giovedì 30 maggio 2013

IDENTITA'
da "Il Foglio, 30 maggio 2013

L'atroce sgozzamento di un soldato a Londra, il proditorio ferimento di un altro militare nel quartiere parigino della Défense -  opera, l'uno e l'altro crimine, di fanatici islamici - sono segnali inquietanti, se non anche sconvolgenti, che mettono ulteriormente a repentaglio le possibilità di convivenza tra le diverse culture ormai stabilmente incardinate nelle nostre città. Non ci volevano proprio, mentre è ancora bruciante il ricordo della strage tentata dai due fratelli ceceni durante la maratona di Boston. Si verificano disordini, sentimenti e giudizi sono accesi - tra l'intransigenza vendicativa e il tentativo di superamento ragionevole, se non razionale, delle conflittualità messe a nudo. L'ovvia domanda è: ma questi orrori si ripeteranno? Sicuramente, anche nelle forme più estreme. Sono del resto, essi stessi, conseguenze e ripetizioni, o accentuazioni, di una infinità di gesti analoghi, di cui la cronaca internazionale è piena da anni. "Terrorismo, terrorismo!" gridano privati cittadini e responsabili uomini politici. Sarà: però io, senza esitazioni, aggiungerei alla lista anche il suicidio di  Dominique Venner, l'intellettuale francese che si è sparato a Notre Dame per protesta contro l'approvazione di una legge per il matrimonio gay. Nella loro differenza di motivazione, questi eventi hanno qualcosa in comune: fanno tutti riferimento, dichiaratamente o meno, ad un tema specifico e preciso. A me lo ha evocato proprio Venner quando, nella lettera consegnata all'amico perché venisse letta dopo la sua morte, dice: "Io difendo l'identità di ogni popolo nella sua terra, mi ribello al crimine che ha per obiettivo di sostituire il nostro popolo". La chiave del ragionamento è nella parola "identità".

Il problema dell'identità è, per l'uomo sempre incombente, stringente e drammatico, capace di spingere ad ogni gesto, anche il più folle, come vediamo. E non vi è dubbio - Venner è esplicito, il gridio dell'islamico  inglese è confuso e ossessivo ma non lascia dubbi - che le violenze di cui mi sto occupando siano state compiute in difesa di una identità sentita come insidiata nelle sue radici. Il suicida di Parigi non poteva sopportare l'idea che i diversi, i gay, possano essere livellati e “identizzati” con coloro che, a diritto o no, sentono di intrepretare la ”normalità” (e non è il solo a pensarlo, nella Francia laicista il corteo contro quei matrimoni ha avuto un bel successo, anche se non ha fermato la legge né bloccato il trionfo ottenuto, a Cannes, da un film di amori saffici). L'islamico inglese problemi di identità ne aveva di sicuro: era, tra l'altro, convertito di recente all'islamismo, e una conversione nasce comunque da una domanda sulla propria identità, alla quale il mutamento di fede vuole essere la risposta adeguata.

Il tema dell'identità va posto al primo, o ai primissimi posti tra quelli che travagliano il mondo di oggi, un mondo in crisi. Ci angustiano, su scala planetaria, problemi economici che esigono l'attenzione di autorità e governi; ma anch'essi in fondo diventano strumentali rispetto al tema, nascosto e forse taciuto, dell'identità. C'è poco da fare, non ci sono leggi o divieti che possano impedire o frenare il formarsi a livello globale di un melting pot etnico, religioso e culturale dai risvolti ancora non ben noti e che finora affida la propria compattezza al circuito dei consumi omogeneizzanti: un processo che mette in crisi, prima di creare, una identità. La risposta che si è inizialmente data al tema delle identità minacciate è stata quella di chi ha invocato lo scontro di civiltà. Chi agitava questa bandiera non lo ha detto apertamente, ma di sicuro intendeva promuovere la tesi che l'Occidente ha il pieno diritto di rivendicare la propria superiorità su qualunque altra cultura, e quindi  il dovere di affrontare la guerra ideologica contro ogni avversario possibile - l'islam in primo luogo - mettendoci tutto l'impegno necessario per vincerla.  Ma tutto ci dice che il risultato sperato non è stato raggiunto.

