domenica 24 novembre 2013



RACCONTO D’ESTATE



Il frinire delle cicale esce da milioni di violini con una sola corda, su cui folli senza speranza fanno scorrere l’archetto invidioso. Le chiome dei pini sono piegate tutti in una direzione, come fuggendo da un solo grande spavento. Gli aghi secchi scricchiolano, cespugli contorti riempiono lo spazio tra i tronchi, sentieri spinosi sboccano su brevissime radure sabbiose, calpestate solo da amanti. E’ Cézanne il pittore di queste pinete mediterranee grigioverdi, di questi amanti.

L’ingegnere in pensione, l’ex funzionario di una compagnia di assicurazioni, la signora che amministra una vasta tenuta di vini pregiati, si offrono reciprocamente cene, insieme semplici ed eleganti, alle quali invitano gli ospiti di sempre. E’ un rito di questa Toscana esclusiva. Si racconta vuotamente e pigramente del nulla che incombe sulla città abbandonata da loro, villeggianti d'abuso, mentre i fuochi della grigliata sbarbagliano. Gli uomini appaiono un po’ banali, figurine di un paesaggio sociale modesto nonostante le apparenze, gente soddisfatta di carriere e pensioni comode, magari immeritate, povera comunque di idee e di passioni; affascinanti sono invece le loro compagne, le rughe ricamano il volto della signora dagli occhi azzurri che giocano con l’ombretto o l’eye liner, accanto alla quale siedo in attesa del responso del barbecue. Cortese e altruista, lei ha lasciato posto al gruppetto di turisti venuti da fuori per la festa di mezz’agosto; beve un po’ di birra, i suoi occhi escono dal buio come topazi. Lei va al mare, il marito no, lei si distende sulla sabbia esattamente come avrebbe fatto a venti anni, la sua eleganza non ha età. Ride volentieri con i denti forti e lunghi. Racconta all’ospite qualche scampolo della sua biografia, spesa accanto al marito, funzionario amministrativo di una grande catena internazionale di supermercati con lunghi soggiorni di lavoro in Giappone, e lei ricorda volentieri, ma sbiaditamente, la vita in quel lontano paese, forse però ancor più interessata a raccontare le vicende della mobilia quando dovettero farla rientrare in Italia e invece di destinarla a Milano, dove pure vivono, l’hanno girata e fermata qui, in questo loro ritiro toscano così familiare dove però scendono quasi solo in agosto, da buoni milanesi. Vive nell’ansia del passato che le è sfuggito, chissà che non si penta di non averne saputo vedere tutte le occasioni, i momenti occhieggianti nei quali cogliere se stessa: perché penso sia consapevole che meriterebbe, o avrebbe meritato di più, dalla vita. Ma non penso nutra veri rimpianti, è abbastanza soddisfatta anche di poter fare due chiacchiere senza senso con il quasi sconosciuto che le sono io, come se stesse seriamente partecipando ad un rituale sociale, e lei questi rituali li vive e li rispetta, le danno il senso di un ruolo. Non so fino a che ora aspetteremo, il barbecue ci depone dinanzi una bistecca che dividiamo, fraternamente direi, e consumiamo allegramente. Mi sorride, ma non riesco a pensare ad un dopo che ripaghi quel sorriso, forse la mia è una immaginazione senza senso, e a lei va bene così, resterà soddisfatta di questa vuota serata: se ne ricorderà,un giorno? Mi farebbe un grande regalo sapere di essere salvato dall’annullamento grazie al ricordo di questa donna gentile, fatta apposta per me, almeno in questa serata imprevista, regalatami da un amico, casualmente.


***


Verso la riva, il mare si sbianca, si rovescia allegramente sulla spiaggia, dove è solo uno strapuntino di bollicine bianche, sotto il quale appaiono, lucidi, i sassi e i gusci vuoti delle conchiglie. Ma bisogna entrare in acqua con prudenza, il piede può affondare nella sabbia o perdersi dentro una buca insospettata, puoi cadere in un modo ridicolo. Finalmente mi decido. Sono anni che non vengo al mare, quando mia moglie si ammalò e divenne fragile e insicura dovemmo rinunciare al nostro maggiore divertimento estivo, la fuga verso il mare. E come ne godevamo, io andavo a prenderla all’uscita dell’ufficio, verso le cinque, e in macchina ci dirigevamo verso Ostia. Lì c’erano ancora spiagge libere e gratuite. Quando lei, in bikini, si allungava sul suo asciugamano e chiudeva pigramente gli occhi, il sole già era obliquo. La spiaggia era del tutto deserta. Io allungavo la mano sotto il bikini, e carezzavo quella pelle soda e liscia. Lei diceva: “Mi piacciono, le tue mani”. Non osavo chiederle a cosa pensasse, mi metteva in soggezione la puntura dell’immaginario, di quella che era stata prima di incontrare me, così casualmente eppure felicemente
****
In casa, ha riempito il vuoto delle ore con gesti inutili e superflui. E’ venuto qui su invito dell’amico proprietario del bell’appartamento, e soprattutto per fuggire l’angoscia che lo opprime continuamente da quando gli è morta la moglie. Ora si gira e rigira sul letto, le ore pomeridiane sono intrise di un silenzio carico di imperscrutabili minacce. Ha provato a leggere, si è portato da Roma libri impegnativi, deve impegnarsi, riprendere a vivere partendo dalle cose difficili che teme di aver dimenticato, o di poter dimenticare adesso che ha perduto il suo centro di riferimento esistenziale, la moglie con cui ha convissuto decenni senza nemmeno accorgersene, e ora gli piombano addosso pesantemente, ponendogli non interrogativi, ma solo risposte inaccettabili.

