pochi passi dall'imboccatura, quando sentì un grido lacerare l'aria. Riconobbe la voce di Maria. Si affrettò ad arrampicarsi sul secco pietrame: “Eccomi, Maria, sono qui, sono tornato”. Maria era piegata in due, si sosteneva la pancia con le due mani. Gemeva, le lacrime le scendevano dalle guance sempre più pallide. Giuseppe gettò l'otre vicino al fuoco che aveva acceso appena erano arrivati alla grotta, un fuoco di sterpi e di sterco di bue. Alla mangiatoia c'era una docile vacca, accanto a lei l'asino che aveva portato Maria fino a lì, coperto di mosche richiamate dal tepore. La stalla odorava sgradevolmente.

Giuseppe sollevò delicatamente Maria e piano piano la trascinò quasi sotto alle due bestie. L'asino scalciò un poco e ragliò, innervosito. “Il calore del loro corpo ti aiuterà, Maria”. Lei non rispose, si lasciò andare per terra, Giuseppe le pose dietro la testa il suo mantello e con un lembo di questo la coprì. Finalmente riuscì a scaldare un poco di acqua in una bacinella che aveva trovato tra gli stracci del loro asino. Era poca, e non molto calda. Giuseppe frugò ancora nella sacca, tirò fuori i panni che Maria aveva con preveggenza stivato nel fondo. Erano panni puliti, sarebbero stati molto utili.

Cosa doveva, cosa poteva fare? Si erano messi in viaggio per Betlemme di Giudea, patria del Re David, solo perché lui, Giuseppe, doveva andare a firmare quel maledetto censimento ordinato dall'autorità romana. Sapevano che il tempo della gestazione stava scadendo ma avevano pensato che se le cose fossero precipitate avrebbero potuto fermarsi in un ostello, un albergo, e non sarebbe stato troppo difficile trovare una brava donna, una levatrice, che aiutasse Maria a partorire. D'improvviso, quella mattina, si erano rotte le acque, forse Maria aveva sofferto per il lungo viaggio a dorso d'asino. Era spaventata, lui aveva pensato che bisognava fermarsi, comunque. Sulle colline, ma lontano, si vedevano le flebili luci di Betlemme. Nell'aria roteava un leggero nevischio. Così si erano rifugiati nella grotta, per avere almeno un riparo dal freddo. E ora, in quella grotta gelida e inospitale, lui avrebbe dovuto cavarsela da solo. Scoprì il ventre di Maria. Vide che era sceso molto in basso, palpitava e si muoveva con movimenti regolari. Cercò come potesse aiutare la donna. Disse quelle parole che aveva sentito a volte raccontare, “Spingi, Maria, spingi”. Così aveva anche visto che facevano le pecore e le cammelle, e aveva visto i pastori secondare le bestie, come ora lui cercava di fare ma in modo ruvido, inesperto e incapace quale era. “Come è strana e brutta la nascita dell'uomo”, brontolò, ”non capisco perché l'uomo sia così simile, in questo momento, alla bestie dello stabbio, all'animale della foresta. Eppure l'uomo è destinato dal Signore di tutte le cose a dialogare con lui, è il solo essere vivente che sappia farlo: da Adamo a Giuseppe ai Profeti, gli uomini hanno sempre parlato con l'Altissimo, e l'Altissimo ha parlato con l'uomo. Perché dunque farlo nascere così simile a una fiera? Adamo, padre di noi uomini tutti, è nato non come una fiera, è nato direttamente dalla mano dell'Unico, che lo ha plasmato nell'argilla più pura. Lui è nato non dalla vergogna, ma puro. E invece, noi, ora....” Guardò con raccapriccio la minuta figura di Maria che si torceva negli spasimi. “Spingi, Maria”, gridò di nuovo. Lei provava a spingere, era proprio una bestiola, una capretta mentre stanno per sacrificarla e geme di spavento. Passò un po' di tempo, Giuseppe le porse da bere in una ciotola, Maria lasciò cadere parecchia acqua sulle guance, sul petto ansimante. “Spingi, Maria”, ripeteva Giuseppe. Non sapeva cos'altro fare, aveva paura di far male a quel piccolo corpo tremante. Il tempo scorreva, lacerato nel profondo dal lunghissimo, insopportabile strazio di quella donna. E ad un tratto, con un grido disperato, Maria si sollevò quasi a sedere: tra le sue gambe, rosso e caldo, era il schizzato fuori il bimbo. Giuseppe restò sbalordito per un momento. Si riprese subito, afferrò il piccolo essere, lo avvolse in uno dei panni preparati da Maria. Era impacciato, ma riuscì ugualmente ad annodare il cordone ombelicale, rosso di sangue. Poi depose il piccolo dentro la mangiatoria che aveva riempito di paglia. Con paglia bagnata nell'acqua ancora tiepida della concolina lo lavò come poté, lo riavvolse nel panno. Si voltò poi verso Maria. Lei giaceva ora supina, senza forze, ma aveva ripreso colore. Infine uscì la seconda, anche questa rossa di sangue. Giuseppe la gettò in un angolo lontano. Coprì alla meglio la donna, che sembrava essersi assopita.