La ideologia dello scontro di civiltà è forse l'ultima grande "narrazione" del secolo scorso. Quello cui assistiamo oggi, invece, non è un conflitto generale con ben disegnato e visibile il fronte lungo il quale lo scontro ha luogo, ma un tritume di piccoli eventi a livelli individuali, per i quali mi pare fuorviante evocare i grandi miti, a cominciare da quello del "terrorismo". La sequenza dei singoli (di per sé insignificanti) gesti resterà a lungo endemica. Diciamocelo: non c'è ancora nel mondo - nemmeno nel laico, tollerante, democratico Occidente - una politica dell'identità. Si prefersice ricorrere alle evocazioni mitiche, ai richiami a forze oscure, e così via. Giriamo intorno alla questione cincischiando sul termine di "identità" (o di "persona") ma non riusciamo a dare una soluzione ai problemi in ballo, se non la peggiore e più inutile: aggrappandoci cioè ciascuno di noi, per suo conto, alla sua personale idea di identità e di persona. E allora paura, angoscie, perdite di senso ci attanagliano, ci aggrediscono. Possono anche - come stiamo vedendo - farci diventare assassini.

venerdì 24 maggio 2013

NATURA, CULTURA, PAUPERISMO (*)
di Angiolo Bandinelli
 
Tra Marsia e Apollo. Leggo su un giornale una notizia che mi lascia perplesso. Un accademico americano, Marshall Sahlins, si è dimesso dall'Accademia Americana delle Scienze per protesta contro l'ammissione di un altro scienziato, Napoleon Chagnon. Il primo - il giornale chiarisce  - “insiste da sempre sull'importanza dei fattori culturali nel comportamento umano, mentre il secondo studioso privilegia l'idea che tale comportamento abbia una base biologica". Mi stupisce l'inasprirsi della polemica, avevo letto che gli studi del settore erano arrivati ad una sorta di equilibrio tra le due concezioni. Da laico, mi schiero con Sahlins: siamo ancora, a pensarci bene, al dibattito - fondamentale nella civiltà greca classica - tra i difensori del primato della “natura” ("physis") sulla “legge” ("nomos") o viceversa, come simboleggia il mito della gara tra Marsia e Apollo. Da quel dibattito nasce un bel po' della cultura/civiltà dell'Occidente, dell'Europa; seppur capovolto, lo vedremo riesplodere - mi pare - con la scoperta delle Americhe, quando molti esaltarono l'immagine del “buon selvaggio” che vive da innocente seguendo le leggi della natura, in contrapposizione all'uomo che la civiltà ha moralmente corrotto (posso dire, con un pizzico di ironia, che il grillismo mi pare un po' figlio, anche se non con la sua grandezza, di quel Rousseau?). Mettendo da parte gli antropologi, come non ricordare che anche la Chiesa utilizza questi concetti, addirittura in modo dogmatico? Tutta l'etica predicata e imposta dalla Chiesa si basa sui valori "naturali": la famiglia naturale contro il matrimonio gay, la morte naturale contro l'eutanasia perseguita con l'intervento della scienza, ecc. Ed è inutile fare osservare che, se il dibattito antropologico può ancora offrire motivo di controversie teoriche, per quel che riguarda - diciamo - la famiglia è più che accertato che non si possa parlare di famiglia "naturale" riferendosi solo e obbligatoriamente a quella monogamica, e che sul tema della morte la stessa Chiesa ha accettato una sua definizione assai diversa - e del tutto "convenzionale" - rispetto a quella in vigore fino a non molto tempo fa. Lo ha deciso per rendere possibili i trapianti, cioè per non intralciare il cammino della scienza. Si è contraddetta, ma ha fatto bene.
 