L’ospite può forse apparire, ai loro occhi, ineducato, perché raccoglie le zucchine sulla forchetta aiutandosi con il coltello, invece della mollichella di pane. Appartiene, prima che a una diversa categoria sociale, ad una diversa categoria mentale. Si sente infatti, tra questi compiti commensali, a disagio.

Dubitò di averla mai davvero amata, sospettò che il loro fosse stato un rapporto di necessità, almeno il suo, necessità frustrante, dal quale non era mai riuscito a liberarsi, per una sorta di viltà.

Invitami, invitami ancora! Ti prego! Ne ho bisogno, ho bisogno di queste cose!” Il treno singhiozzò un poco, poi partì, se lo portò via, cullandolo come un bambino riluttante. Sparirono, come è ovvio, alla prima curva.


giovedì 21 novembre 2013


                                                                           B.L.

Mi rigiro nel letto, assediato da nomi e immagini: Constance Dowling, chissà perché, l'attrice americana per la quale si suicidò, dicono, Cesare Pavese. Altri tempi, nuovi ricordi, tumultuosi. Più o meno a quell’epoca una sera, o una notte, fui chiamato da un amico, al telefono che mia madre aveva appena fatto installare, così anche i vicini di casa potevano venire ad usare il nostro telefono, appeso al muro su una mensoletta, a metà della scala che portava al piano superiore. Siccome la scala non era riscaldata, per andare a telefonare, d’inverno, bisognava infilare il cappotto.

Io me ne stavo in camera mia a leggere Hegel, o Kant, non ricordo. Mi disse che stava male, che andassi a raggiungerlo, aveva bisogno di me. Mi diede anche un numero di telefono per rintracciarlo, all’occorrenza. Uscii di casa, presi uno  o due tram, non ricordo. Traversai Ponte Garibaldi e il Tevere. Non doveva essere una notte fredda, anzi. Mi incamminai per le strada che mi era stata indicata dall’amico, ma non scorsi niente, silenzio e deserto. Trovai una cabina telefonica, mi ci chiusi dentro, la voce che mi rispose era femminile, mi sembrò americana, comunque non italiana. Venne anche l’amico, al telefono, mi spiegò l’equivoco: in zona c’erano due strade dal nome simile, Via della Lungaretta e Via della Lungarina, ci si sbagliava facilmente. Sarebbe sceso lui, immediatamente, per dirmi dove andare. E difatti, esco dalla cabina telefonica e mi avvio nella direzione indicatami dall’amico. La nebbia stava salendo dalle rive del Tevere, forse resa più spessa e lutulenta dai fumi e dai vapori dei detersivi che allora pagavano lo scotto della fretta e dell'avidità e inquinavano parecchio. Infine scorsi l’amico ce avanzava verso di me. Sembrava Orson Welles quando appare, di notte, nella Vienna disastrata e incantata de “Il terzo uomo”: poteva esserlo, eccome no.

Mi strinse familiarmente il braccio, mi ringraziò di essere andato, dopo pochi passi mi spinse verso un uscio stretto, all'estremità arrotondata di un edificio tipico della zona, lievemente rococo. Salimmo non so quante rampe di scale, non molte peraltro, mi fece entrare in un portoncino dipinto di verde e oro, con figurine tipo una scenetta d’amore contadino, villereccio, con veneziane e veneziani nei loro costumi lascivi, ecc., ma dipinta, mi parve, di recente. Erano appartamenti decorati e ammobiliati per attori, attrici e attricette che allora calavano a Roma fin da Hollywood, in cerca di esotico, forse di un decantata ingenuità e freschezza di sentimenti, ecc., di cui l'Italia era ritenuta, non so quanto credibilmente, depositaria. Constance Dowling, per dire, doveva essere di quella pasta. Entrai comunque, e mi si fece davanti la padrona di casa, una attricetta inglese che conoscevo più di fama che per averla vista in qualche film del tipo peplum, che allora andavano. Non era Constance Dowling, forse era di un gradino più sotto. Ricordo il nome, ma scrivo qui solo le iniziali, B.L. Era avvolta in un chimono che suppongo originale, di un bel rosso bandiera, adornato di draghi ed altre figure di quel pantheon, d’argento o d’oro, intrecciati.  Immaginai, e forse era nel vero, che sotto fosse nuda.

L’amico era di casa ma anche servizievole. Mi mise in mano un bicchiere di bourbon, alle sue prime apparizioni sulle sponde del Tevere. Vedevo, oltre il parapetto del fiume, la casa di Milton Gendel che allora a Roma contava parecchio, era come il guru della colonia artistIca americana. Lei si distese su un sottile sofà - o una chiase-longue - io mi sedetti di fronte, accanto l’amico, mi pare su un puff. Allora usavano. Lei parlava discretamente italiano, il mio inglese faceva schifo, l’amico traduceva, quando necessario.

