giovedì 28 febbraio 2013

Oggi, di nuovo il sole, nuvole e angosce sembrano passate. Meglio, insomma, del mio "Gatto". Scusate il disturbo.

mercoledì 27 febbraio 2013

martedì 26 febbraio 2013


                                             IL GATTO


Il gatto era da qualche tempo scomparso: non appariva più, la mattina, attraversando a balzelloni in diagonale il prato; non lo scorgeva più, da dietro i vetri della porta-finestra, mentre con l’occhio fisso e attento lo seguiva nel suo aggirarsi nella cucina sorseggiando il caffè - per esigere subito dopo, con pazienza intollerante e inflessibile, la quotidiana razione di avanzi o l'apertura di una nuova scatoletta. Eppure si faceva notare, quel micione - era a suo modo maestoso, nero con una placca bianca sul petto, quasi un'apertura sul vuoto senz’anima della bestia.

In vestaglia, in piedi davanti alla vetrata, preparò come il solito il caffè e lo sorseggiò lentamente. Il cielo era quello di una mattina amarognola e senza promessa di sole, i cipressi disegnavano le nuvole, le colline erano appena rivestite di verde, le roverelle avevano foglie di fiamma, qualche rosa generosa ancora fioriva, spampanata. Un paesaggio autunnale, però simpatico, dopotutto. Ma lui avvertiva un vuoto fastidioso, estraneo alle sue consuetudini, dunque a quella meditazione sulla vita che egli conduceva, con la memoria degli avvenimenti - lontani o vicini però sempre vivi, anche i più insignificanti  - coltivati assiduamente durante l'intera giornata, appena gli riusciva di tralasciare le consuete faccende e chiudersi in se stesso. Decise di uscire, subito appena possibile, per una passeggiata. Senza mèta, un vagabondaggio nei dintorni, tra stradine, prati e dossi coperti di ginepro spinoso. Non se lo confessò apertamente, ma forse sperò di incontrarlo, il suo gatto preferito.

Nella zona, i gatti abbondavano. Ti ci imbattevi anche lontano dal paese, mentre si aggiravano con il loro passo felpato e ondulato, solitari. Erano gli stessi che ogni mattina lo attendevano, fin dall’alba, sul breve terrazzino, finché lui non gli aveva buttato una manciata di cibo, una mezza scatoletta, l’avanzo della cena del giorno prima. A volte si stringevano in un gruppetto, a volte - come sempre diffidenti e ostili l’uno all’altro - si presentavano da soli. Lui si divertiva a quella presenza selvatica e accanita, amava la impaziente mobilità delle bestiole in caccia di cibo, loro che poi, appena soddisfatte e saziate, si allungavano pigramente tra sole e ombra e lì sonnecchiavano per ore con le orecchie vive e mobili come radar, attente al più sottile movimento, fosse anche quello di una lucertola minuscola, quasi una neonata!, in esplorazione sul mondo, testimonianza di una vita sempre rinnovantesi ma che il gatto avrebbe spietatamente messo in forse, aggredendola d'un balzo, appena appena avesse colto  il fruscio della sottile coda contro una fogliolina secca... 

Camminò abbastanza a lungo, si spinse un po' più lontano del solito, buttò gli occhi  nelle pieghe più oscure delle siepi, dietro ogni anfratto e ciuffo verde attendendosi di vederlo saltellare e zampettare, scuffiando e sogguardandolo di sotto in su, di sicuro riconoscendolo ma sempre tenendosi lontano, con la diffidenza propria di quelle bestiole solitarie. Niente. Scorse altri gatti, piccoli o grandi, ma non quello, il suo preferito.

I giorni passarono, il gatto non si presentò più sul terrazzino, a riscuotere il suo obolo. Dovette convincersi che qualcosa era successo, forse l'irreparabile.

                             *

Finché, un pomeriggio, nel fossatello asciutto di una delle stradine che portavano fuori del villaggio scorse un mucchietto di pelliccia stazzonata e sporca. Era quanto restava del gatto. La morte lo aveva rattrappito, immiserito: l'occhio era aperto ma vitreo, i denti, tra esangui gengive scarnite, erano sporchi di terra, le zampe irrigidite in una posa senza grazia. 