Pauperismo. Il pauperismo, culto del mito della povertà, fa moda. Papa Francesco ora lo smentisce ma è sembrato ne avesse fatto l'insegna del suo pontificato. Voleva tendere una mano a quanti - almeno da Dante in poi, credo - auspicano che la Chiesa, o almeno il Vaticano, non sia più il luogo "ove ogni dì Cristo si merca"; era, il suo, uno sforzo di rinnovamento, anche se solo su questioni disciplinari, non certo sui grandi temi teologici o morali: giusto ieri ha chiesto che venga dato riconoscimento giuridico all'embrione umano. Altri applicano i dogmi del pauperismo in ogni campo possibile, a colpi di accetta. Non c'è situazione pubblica in cui non si facciano le pulci in tasca ai detentori di una qualche fetta di potere imponendo loro una povertà coatta, grottesca quanto sostanzialmente inutile proprio ai fini per quali viene richiesta. I moralizzatori fioccano, ma più o meno a tutti loro converrebbe ricordare - magari riprendendo in mano le acute pagine che Franco Cordero ha dedicato all'argomento - come uno dei più rigidi sostenitori di una cultura pauperistico-moralistica scagliata contro fasto e ricchezze, Savonarola, fu in realtà un gretto passatista che non riusciva a cogliere il significato prospettico, innovativo (e laico) del pensiero e dei gusti rinascimentali, pur se non parsimoniosi. E occorrerebbe ricordare anche come un  grande fustigatore delle immoralità della Chiesa, Lutero, giustamente accreditato di intuizioni fondamentali come quella della interiorità della grazia, fu un reazionario a tutto tondo. Il sacco di Roma del 1527, opera di truppe luterane, fu evento detestabile, ed è sperabile che una qualche voglia di ripercorrerne i (mis)fatti non metta radici nella testa di uno dei nostri avventurosi pauperisti.
 
Post Scriptum: mi capita di leggere, su "La Repubblica", un breve testo di René Girard, tratto da un suo saggio pubblicato sull'ultimo numero della rivista "Vita e Pensiero". Il testo riassume i dati fondamentali del pensiero del Girard sul "capro espiatorio" e sull'importanza di questo mito sulla intera civilizzazione umana. Sono sempre un po' diffidente di quanti cercano di spiegare il presente ricorrendo al pensiero mitico. Ma la lettura mi fa pensare che, magari, il populismo moralista che ci sta assediando stia cercando davvero, tra gli attori sulla scena dell'attualità, il capro espiatorio su cui scaricare le tensioni, le ansie, le frustrazioni di cui quel moralismo è evidente (sotto)prodotto. Rabbrivisco all'idea che il rabbioso vento inquisitorio arrivi ad individuare un soggetto cui attribuire le sembianze (e le colpe) dell'attesa (e necessaria) vittima sacrificale. Potremmo potremmo veder accadere sotto i nostri occhi una feroce scena di linciaggio. Mio Dio! E se avessero ragione i difensori della tesi del primato della (selvaggia) natura dell'uomo sui posticci camuffamenti della (laica) civiltà?
(*) da "Il Foglio", 16 maggio 2013

 

mercoledì 22 maggio 2013


rivoluzioni antropologiche in corso
da “Il Foglio”, 9 maggio 2013

Elemosina. Sul treno che mi riporta a Roma, dopo un breve soggiorno in campagna, leggiucchio e dormicchio per quasi un'ora e mezza. Tra una galleria e una stazione si alternano piacevolmente i campi lavorati e i boschi freschi e verdi di una primavera parecchio bagnata. Quando mancano pochi minuti all'arrivo raccolgo la mia roba – i giornali, i libri, soprattutto – e mi avvio verso la piattaforma. C'è già un giovane, prestante, con la cresta e la scriminatura laterale come va oggi (credo sia uno stile punk)  ma anche una inedita areola bianca sulla parte posteriore del cranio che fa pensare, di questi tempi, alla cicatrice di un colpo di pistola. Arriva poi una ragazzetta, ugualmente punk, con blue jeans strappucchiati, t-shirt colorata, anellini, tatuaggi. Si appoggia alla parete. Fuma. D'improvviso si scuote e mi si para davanti: “Non hai mica qualche spicciolo?”, chiede. Esito, sono sul punto di dirle, senza rimorsi, “No”. Poi, senza nemmeno pensarci su, tiro fuori il il portamonete, ne traggo una più che discreta moneta e, senza una parola, glie la porgo. Lei la prende, borbotta forse un “grazie” e si appoggia di nuovo alla parete. Ma subito le compare in mano un cellulare, lo apre e comincia una conversazione. Una lunga, indifferente conversazione. Una mendicante non si comporterebbe così, avrei dovuto capirlo prima. E forse, anzi, lo avevo capito. Ma allora, se il mio non è stato un gesto di carità, una elemosina, cosa è stato? Per un istante mi ero compiaciuto di pensarlo, ma forse il mio era un autoinganno, forse l'impulso aveva avuto origine da segreti e meno onorevoli comparti psichici. E comunque, perché evocare l'elemosina, quando ormai chiedere soldi a mano tesa è una affollata industria di stampo mafioso? L'elemosina, come l'abbiamo conosciuta nella grande elaborazione cristiana, è da un pezzo scomparsa dall'orizzonte della nostra società.