Mi chiese, con garbo, cosa facessi, io  le spiegai che il suo amico mi aveva chiamato al telefono, nella notte, e aveva osato spacciarsi come infelice e depresso, quindi bisognoso d’aiuto, e poiché io credevo di essere il suo unico amico  gli avevo creduto, ed eccomi ora lì, sicuro però che, tra i due, ero io l’infelice, bisognoso di soccorso spirituale e morale, e proprio non capivo cosa il mio amico potesse pretendere da me, che più che il sesso conoscevo la “Metafisica dei costumi” kantiana. Chiacchierammo a lungo, anche amabilmente, trovai in me l’energia della fatuità che è incredibilmente dispendiosa: tanto che, dopo un’oretta o poco più, tra l'emozione per l'ambiente e l'incontro, ma soprattutto per il bourbon, ero sbronzo. Mi accomiatai, non ricordo se mi offrirono un tassì. Forse arrivai a prendere il tram, magari era l’ultima corsa. Mi ricordo che quando scesi barcollavo e dovetti farmi forza per trascinarmi fino a casa. A casa dormivano tutti. Dovetti battere i pugni sul portone perché qualcuno venisse ad aprirmi.  Non avevo la chiave, mio padre non voleva che ce ne fosse in giro più di una copia, aveva il terrore dei ladri, come delle tasse e delle assicurazioni. Aprirono, finalmente, dovettero vedermi malconcio, mi spogliarono e mi misero a letto. Avevo le estremità, le mani e i piedi, atrofici dal freddo e dai liquori; suppongo che il sangue vi si fosse arrestato. La sgualdrina che allora frequentava casa come donna delle pulizie mise sul fuoco pentole e pentolone, in quell’acqua bollente gettò a scaldare stracci e panni e con questi vennero avvoltolate le mie estremità, del tutto ormai inerti... Intorno a me scorgevo appena i volti ansiosi di tutta la famiglia. Mi parvero grotteschi, più che miserabili. Ma io scorsi allora, in quelle facce, tutta la merdosa miseria del mondo, scoprii le loro illusioni, misi a nudo, scorticai, tutta la loro umana infelicità e tutta glie le scaricai addosso, balbettando e piangendo: lo feci non per cattiveria, ma perché ne avevo il cuore gonfio, e non reggevo più, da solo, a tenerle dentro, certe cose. Fu una notte spaventosa, quella, davvero...

Anni dopo la rividi, l'attricetta. Stavo pranzando a un ristorante nella piazzetta sotto la casa di lei, ma di sicuro non pensavo a lei. Ero in compagnia di quella che poi è diventata mia moglie. L'attrice ci passò accanto, ovviamente non mi riconobbe. Aveva al guinzaglio un cagnolino nero. Era molto ingrassata.



sabato 16 novembre 2013

                                               IL GATTO


Il gatto era da qualche tempo scomparso: non appariva più, la mattina, attraversando a balzelloni in diagonale il prato; non lo scorgeva più, da dietro i vetri della porta-finestra, mentre con l’occhio fisso e attento lo seguiva nel suo aggirarsi nella cucina sorseggiando il caffè - per esigere subito dopo, con pazienza intollerante e inflessibile, la quotidiana razione di avanzi o l'apertura di una nuova scatoletta. Eppure si faceva notare, quel micione - era a suo modo maestoso, nero con una placca bianca sul petto, quasi un'apertura sul vuoto senz’anima della bestia.

In vestaglia, in piedi davanti alla vetrata, preparò come il solito il caffè e lo sorseggiò lentamente. Il cielo era quello di una mattina amarognola e senza promessa di sole, i cipressi disegnavano le nuvole, le colline erano appena rivestite di verde, le roverelle avevano foglie di fiamma, qualche rosa generosa ancora fioriva, spampanata. Un paesaggio autunnale, però simpatico, dopotutto. Ma lui avvertiva un vuoto fastidioso, estraneo alle sue consuetudini, dunque a quella meditazione sulla vita che egli conduceva, con la memoria degli avvenimenti - lontani o vicini però sempre vivi, anche i più insignificanti  - coltivati assiduamente durante l'intera giornata, appena gli riusciva di tralasciare le consuete faccende e chiudersi in se stesso. Decise di uscire, subito appena possibile, per una passeggiata. Senza mèta, un vagabondaggio nei dintorni, tra stradine, prati e dossi coperti di ginepro spinoso. Non se lo confessò apertamente, ma forse sperò di incontrarlo, il suo gatto preferito.

Nella zona, i gatti abbondavano. Ti ci imbattevi anche lontano dal paese, mentre si aggiravano con il loro passo felpato e ondulato, solitari. Erano gli stessi che ogni mattina lo attendevano, fin dall’alba, sul breve terrazzino, finché lui non gli aveva buttato una manciata di cibo, una mezza scatoletta, l’avanzo della cena del giorno prima. A volte si stringevano in un gruppetto, a volte - come sempre diffidenti e ostili l’uno all’altro - si presentavano da soli. Lui si divertiva a quella presenza selvatica e accanita, amava la impaziente mobilità delle bestiole in caccia di cibo, loro che poi, appena soddisfatte e saziate, si allungavano pigramente tra sole e ombra e lì sonnecchiavano per ore con le orecchie vive e mobili come radar, attente al più sottile movimento, fosse anche quello di una lucertola minuscola, quasi una neonata!, in esplorazione sul mondo, testimonianza di una vita sempre rinnovantesi ma che il gatto avrebbe spietatamente messo in forse, aggredendola d'un balzo, appena appena avesse colto  il fruscio della sottile coda contro una fogliolina secca... 

Camminò abbastanza a lungo, si spinse un po' più lontano del solito, buttò gli occhi  nelle pieghe più oscure delle siepi, dietro ogni anfratto e ciuffo verde attendendosi di vederlo saltellare e zampettare, scuffiando e sogguardandolo di sotto in su, di sicuro riconoscendolo ma sempre tenendosi lontano, con la diffidenza propria di quelle bestiole solitarie. Niente. Scorse altri gatti, piccoli o grandi, ma non quello, il suo preferito.

I giorni passarono, il gatto non si presentò più sul terrazzino, a riscuotere il suo obolo. Dovette convincersi che qualcosa era successo, forse l'irreparabile.

                             *

Finché, un pomeriggio, nel fossatello asciutto di una delle stradine che portavano fuori del villaggio scorse un mucchietto di pelliccia stazzonata e sporca. Era quanto restava del gatto. La morte lo aveva rattrappito, immiserito: l'occhio era aperto ma vitreo, i denti, tra esangui gengive scarnite, erano sporchi di terra, le zampe irrigidite in una posa senza grazia. 