Si sentì stanco, mortalmente stanco. Si lavò le mani, si accucciò accanto al corpo della donna. Si sentiva solo, gettato nella più assurda miseria con il carico delle sue angosce. Mille pensieri lo assalirono. “Sono padre, ora, anche io sono padre. Padre? Ma no, io non sono padre”. Sudava copiosamente: “Non sono io, il padre. Eppure, sono certo che Maria non mi ha mentito. Non ne è capace. Io non sono sicuramente il padre del bimbo, secondo natura. Non ho mai sfiorato Maria, nemmeno con il pensiero. E allora... Cosa dovrò fare, adesso? Cacciarla di casa? Ripudiarla e rimandarla ai suoi? Così dice la legge, la donna adultera deve essere cacciata. Alcuni dicono che debba essere lapidata. Ma non voglio che Maria sia lapidata, e non ho cuore di cacciarla via di casa. Chi sono io, dopotutto, per ergermi a giudice severo, implacabile? Io ho scelto Maria come sposa, seguendo l'impulso migliore di me, forse anche spinto dalle parole dell'angelo apparsomi nel sogno. E se oggi Maria ha partorito non riesco a fargliene una colpa. Io credo in lei. E allora devo prendere una decisione. E so cosa farò”. Si prese il volto tra le mani: “Questo figlio farò che sia mio figlio. Sì, dopotutto, è mio figlio perché io voglio così, perché la mia coscienza me lo impone, non so perché ma me me lo impone. Si può essere padre secondo natura, e io non lo sono. Ma si può essere padre anche secondo coscienza. E io voglio essere padre secondo coscienza. Amo troppo Maria, devo avere fiducia in lei. E' difficile, ma voglio provare, voglio provarci”. Si sollevò sul gomito, e scorse nella penombra del fuoco il volto, ora sereno, della sua sposa. Si rese conto che amava la fanciulla, appena ora divenuta donna, che giaceva accanto a lui assieme al frutto del suo ventre.

Fuori della imboccatura della grotta si sentì un belato leggero, ma vicino. Giuseppe si alzò in piedi, tremava di paura, strinse più forte il suo bastone. Chiese: “Chi è là?” Una sagoma nera si affacciò alla bocca della grotta, restò stagliata contro il cielo, che aveva assunto un tenue colore azzurro. “Chi sei? Vieni da nemico o da amico?” “La pace sia con te. Sono un pastore. Siamo venuti qui, io e i miei amici, perché c'è qualcosa di strano, stanotte, in cielo. Proprio dritto su questa grotta. Cosa succede in questa grotta?” “La pace sia anche con te, buon pastore. Cosa succede qui, in questa grotta? Nulla, amico pastore, nulla di importante. Mia moglie ha appena partorito. Ci siamo rifugiati qui, perché io dovevo andare a Betlemme ma a lei sono venute le doglie e così abbiamo dovuto fermarci, senza poter arrivare a Betlemme”. Si sentì il pianto del bimbo. Giuseppe borbottò: “Non hai un po' di latte delle tue pecore? Posso pagartelo, farebbe bene a mia moglie”. “Non ti preoccupare, avrai il latte, te lo offro volentieri.”