Il senso dell'elemosina fu l'ispiratore, in tempi sconvolti dalla propaganda pauperistica delle eresie catare, della nascita dei grandi ordini mendicanti, i Domenicani e i Francescani, che cercarono di ripristinare l'ideale evangelico conducendo una vita semplice, fatta di predicazione e opere di carità, in contrapposizione con i lussi e le sregolatezze del clero regolare e dei monaci, spesso avidi esattori di decime e tributi. Curioso: l'appello alla povertà, anzi al pauperismo, risuona anche oggi e, ancor prima che nella chiesa, nella società civile. E' persino minaccioso, intima più che sollecitare nuovi stili di vita, fa balenare le fiamme della rivolta. Papa Francesco sembra aver colto questo mutamento, e ha scelto e propone uno stile di vita ispirato ad una rigorosa modestia di comportamenti. Saprà cogliere la società nel suo intero, ma anche la Chiesa, il significato di quella che rischia di essere - al di là delle "ripresa" che nessun peraltro vede all'orizzonte -  una svolta antropologica e culturale? Tornerà l'elemosina a suggerire, come avvenne presso i due grandi ordini monastici, nuove grandi teologie? Se falliscono loro, che senso hanno gli appelli al ritorno a Dio?


Laicismo. Il 28 aprile scorso, il presidente della Repubblica francese, François Hollande, avrebbe dovuto inaugurare, a Rouen, una mostra sull'Impressionismo. A poche ore dall'inizio, la cerimonia è stata annullata. Motivo? Era previsto che Hollande tenesse il discorso di apertura da un palco appositamente installato. I funzionari governativi incaricati di un sopralluogo avevano rilevato che il palco era piazzato proprio sotto una enorme tela a sfondo religioso. Conoscendo le idiosincrasie del Presidente avevano chiesto di rimuovere la tela o, quanto meno, di coprirla con un drappo blu. E' stato loro opposto un rifiuto, motivato da ragioni tecniche. A quel punto - come le ciliege, i "no" si trascinano sempre l'uno dietro l'altro - è stata presa la decisione di annullare l'intera cerimonia. Quando si dice il dogmatismo, magari laicista...

Arte e sacro. Ad Assisi è in corso una importante mostra, tra gli spazi del Museo della Porziuncola e quelli della Galleria d'Arte Contemporanea della Pro Civitate Chistiana, dall'eloquente titolo: "l'Arte che legge la Bibbia". Le opere spaziano da Rembrandt a Durer, da Rouault a Chagall, fino a Mimmo Paladino e a Chia. La lodevole iniziativa intende rinnovare uno sforzo che da tempo assilla la chiesa, quello di (ri)conciliare l'arte con la fede, ma temo non farà fare un passo avanti alla questione. Che oggi l'uno o l'altro artista proponga una storia biblica o un volto santo, non riuscirà più a  corrispondere all'esigenza della Chiesa di disporre di un suo grande linguaggio, insieme di arte e di potere, in sintonia con i tempi moderni. Ne ho già parlato, ma non riesco, ancora una volta, a non pensare al Picasso delle Damoiselles d'Avignon o al Duchamps dell'orinatoio o di altre opere analoghe. E' in queste opere che la frattura tra arte e fede si fa incolmabile. Esse hanno messo in luce una dimensione antropologica che non ha più nulla a che fare con la tradizione, con una rappresentazione dell'uomo saldamente ancorata a canoni culturali/religiosi universali e immutabili.