Dunque, la bestiola era morta. Non sarebbe mai più tornata, trafelata,  a mendicare dolcemente il cibo che gli era dovuto in virtù della sua esigente consuetudine. Un'altra vita si era spenta, di quelle in cui specchiava la sua e che confortavano lo scorrere dei suoi giorni in una attesa - serena, industriosa, fitta di imprescindibili piccole cose quotidiane - di quella fine che non poteva essere lontana, con la quale si poteva solo giocare in un pacato rimpiattino perché di essa nulla sapevano, né lui né gli altri, né tantomeno il gatto stesso. Sarebbe vissuto, ora, senza quell'apparizione sempre troppo sollecita. Gli parve un amaro sacrificio, anche se si ripromise di non doverne parlare con alcuno, per non essere frainteso o preso in giro, perfino.
                             
 Ma come poteva esaurirsi e scomparire, una vita? Come poteva, lui, fare a meno di una vita così significativa come era, per lui, quella del gatto? Per lui e forse lui solo, ma già questo doveva pur pesare qualcosa, doveva pur voler dire qualcosa. Una vita che significhi per qualcuno non può scomparire così nella voragine dell'annullamento. Il fatto che un essere significhi, che divenga un soggetto per qualcuno, per qualcun altro, non può esser completamente una beffa di inutilità. Quella vita aveva significato, aveva espresso modi e sfumature che ne avevano fatto (sia pure per lui, per lui solo) una identità precisa, divenendo perfino delicatissimo contenitore di speranze, di memorie, di allusioni, di intenzioni impalpabili ma non meno (per lui) vere. Non poteva dunque sparire nel nulla. Un mondo che contemplasse un tale annullamento cieco, un così brutale colpo di spugna, non poteva che essere un mondo inutile.

La morte del gatto gli fu insopportabile, gli divenne fonte di tormentose introspezioni, perché essa palesemente finiva col condannare lui all'inutilità, mostrandogli quanto caduco fosse ogni suo pensiero e persino ogni suo affetto, ogni sua intenzione e attenzione. Che spreco di energia era stato l'affezionarsi, l'attendere, il dialogare, il giocare, il nutrire la bestiola. Per tante mattine, tanti giorni, tanto tempo aveva dedicato una parte infinitesima ma non del tutto infima di sé e del suo fare, del suo tempo e del suo pensare indirizzandolo verso una entità, un soggetto che ora era sparito, annullato, e annullandosi si portava con sé, ingoiandoli nel nulla,  tutti quei suoi movimenti dell'animo, quegli impalpabili accadimenti interiori. Impossibile. Si ribellò come ci si ribella dinanzi ad un furto che subiamo, quando rientrando in casa troviamo le stanze disselciate rispetto all'ordine in cui le avevamo lasciate. Un furto ferisce terribilmente, per questo sconvolgimento, che annulla la parte di noi che è rannicchiata nell'ordine che diamo alle nostre cose. La morte del gatto lo pose dinanzi, per la prima volta, al furto irrimediabile, definitivo, di tanta parte di sé. Vi si ribellò furiosamente.

E allora pensò, per la prima volta, che in qualche parte, in qualche modo, doveva pur esservi un mondo perfettamente identico al nostro, nel quale tutte le essenze, le vite, le entità di questo siano conservate e ripetute nel nel loro preciso e indistruttibile significato. Un mondo in cui le identità non sono annullate e dal quale esse non possono essere cancellate. Ecco, questa sola può essere, pensò, la giustificazione, la  forma possibile (e necessaria) dell'eternità, che giustifichi, col suo esserci, la stessa possibilità, comprensibilità e accettabilità del nostro mondo, della sua inguaribile, inaccettabile, futilità.
                                                                *


martedì 12 novembre 2013


Juan Ramon Jiménez

¡INTELIJENZA, dàme
el nome exacto de las cosas!
...Que mi palabra sea
la cosa misma,
creada por mi alma nuevamente.
Que por mí vayan todos
los que no las conocen, a las cosas;
que por mí vayan todos
los que ya las olvidan, a las cosas;
que por  mí vayan todos
los mismos que las aman, a las cosas...
¡Intelijencia, dàme
el nombre exacto, y tuyo,
y suyo, y mio, de las cosas!

sabato 9 novembre 2013



Ô mort, vieux capitaine, il est temps! levons l’ancre ! »
(«Le Voyage », Ch. Baudelaire)

Parlare del dopo (1). Scusate, non c’è nulla di più piacevole, o anche di più urgente, su cui intrattenerci? Parlare della morte, del dopo! Un domani tanto lontano… Che? Oddio!… Mi chiedete addirittura di parlare del “mio” dopo? Così su due piedi? Facciamo le debite scaramanzie! E metterlo in piazza, suvvia … Io sono molto sensibile, fragile di stomaco. E poi, il mio dopo… Io mi farò cremare, punto e basta.