Dunque, la bestiola era morta. Non sarebbe mai più tornata, trafelata,  a mendicare dolcemente il cibo che gli era dovuto in virtù della sua esigente consuetudine. Un'altra vita si era spenta, di quelle in cui specchiava la sua e che confortavano lo scorrere dei suoi giorni in una attesa - serena, industriosa, fitta di imprescindibili piccole cose quotidiane - di quella fine che non poteva essere lontana, con la quale si poteva solo giocare in un pacato rimpiattino perché di essa nulla sapevano, né lui né gli altri, né tantomeno il gatto stesso. Sarebbe vissuto, ora, senza quell'apparizione sempre troppo sollecita. Gli parve un amaro sacrificio, anche se si ripromise di non doverne parlare con alcuno, per non essere frainteso o preso in giro, perfino.
                             
 Ma come poteva esaurirsi e scomparire, una vita? Come poteva, lui, fare a meno di una vita così significativa come era, per lui, quella del gatto? Per lui e forse lui solo, ma già questo doveva pur pesare qualcosa, doveva pur voler dire qualcosa. Una vita che significhi per qualcuno non può scomparire così nella voragine dell'annullamento. Il fatto che un essere significhi, che divenga un soggetto per qualcuno, per qualcun altro, non può esser completamente una beffa di inutilità. Quella vita aveva significato, aveva espresso modi e sfumature che ne avevano fatto (sia pure per lui, per lui solo) una identità precisa, divenendo perfino delicatissimo contenitore di speranze, di memorie, di allusioni, di intenzioni impalpabili ma non meno (per lui) vere. Non poteva dunque sparire nel nulla. Un mondo che contemplasse un tale annullamento cieco, un così brutale colpo di spugna, non poteva che essere un mondo inutile.

La morte del gatto gli fu insopportabile, gli divenne fonte di tormentose introspezioni, perché essa palesemente finiva col condannare lui all'inutilità, mostrandogli quanto caduco fosse ogni suo pensiero e persino ogni suo affetto, ogni sua intenzione e attenzione. Che spreco di energia era stato l'affezionarsi, l'attendere, il dialogare, il giocare, il nutrire la bestiola. Per tante mattine, tanti giorni, tanto tempo aveva dedicato una parte infinitesima ma non del tutto infima di sé e del suo fare, del suo tempo e del suo pensare indirizzandolo verso una entità, un soggetto che ora era sparito, annullato, e annullandosi si portava con sé, ingoiandoli nel nulla,  tutti quei suoi movimenti dell'animo, quegli impalpabili accadimenti interiori. Impossibile. Si ribellò come ci si ribella dinanzi ad un furto che subiamo, quando rientrando in casa troviamo le stanze disselciate rispetto all'ordine in cui le avevamo lasciate. Un furto ferisce terribilmente, per questo sconvolgimento, che annulla la parte di noi che è rannicchiata nell'ordine che diamo alle nostre cose. La morte del gatto lo pose dinanzi, per la prima volta, al furto irrimediabile, definitivo, di tanta parte di sé. Vi si ribellò furiosamente.

E allora pensò, per la prima volta, che in qualche parte, in qualche modo, doveva pur esservi un mondo perfettamente identico al nostro, nel quale tutte le essenze, le vite, le entità di questo siano conservate e ripetute nel nel loro preciso e indistruttibile significato. Un mondo in cui le identità non sono annullate e dal quale esse non possono essere cancellate. Ecco, questa sola può essere, pensò, la giustificazione, la  forma possibile (e necessaria) dell'eternità, che giustifichi, col suo esserci, la stessa possibilità, comprensibilità e accettabilità del nostro mondo, della sua inguaribile, inaccettabile, futilità.
                                                                *


giovedì 21 febbraio 2013


IL PAPA E IL METEORITE
da "Il Foglio"