la felicità è quando non hai bisogno di futuro

domenica 12 maggio 2013



UNA 7.65 PER IL PARTIGIANO GIOLI
di Angiolo Bandinelli
da “Il Foglio”, 11 maggio 2013


Lo sciagurato che il giorno del giuramento del governo Letta ha sparato, ferendoli, contro due carabinieri, utilizzava - riferiscono i giornali - una pistola automatica Beretta calibro 7.65 comperata, ha detto costui, da una specie di rigattiere, con il numero di serie eraso per non farne individuare la provenienza. Il dettaglio dà la stura ai ricordi: anche io ho posseduto una automatica 7.65. Non era una Beretta, era di fabbricazione belga. A quell'epoca mi passarono per le mani parecchie altre armi, ma quella pistola mi fu particolarmente cara: mi si capisca, fu parte di una vicenda personale piena di sapore, e quasi epica. Iniziò durante la guerra, nel drammatico settembre del 1943, l'amaro autunno - secondo alcuni - che vide il tramonto di un'idea di nazione.

Sotto casa mia, in un parco pubblico, da qualche giorno era acquartierato un reparto della Divisione di Fanteria Piave. Si temeva il peggio. Al mercato tra le donne, tra gli uomini nei caffè e nelle vinatterie si vociferava che la Divisione fosse stata concentrata intorno e dentro Roma per motivi di sicurezza, in vista di un possibile sbarco alleato o fors'anche di una ormai probabile ritorsione tedesca: dopo il 25 luglio, quando si erano consumati l'estromissione dal governo e l’arresto di Mussolini, l’alleato diffidava degli italiani, con quegli strani partiti riemersi dal nulla ma certo non favorevoli al proseguimento di un conflitto di stampo fascista. Arrivò l’8 settembre, e fu la catastrofe. In un amen il reparto si dissolse, ufficiali e soldati cercarono scampo - ciascuno per sé e Dio per tutti - abbandonando ogni cosa non necessaria, soprattutto l’armamento. Il parco deserto, le tende vuote, davano un senso di sinistra desolazione. Con altri ragazzi amici ci spingemmo cautamente a frugare tra le carabattole sparpagliate. C’erano armi dappertutto: ovviamente molti fucili, mi colpirono però i mortai, aggeggi quasi ignoti, certo mai visti altrimenti. I soldati si erano portati via i muli per tornarsene a casa con in mano qualcosa; un paio, che volevano dirigersi verso il Veneto, furono ospitati per qualche giorno a casa nostra, dormirono su materassi arrangiati nel salotto. Ricambiarono l’ospitalità facendoci dono - lo avevano trasportato con una carriola - di un grosso contenitore di alluminio pieno di ottimo olio, che avevano preso al non lontano Aeroporto dell’Urbe, abbandonato a un forsennato saccheggio da soldati e ufficiali in fuga. Anch'io, assieme all’inseparabile Lucio, mi ero affrettato ad accorrervi, speranzoso di poter racimolare qualcosa di utile, o almeno di interessante. Ci trascinavamo dietro la bicicletta del suo attendente, poteva essere necessaria per caricarci su la roba trafugata. Il padre di Lucio era un ufficiale e allora gli ufficiali avevano diritto ad un attendente, un giovane militare che per lo più faceva commissioni per la moglie. Quello del padre di Lucio era un alpino, alto, robusto e un po’ polentone, docile e remissivo. Andava a fare la spesa con la sporta, senza problemi.

L'aeroporto era deserto. I capannoni rimbombavano sotto i nostri passi, ma non trovammo nulla, tutto - l'utile come l'inutile - era già stato portato via. Il mio miraggio era di trovare un paracadute. I paracadute erano, allora, di seta di ottima qualità, ci si potevano fare camicie di sogno. In un canto adocchiammo un barile: era scoperchiato, pieno di sottaceti, la superficie oleosa coperta di una poltiglia di mosche morte, forse uccise dagli effluvi maleodoranti. L’unico trofeo che potei strappare e portarmi via fu una bussola giroscopica, svitata dalla consolle di uno degli aerei parcheggiati ai margini del campo - ce n'erano quattro o cinque, un paio sembravano in buone condizioni e forse in grado di prendere il volo, gli altri esibivano ferite slabbrate, prodotto dei bombardamenti ai quali l’aeroporto veniva sottoposto quasi quotidianamente. Per sgomberare il campo di rullaggio, qualche carcassa, un groviglio di tubi e tela, era stata buttata nella corrente del Tevere che costeggiava il campo, noi che nuotavamo in quelle acque corremmo il pericolo di restarvi impigliati.