Parlare del dopo (2). Cosa volete che venga fuori, ormai. Se ne è parlato e straparlato per secoli, peraltro spudoratamente, senza saperne proprio niente! Un mio amico, affiliato ai “Bimbi di Satana”, mi assicura che sulla morte e sul dopo loro ne sanno molto di più di quel che possano vantare i preti. Va bene, balle qui, balle là. Oggi, grazie alla sobrietà della moderna cultura scientifica, quel che viene richiesto nel merito è un referto, non più di cinque, dieci righe su moduli prestampati. Di ciò che non conosciamo cosa di più potremmo dire? Sogni, vaneggiamenti, incubi, cattiva digestione serale, flatulenze da meteoropatici. Sì, la scienza moderna è un grande disinfettante del pensiero: senza preti, filosofi e poeti, la morte è una faccenda semplicissima. Adesso, addirittura, l’attimo e le modalità del suo arrivo sono divenuti un dato convenzionale. Senza rimpianti, abbiamo sbaraccato via l’antichissimo detto secondo cui l’uomo muore quando “il suo cuore cessa di battere”. Era un modo di dire carico di significati extrascientifici, non verificabili, piuttosto sul patetico. Adesso la morte avviene - anzi, viene fissata - al momento in cui cessa l’attività cerebrale. La definizione è del tutto arbitraria, però consente di poter tempestivamente strappare al morto - chiamiamolo così, per approssimazione - utilissimi brandelli da utilizzare per allungare altre vite. Perfino la chiesa concede dilazioni convenzionate - una mezz’ora, un’oretta - per l’estrema unzione. Chi ci rimette è il dopo: senza un orario biologico preciso, senza certezze naturali, mette l’angoscia. Non possiamo più inginocchiarci in raccoglimento dinanzi al letto dell’agonizzante: vorremmo poterlo dichiarare morto per esplicita volontà di Dio, e quindi attaccare serenamente con le preghiere e i rimpianti. L’anima sta lì, impaziente, con le valigie a terra, bussa alla porta del dopo ma questo si apre a orari sindacali. E’ solo con l’avvento delle questioni etiche e sensibili, tipo il testamento biologico, l’accanimento terapeutico, l’eutanasia, o con l’ingresso in campo terapeutico di sofisticate macchine capaci di allungarti la vita persino oltre la sopportazione - come la ventilazione artificiale, la nutrizione per sonda gastrica, eccetera - che il momento della morte è tornato a offrire un qualche brivido, dando adito perfino a eccitanti dispute tra spirito e materia.
Shakespeare, la “Tempesta”. Alla fine del IV atto, Prospero saluta gli spettatori: “La nostra baldoria è finita… Come l’edificio privo di sostanza che è questa visione:…tutto quello che ha in retaggio svanirà, senza lasciare traccia. Noi siamo della materia di cui sono fatti i sogni, e la nostra piccola vita è circondata dal sonno”. Il tragico inglese raccoglie, e trasmette a noi posteri, l’immagine della vita come rappresentazione, spettacolo senza realtà e sostanza: vana materia di cui sono fatti i sogni. Ma se la vita è una “baseless fabric”, apparenza, spettacolo rappresentato su fondali di cartapesta, quale potrà mai essere, che consistenza potrà avere, il dopo di questa messa in scena? Pare che Augusto, morendo, abbia chiesto a quanti lo assistevano: “Ho rappresentato bene la mia parte?” Per i romani la “persona” era la maschera indossata dall’attore, il quale recitava col volto celato da quella. L’anima esprimerà l’identità della maschera - la “persona” - oppure quella dell’attore che le si nasconde dietro?
Alla morte si addice l’aforisma. Come l’epitaffio inciso sulla lapide della tomba canoviana sulla quale si abbandona, reclinata, la fanciulla “rorida” di lacrime (sembra uscita da un bel verso foscoliano o leopardiano) l’aforisma è marmoreo, immutabile e definitivo, senza tempo e spettrale: ha il timbro perfetto per introdurci al dopo.
Ho dimenticato in quale sequenza vadano disposte le due icone, il “Trionfo della morte” e il “Trionfo del tempo”. Mi chiedo, ansiosamente: è la morte che trionfa sul tempo o, invece, è il tempo che trionfa sulla morte?
Pare accertato: l’uomo non è più una belva, o bestia, da quando ha cominciato a seppellire i suoi morti invece di abbandonarli lungo le piste delle savane. Il seppellimento è cerimonia, innalzamento della morte nella sfera simbolica, linguaggio. Con la sepoltura, il morire significa. Significa, anzi, qualcosa di inquietante. Il vivente sente il morto come “altro”, e questo “altro” lo allarma. Allora pone accanto al suo corpo doni gratificanti che lo accompagnino, lo intrattengano. Il vivente si è fissato che quello là possa riapparire, chiedergli qualcosa, forse ricattarlo, minacciarlo di prenderselo con sé, di portarlo via nel suo mondo, che è un mondo alla rovescia, il negativo del mondo dei viventi. Bisogna assolutamente impedirgli di tornare, di rifarsi - come dire - vivo. Ma questo temutissimo tornare è già di per sé - chi lo avrebbe detto? - uno scacco al dopo. Il possibile ritorno dal mondo dei morti a quello dei viventi demistifica, svalorizza il dopo, quel luogo vagheggiato che immaginiamo nobilmente abitato da spiriti, ombre, anime. Queste sono infelici, senza pace, si annoiano, il loro trasparente pallore non può dare, né ricevere, amore. Non stupisce se sono sempre prontissime a ritornare sulla terra. A rifletterci bene, loro stesse negano il dopo. Dicono, anzi gridano che ciò che conta non è il dopo, è la vita fatta di carne e ossa, e dunque esse aspirano a ritornarvi. In Virgilio le ombre, all’imboccatura dell’Averno, fanno a spintoni per poter bere il sangue, sugo e calore vitale, che Enea gli offre perché parlino. Mi pare che anche nella concezione cristiana del Giudizio Universale si insinui l’aspirazione all’annullamento del dopo, al ritorno a questa vita, addirittura svincolata dal tempo e dai suoi limiti. Si prega Dio, “dona loro la vita eterna”: mica una morte eterna.