Ma c'è una cosa davvero strana”, proseguì il pastore, con una lieve esitazione, “forse puoi darmi tu una spiegazione, io e i miei amici pastori siamo molto inquieti”.
Perché siete inquieti?”, chiese Giuseppe. “Non so, vieni anche tu qui fuori, a vedere. Mi sembri un uomo saggio e istruito, forse puoi spiegarcelo, a noi che siamo pastori ignoranti”. Uscirono. La notte si era fatta chiara, straordinariamente chiara. Qua e là fiori di croco si erano aperti sulla sassaia brulla e sembravano campanellini d'oro. Stupito, Giuseppe sollevò lo sguardo e vide occhieggiare, dritta sulla grotta sdirupata, una stella enorme, lucente come lui non aveva mai visto una stella. Era come quando si vede la lampada di un viandante nella notte, che appare e sparisce dietro gli alberi o tra le pieghe del mantello. Ma qui non era una sola lampada, piovevano giù verso terra fiamme e fiammelle, fitte come un luminoso immenso sciame di lucciole, molte di più di quante sono di solito le stelle in cielo. Però nemmeno nelle più calde notti, quando le lucciole sono impazzite d'amore e la loro luce è più fosforescente, Giuseppe aveva mai visto una cosa simile. La luce fiottava, sgorgava riverberando attorno raggi il cui biancore argenteo si colorava qua e là di pagliuzze rutilanti, che si accendevano e si spegnevano ritmicamente. La luce di quell'unica straordinaria stella aveva del tutto fatto sparire le altre stelle, il cielo era limpido e liscio come una tavola di marmo, con al centro la stella meravigliosa, una perla trasparente di quelle che indossano le principesse o i re. “Mio Signore!”, esclamò Giuseppe, stordito. Non riusciva a raccapezzarsi. “Non so cosa dire, amico pastore”, mormorò, ma il pastore si stava allontanando , a balzelloni, nel buio della macchia, con le pecorelle che lo seguivano belando: ”Torno, torno con i miei amici”, gridava, e poi: “Eliezer, Caifa! Correte!”. Giuseppe rientrò nella grotta. Maria era sveglia, un leggero sorriso le sfiorava le labbra ancora esangui, stringeva al petto il bimbo, di nuovo placidamente addormentato. Nell'aria fredda, il fiato delle due bestie emanava un po' di tepore...

Signore, beato tra gli eletti e gli angeli, io ti ringrazio”, mormorò Giuseppe. Chinò la fronte a terra, pianse in silenzio, non sapeva perché ma si sentiva felice.


giovedì 19 dicembre 2013


TEOLOGIA E PAROLA
da "Il Foglio"

Può la teologia bloccare la parola? Può intimarle  di farsi in là, di cederle ogni diritto di primogenitura, imporle principi, norme e regolamenti al di fuori dei quali le sarà proibito di circolare? Sembra che succeda, comunque me lo chiedo - sia pure da dilettante, da incompetente. La teologia è cosa  da competenti, cosa può dire alla gente comune, alla gente più o meno  incompetente, come me? Se ne parla parecchio ma se ne sa pochino. Mi pongo la domanda, mi chiedo cosa esattamente si debba intendere per teologia. Tra le tante definizioni, trovo che il teologo presbiteriano di Princeton B.B. Warfield (1851-1921), grande biblista e studioso del pensiero cristiano, ne ha proposto una poi diventata - dicono - classica: "La teologia è la scienza di Dio e del Suo rapporto con l'uomo e con il mondo". "Scienza"? Si può avere scienza di Dio, su Dio? Che direbbero di questa definizione i galileiani rigorosi o gli scientisti irriducibili  (per non dire un mistico - se in giro ce ne sono ancora)? Qualcosa non quadra, mi sembra che qui si parlino lingue diverse, incomunicanti tra loro.

Sfoglio un solido testo di storia della filosofia classica. Mi avverte che la teologia come la intendiamo noi - noi che storicamente non possiamo non dirci cristiani - ha le sue radici nel mondo antico. Lo stesso termine è di conio greco. Platone ne trattò, più o meno esplicitamente, nella sua analisi del divino, Aristotile ne dà una definizione stringente, collocandola al vertice dei saperi umani e subordinandole matematica e fisica. Per lui, la teologia deve essere assimilata alla metafisica, che si occupa  della "Ousia", dell'"essere in quanto essere" nel suo significato più cogente, cioè di Dio, "ed è indispensabile che la scienza più veneranda si occupi del genere più venerando". Mescolate a questi già massicci materiali un pizzico di giudaismo (la creazione ex nihilo) e siamo alla base della piramide dei saperi che ha sorretto e condizionato l'intero medioevo cristiano. Non a caso uno dei suoi momenti salienti è lo scontro tra papato e impero per la egemonia ideale e istituzionale: al vertice dei poteri non poteva esserci che un'unica potestà derivante da Dio. Alla fine bisogna arrendersi, convincersi  (e convincere) che la teologia è un atteggiamento, una cultura, che riguarda esclusivamente l'Occidente nella sua duplice (o triplice) filiazione. Il buddista, il confuciano, il seguace dello zen in una qualsiasi delle sue ramificazioni, o anche il non credente di ogni parte del mondo, cosa capirà di quei venerandi testi di teologia, di quell'intreccio? Addirittura, quanto lo interesseranno? 