Mi infilai cautamente in un enorme Savoia-Marchetti S.M. 88, un trimotore da bombardamento meno noto del Savoia-Marchetti S.M. 79, quello chiamato lo “Sparviero” o, a causa del cupolino sul dorso, il “Gobbo maledetto” (non stupisca l'esattezza terminologica, sapevamo distinguere a colpo d'occhio gli aerei militari, anche quelli tedeschi o alleati, che ci sorvolavano e spesso duellavano perpendicolarmente sulle nostre teste). Un amico più grande di noi si divertì a sparare qualche raffica dalla mitragliera dorsale, lasciata incustodita - ma cosa c’era di custodito, in quei giorni, a Roma? - con il nastro dei proiettili inserito. Io non mi azzardai, mi contentai della bussola. Ai nostri occhi il sofisticato strumento aveva qualcosa di magico, quando scorgevamo il giroscopio - cuore del congegno - oscillare e girarsi lentamente, quasi danzando, dentro il liquido di servizio, rimanevamo incantati a osservare lo straordinario fenomeno, per noi difficile da spiegare. Subito progettai di installarla nella barca che prima o poi mi sarei fatto. Naturalmente la mia era una sciocchezza, la bussola giroscopica ha bisogno, per funzionare, di un motore.

Sulla strada del ritorno camminavano al nostro fianco, a passo svelto, altri saccheggiatori, con i volti eccitati perché erano riusciti a trafugare qualcosa, se non all’aeroporto da un treno abbandonato alla stazione di Monterotondo, sempre sulla Salaria, un po' oltre l’aeroporto. I più fortunati si trascinavano dietro sacchi, o cospicui involti, di bianchissima farina. Anche io e Lucio ci eravamo spinti alla stazione ma arrivammo troppo tardi, ci sorpresero amaramente le strie bianche di farina che attraversavano in lungo e in largo il piazzale di fronte ai binari. La fila dei vagoni merce era desolatamente vuota - a quell’epoca dovevi cogliere immediatamente occasioni come queste, tutti cercavano qualcosa, l’istinto di sopravvivenza dava le ali, i confini tra il lecito e l'illecito si erano fatti labili.

Ma il vero trofeo di quei giorni altrimenti disperati fu, appunto, la pistola calibro 7.65. Frugavo qua e là nel parco ormai deserto, aggirandomi tra le bellissime fontanelle scolpite e il laghetto nel quale, quando c'era l'acqua, d'estate gracidavano le rane. La scorsi dietro una bordura di mortella. Era appartenuta sicuramente ad un ufficiale che se ne era liberato al momento di darsi alla fuga. Era piatta, elegante, brunita, il caricatore pieno di proiettili. Insieme alla pistola mi portai a casa, per la verità, un paio di moschetti ’91 (con i fucili '91 erano l'arma sovrana della fanteria italiana), un po' di sacchetti di un esplosivo confezionato in sottili quadratini che somigliavano molto alla pasta a quadrucci, alcuni proiettili Very di quelli usati per le segnalazioni. Non trovammo, purtroppo, l’apposita lanciarazzi, ma nei giorni seguenti riuscii ugualmente, con un marchingegno di cui fui molto fiero, a spararli. Lasciavano nel cielo la loro stria rossastra, ricadevano sui tetti dei vicini, sentii madri affacciarsi alle finestre urlandomi dietro improperi: “Gioli! Sei un mascalzone!” Gioli era - alla toscana - il diminutivo del mio nome, tutti mi chiamavano così.