Adesso ci si mettono anche le diavolerie (?) telematiche. I siti, google, “You Tube” e finalmente “Second Life”: una “seconda vita” fantastica, molto meglio, più “handy” delta logora triade di inferno, purgatorio e paradiso. Sta lì, distante da noi solo di una cliccata, e soddisfa tutti i desideri e le fantasie, un gioco di “Monopoli” mobile, interattivo e reversibile. E’ una “second life” che ti puoi godere durante la prima vita. C’è il sospetto che tra non molto l’intera umanità si trasferirà nel villaggione telematico riproducendo a puntino il mondo dei viventi, un po’ come già adesso ci capita, senza che lo sappiamo, con “google earth”. Divenuti pura energia inconsumabile, saremo finalmente immortali.
Sono molto arrabbiato per la liquidazione per decreto del limbo. Un vero errore. Togliere ai bimbi il limbo, è come togliere loro “Biancaneve e i sette nani”, quella di Disney (il limbo, un fanciulletto se lo immaginava così). Da piccolo, soffrii parecchio sulla sorte di un infante, figlio di vicini di casa, morto poco dopo esser nato. “E’ andato nel limbo degli innocenti”, commentò mia madre, e mi fece piangere. Sentii attorno a me, al mio piccolo cuore infantile, aleggiare il profumo dei gigli che adornavano quel corpicino. Invidiai una morte così pura, ero consapevole che essa era ormai impossibile per me: la mia innocenza cominciava precocemente a incrinarsi. Che dolci lacrime furono quelle! E ora, bruscamente, apprendo che la patria dell’innocenza non c’è più, anzi non è mai esistita. Voglio essere risarcito di questo scippo. Non c’è però solo la perdita del limbo. L’affabulazione cristiana si impiglia nella sempre più diffusa difficoltà, se non impossibilità, di concepire (e fare accettare) il dopo come il tempo deputato al giudizio riparatore, alla restaurazione della giustizia offesa e disattesa nella vita, come ci viene raffigurato dall’Orcagna o da Dante, per capirci. Il riscatto ultraterreno, il paradiso offerto a colui che ha patito ingiustizia, al povero, al reietto, a chi si è visto spogliare di tutto dalla violenza e crudeltà degli uomini e si affida alla promessa di non essere costretto, come il ricco, a passare per la cruna dell’ago per essere risarcito, il paradiso intravisto come giardino di delizie che soddisfi in compiuta abbondanza i desideri ingiustamente inappagati e repressi (“perché mi sono negati? perché solo a me?”); e d’altra parte l’inferno, quale esatto rovescio del paradiso nel quale ficcare tutti quelli che odi, che invidi perché più belli, buoni e bravi… Tutta una mitologia che ha perduto ogni credito. Il pareggio dei conti con la giustizia lo vogliamo in questa vita, nessuno ha tempo di aspettare, competition is competition. Il dio che siede come giudice buono sullo scranno nella basilica luminosa ed eterna non ha appeal. Mi pare che ormai il cristianesimo tenda a superare questa concezione, a liquidarne le difficoltà ed incongruenze, parlando sempre più, invece, del dopo come il tempo del trionfo dell’amore, dell’amore luminoso in cui l’anima si dissolve per fondersi in Dio. Qualche teologo insiste - secondo l’etica capitalista - sul concetto di retribuzione secondo i meriti e non secondo i bisogni, come vorrebbero certi attardati socialisti, ma resta inascoltato. Non fosse per quell’aggettivo - misericordioso - che viene attribuito, come sua essenziale parte, all’amore divino, questa forma del dopo paradisiaco sembrerebbe una vittoria, o vendetta, del neoplatonismo.
Nel dopo, non c’è più bisogno della privacy: diciamocelo, la privacy, come il pudore, ci serve - e comunque ci è utile - per nascondere i nostri peccati, le nostre vergogne. Le anime vanno in giro nude, meno che nella Cappella Sistina.
La morte è un racconto raccontato da altri. L’atto supremo e conclusivo del vivere non appartiene al suo protagonista. Chi muore, diventa dominio di altri. Sono loro a raccontarne la morte, a raccontarla come loro la vedono, la soffrono, addirittura come la vivono. Quello che noi sappiamo della morte è in questi racconti, i racconti degli spettatori dello spettacolo.
Ho avuto esperienze già infantili della morte. Di quella strana, incomprensibile faccenda mi sono raccontato più volte la storia. Cercavo spiegazioni con la pignoleria dell’incoscienza. Ma quelle mi si rifiutavano quando ammazzavo a sassate la lucertola, che agonizzava a lungo con le budella di fuori, la coda tremolante. Il dopo della morte era già lì davanti a me, non richiedeva spiegazioni, non c’era più nulla da dire. Ricordo quando mi morì la biscia che avevo esposto incautamente al sole dentro un contenitore inadeguato. Le bisce le afferravo con le mani tra i canneti e le stoppie, vicino al Tevere, le nascondevo sotto il letto. Quella morì, e ne portai a lungo un atroce rimorso. Ma per quanto ci pensassi, per quanto mi ci arrovellassi, mi veniva alla mente sempre e solo quel momento, il momento del decesso, la cronaca di quegli istanti di orrore. Anche per gli uomini, più tardi, il dopo della morte è stato per me racchiuso nel ripetersi, sempre identico, dei momenti successivi alla morte, quel che vedevo svolgersi lì intorno nella stanza, in quel silenzio strano che incombe, pur se percorso da mille inconfondibili rumori, attutiti e soffocati, perfino nell’odore che ristagna a lungo. Sì, sospettavo che quei momenti nascondessero strani segreti, qualcosa d’altro a me ignoto, adombrato e pronto a dileguare appena percepito. Io però non volevo saperne, e nascondevo la testa quando quei segreti minacciavano di uscire fuori, di rivelarsi. Forse non volevo assumermi responsabilità: forse, ancor peggio, non volevo crescere. Chi non ha provato, almeno una volta, questa straordinaria sensazione, o tentazione?