Il cristianesimo, figlio (ma anche padre) dell'Occidente, ha una caratteristica che lo rende probabilmente un fenomeno storico unico (gli contende questa posizione l'islam): di essere stato aggressivo, conquistatore, o, se volete, missionario ("Andate tra le genti..."), comunque assolutista: l'Occidente ha ridotto a folklore ogni altra storia. Forse fuori dei suoi confini ideali non c'era storia, non avevano avuto Tucidide, erano rimasti alla storia come mito, favola o leggenda. E la storia che l'Occidente ha esportato è impregnata di un preciso ed inconfondibile provvidenzialismo che va anche oltre Tucidide, perché ha recepito il senso della teologia cristiana. Ma il gigantesco ciclo di questa cultura sembra ormai concluso. L'Occidente ha dato (quasi) tutto quel che poteva dare, oggi lo scambio con il resto del mondo  è reciproco, non più monodirezionale. Il cristianesimo non può sfuggire al suo destino di essere - oggi - cultura tra le culture. E, come la vichiana verità, anche la sua teologia deve diventare 'filia temporis'.

Sono sicuro che se mai venissero dati alle fiamme, e distrutti, tutti i libri di teologia, gli uomini comuni, la gente, gli incompetenti, non se ne accorgerebbero, anche se resteranno stretti attorno al loro parroco, scampato alla furia iconoclasta. Lui continuerebbe a predicare e a parlare di Gesù Cristo, a loro questo sarebbe sufficiente. Comunque, magari per mera simpatia, tra teologia e parola, io scelgo la parola: forse petulante forse incerta, forse ingenua forse furba, a volte sbadata e trasmodante, eccessiva, persino sbagliata: ma quanto la teologia è complessa, rituale, obbligatoriamente tenuta ai suoi canoni e principi, tanto la parola è non-prevedibile, 'protesa' verso un altro che deve di volta in volta individuare e conquistarsi: e dunque laica e - stranamente - necessaria. Quel che resta della teologia, dell'edificio un giorno imponente ma oggi sconnesso, sbriciolato e miseramente autoreferenziale (chi garantisce per lei?) passa ormai  - suvvia: passi, accetti di passare  - attraverso la parola. Perfino il laico - che rifiuta la teologia nella consapevolezza del dramma storico che ne ha consumato il potere e la potenza - può accettare la parola, farla sua. Dialogarci: è attraverso la parola che passa, o può passare, l'accettazione del suo non poter non dirsi cristiano (il laicista no, non riesce a aprirsi a questo dialogo: è qui il suo fallimento). 

venerdì 13 dicembre 2013



                                                    LA NONVIOLENZA DIMENTICATA
                                                                        da "Il Foglio"



"Nelson Mandela, un gigante della storia", ha detto Obama. A metà percorso tra la sua scomparsa e le esequie del prossimo 15 dicembre, mi sia consentito spendere qualche parola sul leader nero. Una grande parte della mia vita è stata coinvolta in questioni attinenti alla teoria e alla prassi della nonviolenza, mi sorprende che su questi temi la morte di Mandela non abbia sollecitato particolari riflessioni o ricostruzioni. La stampa li ha poco più che sfiorati. Anzi, un quotidiano ha così titolato il ricordo del leader africano: “Quando Mandela prese il fucile. Dopo il massacro di Sharpeville la scelta della lotta armata", aggiungendo nel sottotitolo: "L'uomo che amava la pace senza essere un pacifista". L'articolo rievocava la tragedia avvenuta in quella località del Sudafrica il 21 marzo 1960, quando la polizia sudafricana aprì il fuoco su una pacifica manifestazione indetta contro la politica dell'apartheid messa in atto dal National Party. Morirono 69 persone. Il giovane Mandela, già influente leader antisegregazionista, si gettò nella lotta armata, ritenendo ormai vano il ricorso alla nonviolenza. Eppure, il lascito più grande di Mandela è proprio nella tenacia con la quale successivamente mise in opera, con dedizione e sacrificio, quel drammatico strumento di lotta politica e civile di cui Gandhi è stato il massimo banditore. Certamente Mandela non era Gandhi, di cui pure subì l'influenza. Diversamente da lui, Gandhi fece della nonviolenza un metodo, oltreché efficace, affilatissimo sul piano della teoria. Aveva cominciato ad apprezzare i valori della nonviolenza non in India, dal suo coté religioso, ma a Londra, dove studiava legge, negli ambienti intellettuali da lui frequentati e presso i quali la nonviolenza, come il vegetarianesimo o la parità e libertà sessuale, erano idee che circolavano e venivano discusse in ambiti di un fervido socialismo umanitario.