Il mio lato infantile stava però facendo posto all'adolescente che cercava di partecipare agli eventi, grandiosi e incomprensibili, in tumultuoso svolgimento attorno a lui. Durante i mesi dell'occupazione nazista misi assieme un arsenale di tutto rispetto. Lo tenevo nascosto in parte sotto l’ultimo cassetto del comò in parte dietro il letto. I miei non si accorsero di nulla, almeno finché mio padre, entrando una volta nella mia stanza, non mi trovò intento a lustrare uno dei due moschetti con uno strofinaccio intinto in olio d’oliva rubacchiato in cucina. Io sapevo smontare e rimontare un fucile o un moschetto ’91: come tutti i miei coetanei ero - ovviamente - un avanguardista e gli avanguardisti facevano le loro esercitazioni del sabato pomeriggio con veri moschetti ai quali era stato tolto o raschiato via il percussore. Oltre ai due moschetti, avevo un fucile ‘91 (per incidens, fui molto stupito quando, molti anni dopo, appresi che per assassinare il Presidente J.F. Kennedy, Lee Harvey Oswald aveva usato proprio uno di quei fucili, mai avrei pensato che fosse un’arma così precisa e affidabile). Lo avevo casualmente scovato in una grotta in aperta campagna e me lo ero portato a casa avviluppato sotto il cappotto, cercando di non far troppo emergere dal colletto la lunga canna. Mi fu poi affidata da custodire, non ricordo come, anche una cassetta di proiettili per il mitra Beretta della Pai, la Polizia Coloniale Italiana, fatta rientrare dall'Africa e in servizio cittadino nelle inconsuete divise kakhi e in testa l'elmetto coloniale di sughero. Attraverso giri strani mi arrivarono infine un paio di comuni revolver ma anche uno enorme e pesantissimo, credo una Colt, che sembrava d’argento. Le mie cure assidue erano però dedicate alla pistola belga. Ne sparai l’intero caricatore, insieme a Lucio, su in soffitta. Nonostante che, in quel periodo, armi e armamenti girassero a fiumi, non riuscii a trovare altri proiettili, la pistola però la portai sempre appresso ogni volta che pensavo potesse essercene bisogno. Non la usai mai.

In quei giorni febbrili e carichi di attesa mi aggregai al Partito d’Azione. Sognavamo l’insurrezione liberatrice contro i nazisti, ci riunivamo periodicamente a casa dell’uno o dell’altro, sempre preoccupati di non farci seguire o notare. Alle riunioni c’ero io del Partito d’Azione, ma anche monarchici e cattolici. Ci pervenivano, per vie misteriose, pacchetti di giornali clandestini, che io distribuivo a scuola, ai compagni fidati. Ma mi accaddero anche cose eccitanti. Due o tre giorni dopo l’8 settembre assistei ad uno scontro militare a Piazza Fiume. Nella febbre dell’attesa l’impazienza ci divorava, tutto poteva accadere, bastava un nonnulla, una voce, un sussurro, per metterci in allarme: così, un pomeriggio arioso e soleggiato, mi misi in cammino verso il centro, con la mia pistola nella cintola dei pantaloni. Arrivai a Piazza Fiume, piena di gente che urlava a piena gola, il grido che si sentiva di più era “Viva Savoia, abbasso Mussolini”. Scorsi, facendomi largo tra gambe e braccia, una colonna di autocarri militari carichi di soldati - credo anche questi della Divisione Piave - che muoveva lentamente verso Porta Pinciana. Venivano forse da fuori Roma, dalla Via Nomentana. L'entusiasmo, figlio assurdo di una assurda speranza, era indescrivibile. A un certo momento arriva a gran velocità, fendendo la folla, una automobile da campo dell'esercito tedesco, con quattro militari a bordo. L’auto si bloccò a fianco del corteo degli autocarri, ne scesero un paio di ufficiali. Gli autocarri si fermarono, accorse qualche ufficiale italiano della colonna. Si aprì una discussione. Non so come o perché, si udirono colpi di arma da fuoco. La folla sbandò, si divise, il fuggi fuggi la disperse in mille rivoli. Anche io mi misi a correre, mi rifugiai ansimando in un portone. Si sentirono altri spari. Poi un silenzio innaturale, rotto dal sordo gorgoglio dei motori, da qualche voce altissima, disperata. Aspettammo un po' tempo, alla fine mi azzardai ad uscire per strada. L’automobile dei tedeschi era scomparsa, la colonna degli autocarri aveva ripreso a muoversi. Mi aggirai attorno, chissà cosa era successo. Vidi, capii: in un angolo della piazza (ogni volta che ci passo mi si accendono i fotogrammi della scena) per terra, un brandello di carne in un pozza di sangue, sulla quale era stata gettata una secchiata d’acqua.