Morì, non ero ancora un adolescente, mia nonna. Mio padre mi chiamò in disparte, mi sussurrò che era morta sua madre. Viveva con noi da quando era rimasta vedova. La salma venne vestita dalle donne di casa. Pochi, del vicinato, erano venuti a depositare due fiori, a recitare giaculatorie dinanzi al grande letto. Fui finalmente ammesso nella stanza. Vi restai a lungo. Anche solo, nel primo pomeriggio, mentre la stanza si appesantiva sempre più di odori strani, stramortiti, misti di fiori appassiti e di candele sgocciolanti in serpentine, fino a terra. In casa tutti dormivano, e io osservavo con ribrezzo il profilo della defunta, chiuso nei suoi incolmabili pensieri, farsi sempre più grifagno. Mi intimorì, mi riempì di antichi terrori, mi richiamò a quella pratiche religiose che a lei erano usuali e che io a volte avevo tentato di imitare. Raccolsi dal comodino a capo del letto un libro di preghiere, con la copertina nera e l’orlo delle pagine dorato. Lo aprii a caso, aveva bellissimi caratteri e i capolettera rossi, incorniciati da un filetto d’oro. Io pensavo che fosse nell’oro il senso loro più intimo e, almeno per me, inimitabile. Quelle pagine mi attiravano sempre, le scorrevo con attenzione compunta. Cominciai a leggere, a recitare gli inni, le giaculatorie, le orazioni: “Kyrie Eleison - ora pro nobis”, “Sancta Maria, mater gratiae - ora pro nobis”, “Christe, eleison - ora pro nobis”. Sedevo sulla poltrona a fianco del letto. Il letto aveva la testiera metallica patinata di marrone, la coperta color vinaccia con una trina di ghiande che pendeva sfilacciata. Il corpo della nonna era di una immobilità infinita. Mi alzai di scatto, estrassi dalla tasca le palline di resina ambrata che avevo raccolto dagli alberi del giardino. Ne presi un paio, mi avvicinai alla morta. Mi tremavano le mani, la morte era un gelo inspiegabile. Riuscii a sollevare un poco il dito avvolto attorno al rosario con il crocifisso, deposi le due palline di resina. Il dito si richiuse sul dono. Rimasi qualche istante immobile. Mi sentii liberato, innocente di ogni colpa, non solo verso la defunta.
L’errore della modernità, del laicismo postilluminista, è stato di pensare che, con l’avvento della ragione, il progresso delle scienze, l’evoluzione della società, la paura della morte sarebbe scomparsa, assorbita in una razionale comprensione e accettazione dell’evento. I lumi avrebbero scacciato le tenebre dell’ignoranza superstiziosa. Conoscete Goya, quello de “il sonno della ragione genera mostri…”. Cartesio pone al centro delle certezze lo “Io cogito” che mette fine all’irrazionalità di una storia fatta di errori, di menzogne del potere, di mistificazioni operate da preti e ciarlatani. Tutto vero, ma anche tutto reversibile: anche la ragione, e i suoi sacerdoti, possono produrre mostri e mistificazioni. Contro il nuovo inganno, si levò subito la grandiosa saggezza storica di Vico, che esaltava “le are e templi” come costitutivi dell’umano fare: l’errore è parte della storia e, se si vuole, pure la menzogna. Dunque, anche la paura della morte, l’immaginario del dopo, ha una sua verità. Consentendo alla modernità, imponendo la fine dell’elaborazione culturale della morte, irrisa come pregiudizio, superstizione, inganno dei preti, abbiamo aperto la strada alla sociologia o alla psichiatria. Ovviamente: non si può mica pretendere da tutti il disincantato pessimismo degli stoici, con la loro lucida teoria del suicidio come porta della libertà.

“Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male”.
(“Cantico delle Creature”, S. Francesco)







Hieronymus Bosch, olandese, 1450-1510, le punizioni infernali delle anime prave
Adesso, se verrà accolta alle nazioni Unite la moratoria della pena di morte, ci mancherà anche quel formidabile repertorio di immagini, sensazioni e mitologia che erano le riprese, le ricostruzioni delle esecuzioni capitali in USA, con il “dead man walking”, il “braccio della morte”, lo spettacolo attraverso i vetri offerto ai vendicativi, insaziati parenti della vittima. L’industria cinematografica americana perde un bel “topic”…

Pieter Brueghel il Vecchio, il “Trionfo della morte”, 1562, E Dürer, con i suoi scheletri a cavallo che falciano, falciano (simbolo agricolo, oggi forse incomprensibile)

Forse, il primo mio incontro con la morte fu per mia nonna

Spoon river antology



Come a Piazza del popolo, le tricoteuses.
Murat e Ischia,


                        
Siamo legittimati dal tempo,dalla sua durata. Non possiamo fare a meno del tempo, e dunque aspiriamo, conseguentemente, all’eternità, per non essere sottratti al tempo e dunque scomparire. Il nostro io non lo sopporterebbe: ecco perché abbamo scoperto, ci siamo inventati l’eternità, che è semplicemente un dopo infinito.
Il potere e la morte. Il tragico ha come orizzonte la morte, il comico no, solo la vita.
Morire non è, dunque, per la specie umana, un semplice passaggio di stato, come vorrebbe – come ha tentato di convincerci l’illuminismo, il laicismo, il progressismo, cone le loro campogne contro le fole dei credenti. La morte diventa il punto conclusivo di quell’eterno presente in cui siamo immersi, incomprensibile cesura che non è cesura, perché il morto continua a vivere con noi, ecc.
Scomparsa del memento mori

Yorick, sul teschio, canto della vita, ecc. il teschio e lo scheletro, nel medioevo e nella controriforma. Nel rinascimento, lo scheletro diventa un referto di anatomia. Poi, Murat, cimitero dei capuuccini, ecc., fgià appunti esistenti, copmpreso canova.