Insieme - come non è stato molto ricordato - a Martin Luther King, Gandhi e Mandela formano una triade di politici che della nonviolenza fecero – in tempi e modi che si inanellano l'uno con l'altro – il loro principale strumento e metodo di lotta. Cosa li univa? Una questione che – non paia strano – evocheremo dal titolo di un libro che sembra parlare di altro: "La nazionalizzazione delle masse”, di G. L. Mosse. La questione dell'ingresso nelle istituzioni politiche di enormi masse popolari fino ad allora escluse per ragioni sociali, ma anche etniche o religiose, non riguarda solo la Germania del XIX-XX secolo. In forme parallele, molti altri paesi dovettero affrontare il problema: il comunismo come il fascismo sono versioni diverse di questo processo. Volendo poi guardare panoramicamente le sole vicende del secondo dopoguerra, scopriremmo che l'epicentro di un analogo movimento di rivendicazione furono gli Stati Uniti, l'America delle grandi battaglie per i diritti civili che ebbero tra i loro protagonisti il Martin Luther King dell'integrazione dei neri, saldata e integrata a sua volta con le campagne per la questione femminile, degli omosessuali e comunque dei "diversi" ed "esclusi", in un mix di lotte libertarie che ha trasformato la cultura e la vita sociale della nazione americana. Fu un periodo di grandi attese e speranze, di successi incredibili, ottenuti evitando i rischi della scelta rivoluzionaria violenta - che poteva essere lo strumento e la scelta più ovvia, secondo gli insegnamenti leninisti e marxisti che pure si ponevano obiettivi analoghi - o, all'opposto, della rozza, sterile  jacquerie. Il libertarismo nonviolento è stato, a mio avviso, la rivoluzione culturale-politica più interessante dell'ultimo mezzo secolo. Rinnovava a fondo, reimpostandola, la logica del liberalismo ottocentesco. Questo poneva al centro le istituzioni, a partire dal Parlamento, cui si poteva accedere con la mediazione rappresemtativo/elettorale; il libertarismo nonviolento poneva l'individuo, con addirittura tutta la sua corporeità, a confronto diretto con le istituzioni, Parlamento e Governo. Il militante nonviolento interloquiva direttamente con l'istituzione, ma non la delegittimava né la combatteva; anzi, per certi aspetti, la rafforzava, depotenziando il dato elitario che la cultura democratica poteva rimproverarle, e anzi le rimproverò, in un dibattito teorico durato assai a lungo.

Senza il metodo della nonviolenza libertaria molte grandi lotte di liberazione, a partire da quella per l'integrazione razziale nel Sud Africa, avrebbero avuto esiti molto diversi, come ammoniva proprio il tragico episodio di Sharpeville. Nel 1963 partecipai con Marco Pannella a un convegno  tenutosi a Oxford per la fondazione della "Conferenza Internazionale per il Disarmo e la Pace" al cui centro erano, tra gli altri, l'inglese Canon Collins, il deputato greco Georgis Lambrakis, Claude Bourdet, direttore di France Observateur, gli americani Bayard Rustin e  A. J. Muste, leader del movimento nero prima di Martin Luther King. Nel confronto-scontro con il pacifismo di osservanza sovietica quelle figure e quelle forze espressero la forma contemporanea della cultura liberale.

giovedì 5 dicembre 2013

DIALOGHI
da "Il Foglio"

