“KISS
ME BABY”. Insegna che si accavalla sulle
due porte, ma negozio impari alla promessa. Negli stigli, capi di
abbigliamento per bambini a festoni, infilati con spilli alle pareti,
rivestite di ruvido tessuto di colore neutro. Il titolo, o le parole
di una canzone che immagino ascoltammo da Jackson o …, viatico ad
una mercanzia di innocente esibizionismo. L’inglese usurpato: su
una lingua che aspira all’universalità o almeno alla
globalizzazione, si abbatte il contrappasso di distorsioni caserecce,
per le quali nessuno chiederà mai scusa. Trovarobato lessicale,
familiare traffico di parole senza dazi, rubacchianenti e sfregi
imputabili a una ignoranza che è impotenza non accettata, e dunque
rimossa; violenze semantiche per le quali occorrerebbe reclamare, per
giustizia o per opportunità, se non altro, e che diamine, il turista
ne ride. Società emergenti, recenti, nella media periferia romana,
nella cintura non, o non più, borgatara, calderone delle
contraddizioni di un mutamento ancora un po’ febbrilmente in atto
ma già incanalato in forme, nell grandi linee, ben distinguibili. La
Magliana, una sera di settembre ancora tiepida. Vi si piomba per
caso, attratti da una insegna di gelatiere color blu o dallo
sfolgorare di luci apparse d’un tratto all’angolo di una arteria
di scorrimento troppo buia, invece.
Strada
di larghezza insolita, persino spropositata, dritta ma dunque tozza,
tra i palazzoni. Nastro ininterrotto di negozi, riverberi di neon in
ghirlande e pergolati vividissimi, sullo sfondo delle facciate;
sotto, ambienti che si coagulano dietro un fulgore accecante, dove i
colori più vistosi si smorzano l’uno nell’altro. Oltre l’alone,
una barriera di macchine in sosta, parcheggiate fin sul marciapiede,
riduce la carreggiata a percorso zigzagante tra un bugnato di cofani,
spoiler, fari, ruote disassate, calandre e musi leporini in acciaio e
plastica. Il festone dei negozi corre al piano terra dei palazzi, uno
seguendo l’altro come i fotogrammi di una pellicola, per la
lunghezza della strada. La gente entra ed esce, con naturalezza:
comprare è abitudine collaudata, indizio principe di un primo
benessere, ma irreversibile. Abbigliamento per bambini, rosticceria,
pizzeria, gelateria, audiovideo, computer. Il caffè, il
radioriparatore. E la TV. Poi ancora rosticceria, pizzeria,
gelateria, tabacchi. Articoli sportivi.
Universo
dello scambio a livelli elementari, in presa diretta sui bisogni o su
una cultura del saziarsi: il mangiare, il bere, il succhiare, il
dolce e il salato, il freddo e il caldo, la bocca, le mani, le
labbra, le orecchie. Forse, il culo? Certo, da un po’ il sesso, e
tutti i sensi si riempiono a festa, dopo secoli di esclusioni. E i
bambini, giustificazione, fine inconscio (o esibito?) di un modello
di vita sorprendentemente restaurato e vitale sulle macerie di
lontane crisi e rivolte, storiche ormai e forse già illanguidite e
dimenticate tra sospetti. La famiglia, con tutte le sue inquisitive
tirannie, di nuovo trionfanti, beatamente, o inquiete. L’eccitazione
quasi visionaria con cui si saluta l’acquisto dell’abitino del
pupo, ancora “bello di mamma tua”; nulla di seriamente
utilitaristico in questo negozio popolare, ma anzi profusione,
grandezza, lusso, eccesso, scialo, spreco: ghingheri, fiocchetti,
scarpine, calzettini, golfini, blusettine, cosettine. Più in là,
nel negozio di articoli sportivi l’identico gonfiarsi di aggettivi
straordinari si ripete, questa volta per i grandi, o i
grandi-bambini: lo sport non è ritorno alla natura, ma l’esaltazione
dell’artificiale.
Eccesso
ancora nelle filze di polli che si arrovellano sul forno elettrico,
nelle pile di pizza “rustica” rossa e bianca, al rosmarino o alle
patate, al pomodoro, in varietà di sapori, di colori: una
sovrabbondanza sontuosa o sontuosamente povera reminiscenza di una
povertà che si rinnova e si impone anche in mezzo ai nuovi modelli
di vita, e al nuovo benessere. E la salumeria coloratissima, piena di
barattoli, di scatolette, di vasetti, di intingoli immersi in oli, in
sughi, in pomodoro, salse esotiche, spezie scure. I colori
stuzzicanti sostituiscono i sapori inscatolati, e gli odori,
irraggiungibili. Anche i gelati, nel negozio subito a fianco,
sostituiscono con i colori i sapori, indistinguibili o quasi
nell’artificiale raggelamento della lingua e delle sue papille.