Che ne so io, dei miei percorsi? I miei percorsi mi attraversano.
L’amore misericordioso: dove solo il misericordioso non è neoplatonico
Accorgersi che la morte è un male collettivo, di massa, scandito da una conta. Oggi, c’è per noi l’acuta percezione di essere anche noi, nel morire, nulla più che un numero.
Perché pensare che la filosofia possa essere consolazione della vita, consolazione dalla morte?
Ci sfugge la sua verità, quella che si esprime nella sua attualità, nel suo presente, nel suo presentarsi a noi. C’è un detto, attribuito non so se a uno stoico, a un epicureo o a un cinico: quando sei vivo, la morte non c’è, quando c’è la morte, tu non ci sei più; e dunque, di che preoccuparsi? Ce ne preoccupiamo, invece. Preoccuparsene forse è un male, una esagerazione pagata con disturbi di vario genere: occuparsene, almeno un poco, mi pare invece un bene, una attività non priva di utilità. Persino di segreti, magari inconfessabili, piaceri.

11356
Pannella non pensa al dopo
"Estote parati", lesse.



La morte, ridotta a fatto personale….
Perché il dopo è puro immaginario. E’ sublime creazione, anche essa, dell’uomo. E’ il senso vero del simbolismo di Foscolo, sicuramente più ricco del tetro romanticismo di Thomas Grazìy. Gli inglesi sono maestri nel progettare i cimiteri, lì, tra quel verde e quelle lapidi corrose, mai o rarissimamente pompose, ildopo è proprio a fianco dell’oggi, la morte si fa percorso per i viventi, i viventi passeggiano tra i morti. Dovrebbero non averne paura, ma la letteratura nera, dell’orrore, è anche essa britannica. Il “dopo” delle tombe del canova, delle urne di Thomas Gray o di Keats e Shelley,,,,, L’abisso diventa un retroscena su cui si staglia l’ombra del convitato di pietra, il commendatore di Mozart, deposito di tutte le nostre colpe, ecc.
Non è la vita, forse, ad essere un sogno, ma la morte.




“Appunti per il dopo”: allegria di naufragi... L’anno scorso, il tema propostoci era la concupiscenza. Furbamente, io mi sono aggrappato a Sant’Agostino o a San Tommaso, con qualche spruzzata di roba greca. Ero obbligato, e tutto era facile. Quest’anno, come evitare, ahimè, di impigliarsi nei parati nero e oro della controriforma? Prima della controriforma, c’era un “dopo” disegnato per le plebi, un po’ rozzamente, dagli affreschi dell’Orcagna o del Signorelli, Michelangelo aveva conferito una grandezza classica al tema del Giudizio Universale, che è il “dopo” per eccellenza di ogni credente, ma ancora si era nella sfera della classicità, riservata agli addetti ai lavori, le classi colte, i signori della terra, clero o laici che fossero. Con la controriforma tutto questo pacco di riferimenti viene abbandonato, e le plebi come i signori vengono posti di fronte ad un unico orizzonte di destino, quello cupo ed infero di cui resta traccia in certe tombe barocche romane. I cappuccini infieriscono, inventano l’apoteosi, la rappresentazione sacra delle loro cripte, nelle quali un ossario degno di Pol Pot fissa occhiaie vuote e febbrili su una umanità di peccatori, di orantim, di incappucciati, di flagellanti riemersi dal fondo del medioevo più nero per invadere ogni sentina dell’immaginario.

C’è anche un risvolto classico.
Il salto nel vuoto di Thelma e Louise con l’auto, quello di Jules e Jim con…, sono un suicidio?

E’ più complesso….

Durkheim

L’anoressica

Si può vivere senza la percezione del dopo? Del tempo? Il presente (attimo, sei bello, Goethe) come tempo assoluto. Il futuro è compreso nel presente, come attesa, il passato come memoria, funzione, anche essa, del presente.

Il cimitero dei cappuccini a Roma, la cripta dei cappuccini a Vienna, perché i cappuccini?

Poi: i crani di Pol Pot e delle epurazioni etniche in jugoslavia




L’esistenzialismo. Noi siamo dati alla morte

Fare un pout porri da Shakespeare, la scea dei teschi, ecc., poi la cripta dei cappuccini a Vienna e Ischia, e Via Venetonaturalmente, potrei anche immaginarmi chde uel che faccio, vedo, sono, ecc., è tutto un mio sogno, (Vida es sueno) immaginazione, Shakespeare, ecc. compresa la Storia( !), il reale, ecc.

Non c’è nulla che mi dia il senso dell’offesa quanto il corpo di un morto, abbandonato alla mercé di altri.

La morte ha per me l’aspetto di un’opera canoviana

             C’è un prima, pomposamente detto storia, origine. Un 
adesso, che sarebbe l’ora presente e sfuggente. Un dopo. E’ del dopo 
che vorremmo parlare. Su un giornale quotidiano, ma con 
quattordicimila battute di computer a disposizione. Come sempre, 
scriverne  in modo libero, questo vorremmo. Nella forma di appunti 
personali, se lo si voglia. O in altra forma. Il dopo è semplicemente 
immaginazione, rimozione, prefigurazione, letteratura, filosofia, 
teologia, science fiction (la scienza esatta ne sa nulla). Offre 
inquietudine, che è una buona cosa. Oppure l’idea del riposo, che è 
un’altra buona cosa. Con il dopo la maggior parte della gente convive 
irriflessivamente. E che cosa c’è mai di più irriflessivo, di più 
scaramantico, di più futile e anche edificante della preghiera del 
mattino recitata nella scrittura e lettura di un giornale quotidiano? 
In Aristotele il tempo è “il numero del movimento secondo il prima e 
il poi”, un numero. In Platone un’immagine, “immagine mobile 
dell’eternità”. Si tratta di scegliere, e di pubblicare e firmare una 
pagina che tutti leggeranno. Perché la gente è curiosa degli appunti 
personali e, nonostante tutto, vorrebbe essere informata su quello 
che sta dopo.