La sera del 4 giugno decisi di rompere ancora gli indugi e correre al centro, volevo finalmente combattere e comunque andare incontro ai liberatori. Mi infilai di nuovo nella cintura dei pantaloni la mia calibro 7.65. Non mi servì nemmeno questa volta, i tedeschi erano già lontani quando incontrai le prime “jeep” e i primi “truck” con la stella bianca della “U.S. Army”sul cofano motore, carichi di eccitati soldati: quella fu anche per me la notte della festa popolare più attesa e goduta. Rientrai a casa molto tardi solo per non fare impensierire i miei. Ma l'impazienza mi teneva desto, quelle ore erano cariche di novità da non perdere, assolutamente. La mattina uscii presto. Un drappelletto di soldati americani stava disteso stravaccato sul marciapiede, mangiucchiando, leggendo o radendosi, in attesa di ordini. Che presto arrivarono: si diceva che a poca distanza fosse in corso uno scontro con reparti di retroguardia tedeschi. Forse era l'occasione perché potessi fare anche io un po' di guerra. Afferrai la mia pistola - non avevo proiettili ma vedi mai - la infilai nella cintola, ero divenuto ormai esperto. Anche un po' gradasso.

Sullo strapiombo dove finiva la città gli americani si erano appostati tra cespugli di sambuca e rovi. Parecchi metri più sotto, in un gruppetto di case contadine al di là dell'Aniene, era appostato il reparto tedesco, si vedeva anche un carro armato. Si sparava da una parte e dall'altra, i Garand americani, tozzi e pesanti, facevano un sordo ta-pum, una mitragliatrice faceva partire una breve raffica poi l'addetto si tirava indietro, con la faccia annoiata. Io mi appostai, inginocchiato, accanto a lui. Ero in guerra, finalmente. Non durò a lungo, un corpulento ma autoritario graduato mi scacciò via, dovetti risalire la costa, mi rintanai sotto la tettoia di un casale contadino. No, non avrei combattuto, ma volevo vedere come sarebbe andata a finire. Non distanti da me, un paio di soldati americani fumavano e chiacchieravano. Uno di loro mi si accostò, puntò il dito sulla pistola che occhieggiava di sotto la cintola. Mi indicò che glie la mostrassi. La prese in mano, la palpeggiò con curiosità, mi fece capire che l'avrebbe comperata volentieri. Io nicchiavo, per nulla al mondo mi sarei separato dall'amato gingillo. La cosa non andò avanti, sentimmo a un tratto una sorta di sordo rombo, e subito vidi la tettoia di lamiera ondulata che copriva gli attrezzi scomporsi, frantumarsi, volare via tra una nuvola di polvere rossiccia. Il carro armato tedesco era entrato in azione e mirava sulla casupola. Mi prese il terrore panico, cominciai a correre. Corsi a perdifiato, scorsi Lucio che anche lui correva, al mio fianco. Ci fermammo solo quando fummo certi di essere molto lontano dallo scontro. Nella cintola avevo ancora la mia 7.65.

La guerra finì, il governo emanò una ordinanza perché venissero immediatamente consegnate alle autorità tutte le armi detenute da privati cittadini. Obbedii, portai all'ammasso il mio arsenale. Ma non consegnai la pistola. Passarono alcuni anni. Non ricordo esattamente come avvenne, un giorno qualcuno mi propose di scambiare la 7.65 con un piccolo revolver, molto meno ingombrante. Accettai. Altro tempo passò, quando mia moglie la vide in giro per casa mi sequestrò l'arma. Lei odiava ogni arma, me l'ha tenuta nascosta per cinquanta anni, l'ho ritrovata solo dopo che lei era morta. 

venerdì 10 maggio 2013

mercoledì 1 maggio 2013