Bei tempi, quando tra laici e cattolici era aperto, con gran viavai di condiscendenti eminenze  e generosi intellettuali, un intenso dibattito - o, per meglio dire, "dialogo" - intorno a questioni somme. Ricordate? Creazionismo o evoluzionismo? Prolife o prochoice? Eutanasia no o eutanasia sì? Famiglia o partouze, separazione tra i sessi o gender unico, matrimonio tradizionale o anche tra omo? Fecondazione naturale oppure assistita, eterologa, magari con utero in affitto e sperma crioconservato? E poi: inevitabile, crudele agonia o morte dolce?  Di sicuro qualche questione l'ho dimenticata (anche intenzionalmente, come per esempio quella, criptica e riservata agli iniziati: Concilio Vaticano II sì o Concilio Vaticano II no?) L'elenco era lungo, ma il confine era tracciato a regola d'arte: si stava di qua oppure di là, se uno prendeva posizione - per dire - tra evoluzionismo e creativismo già sapevi come avrebbe scelto anche sugli altri temi. Poi però tra i dialoganti c'era una sottile intesa, con l'eminenza largo nel riconoscere le virtù di una sana laicità e l'intellettuale pronto a rassicurare che un ateo può essere un po' teista e, insomma, proprio tutto ateo non è (magari, lo è o no a seconda delle opportunità).  Si era cavillosi, sempre con l'argomento pronto sulla punta della lingua, furbastro, eclettico o didattico; ma alla fine il dibattito si diluiva in schermaglia, minuetto, acrobazia mentale, non arrivava mai la stoccata micidiale. Più che alla boxe somigliava al wrestling, quella finta lotta che manda in estasi gli appassionati. Gli uni avevano bisogno degli altri e viceversa, se uno dei due interlocutori fosse venuto a mancare, l'altro si sarebbe sentito abbandonato. Insomma un buon "dialogo" era d'obbligo, ma tutti sapevano che non serviva a nulla. Piaceva soprattutto a quanti volevano che nulla cambiasse. E se uno bonariamente osservava che in definitiva un cattolico "adulto" e con i piedi ben piantati per terra le cose riesce a vederle da laico anche lui, senza forzate elucubrazioni, veniva tacitato, redarguito, escluso dalla comunità.

Oggi quei dibattiti sono appassiti, ma soprattutto i loro argomenti sono o inservibili o non interessano più nessuno, a partire dal fondamentale dilemma sul primato tra ragione e fede: la ragione è un po' depressa dalle vicende della cronaca - non solo l'italiana - la fede è immersa di una caligine profonda, nessuno sa più dove nemmeno cercarla. Quei dibattiti facevano parte del rituale del meraviglioso - un po' barocco -  che allora circonfondeva i temi a carattere religioso. Penso abbiano affievolito il rigore laico nel tener fermi i punti nodali del rapporto tra i due storici interlocutori: si capiva da lontano un miglio che l'interlocutore laico era in realtà un laicista, con in testa tutti i pregiudizi del laicismo. Non sono ovviamente in grado di dare un giudizio sui riflessi di quel dialogare sulla teologia e affini; non credo però di aver sentito o letto voci nuove ed alte, amate persino dai laici, come se ne incontravano in tempi non troppo lontani. Avevo l'impressione che la chiesa dei dialoganti fosse ristretta nei confini dell'ecclesiologia e della liturgia. No, diciamolo chiaramente: quel gran dialogare era una sorta di diversivo, il confronto vero si svolgeva su un puntuale - nemmeno dissimulato -  disegno, per il quale la chiesa rivendicava la necessità di uno "spazio pubblico" per la fede. Ma chi glie lo negava? E' dal tempo della Legge delle Guarentigie che quello spazio pubblico i laici glie lo avevano aperto.

La svolta, la caduta di interesse per il "dialogo"  sembra porsi attribuire all'elezione di papa Francesco. Oddio, forse nel corso di un ultimo esercizio dialogante è stata fatta un po' di confusione terminologica, qualche concetto ha fatto storcere il naso ai puristi della fede: meglio lasciare stare, non si ripeta. Anche l'insegnamento del nuovo papa è fondato sulla fiducia nella parola: ma se dialogo deve essere sia dialogo con tutti, non solo con l'intellettuale disponibile. E oggi la chiesa forse davvero si muove, stiamo forse sventolando i fazzoletti per salutare la partenza di un giro del mondo (in solitario?), magari su un catamarano con attrezzature internettiche satellitari. Comprensibilmente, le critiche al nuovo corso non mancano. Si teme che la perdita di punti di riferimento come la liturgia o la formale riassicurazione dei principi non negoziabili possa fare sgretolare il millenario edificio. Ma perché la chiesa dovrebbe aver paura della parola aperta, carica di senso missionario, propriamente evangelico? Abbia il coraggio di guardare fuori delle mura della parrocchia o del Vaticano, ogni compiacimento o autocompiacimento sia  accantonato. Della parola ha paura, non lo si dimentichi, anche il laicista, aggrappato a feticci immobili. Altrimenti, non resterebbe che inchinarsi a riconoscere la grandezza della vera (non "sana") laicità, che la sfida, il rischio della parola libera, dell'aperto dialogo, non solo l'accetta ma la provoca.

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