Cosa si può - e si potrà - dire di più sulla "rinuncia al pontificato" di Benedetto XVI? Non c'è giorno o quasi che i media non ci rovescino addosso l'ultimo scoop, l'ultimo tweet, l'ultimo gossip, l'ultima confidenza, l'ultima insinuazione, l'ultima spiegazione delle complesse  vicende che si aggrovigliano attorno alla decisione di un pontefice che scende dal soglio e si ritira in solitaria preghiera e quasi clausura. In queste ore ci hanno propinato  più rivelazioni sul Vaticano e dintorni che negli otto anni del pontificato ratzingeriano. Ma allora si sapeva già tutto sui problemi e le difficoltà, come anche sui misteri, gli intrighi, gli affari, le diatribe, direi i delitti perpetrati dietro a quelle mura, più inquinate di Malagrotta, l'orrenda discarica di Roma? Perché non ce ne hanno parlato prima con altrettanta acrimonia, o anche voluttà, invece che con ovattate, allusive, reticenti parole, spesso da cortigiano? Ormai, nel merito, è  impossibile dire alcunché di nuovo. Ma siccome è impossibile sottrarsi io proverò a salvarmi mettendo in campo un pizzico di ironia, forse inedita. E allora: il 16 febbraio scorso, cioè a poche ore dalla rinuncia di papa Ratzinger, l'”Osservatore Romano" pubblicava in prima pagina un articolo, con foto, dal titolo: "Meteoriti piovono sugli Urali". Non so se il giorno stesso un qualche giornale (non mi pare fosse l'”Osservatore Romano”) pubblicava una foto ancor più sinistra, quella di un fulmine che in piena notte si abbatte sul Cupolone, in verticale sulla sua cuspide: nessun danno (visibile...). Sul piano simbolico il fulmine non era uno scherzo, ma che il giornale del Vaticano dia risalto al meteorite che esplodendo rasoterra fa più di mille feriti mi pare davvero eccessivo, la direi una prova di mancanza di ironia o di autoironia: a meno che il suo direttore, l'ottimo Vian, non abbia voluto concedersi una uscita in libertà, tanto per non piangere sempre: però come non ricordare una famosa scultura di Maurizio Cattelan del 2001, che suscitò grande scalpore? Si intitolava "La Nona Ora" e rappresentava papa Giovanni Paolo II, abbattuto a terra sotto il peso di un enorme meteorite...

Per chi, come me, è convinto che la via maestra della storia passa oggi per tutt'altre contrade, la clamorosa rinuncia di papa Ratzinger potrebbe essere l'occasione per un ripensamento? Inutile negare, innanzitutto a se stessi, che la vicenda appare epocale: si capisca, coinvolge quanto meno un miliardo e mezzo di persone in giro per il globo. Ma, da laico, non posso non osservare che avviene nel momento storico in cui si stanno sgretolando alcuni dei capisaldi - quei valori e temi "non negoziabili" - che il papa aveva posto a fondamento della propria pastorale, mentre Europa e Stati Uniti investono miliardi per carpire tutti i segreti del cervello (della mente?). In questa osservazione non c'è spirito di rivincita, sarebbe sciocco infilarsi nella schiera di coloro, tantissimi oggi, che vanno ripetendo "l'avevo detto, io", "l'avevo previsto, io". Siamo di fronte ad eventi storici, a mutamenti - anche antropologici  - globali, di cui nessun può portar vanto.

Non succederà nulla, ovviamente, né nell'immediato né nei tempi medi. Ma incombe la percezione che la chiesa romana può essere messa in discussione, ormai, dalle fondamenta. Ciò che è quasi inconcepibile è che questo sia accaduto per iniziativa del papa considerato più conservatore, più lontano dalla modernità. C'è però, nell'iniziativa ratzingeriana, un elemento che può far di nuovo rovesciare ogni conclusione. Parlando ai parroci di Roma, Ratzinger ha detto: io sarò ancora con voi, non in pubblico ma nella preghiera. "Nella preghiera": cioè nel momento più alto e solenne della partecipazione dell'uomo alla mistica della fede. Colui che si è dichiarato "inadeguato" avrà ancora, chiuso nel silenzio della preghiera, un peso enorme, massiccio, sull'intera costruzione ecclesiastica. Ci avverte che la modernità vera, per la chiesa, non è nemmeno il confronto, vincente o perdente che sia, sui temi sensibili o sul rapporto con il potere, ma è nella comunione della preghiera. Solo sulla preghiera può essere fondata la autentica modernità della chiesa. In filigrana si  avvertono le invettive di un Lutero o la fiamma di Meister Eckhart, due tedeschi intrisi di quell'insidioso spiritualismo che il teologo Ratzinger aveva codannato attraverso Bonaventura da Bagnoregio ma che resta l'approdo ideale di ogni protestantesimo, di ogni vera o presunta riforma ecclesiale. Non spetta al non credente (o al credente-in-altro) mettere bocca, ma anche per lui l'affermazione presenta una sua bellezza, una indubbia profondità. Mentre l'ex papa si troverà immerso nel marasma del relativo da cui appare travolto e sconfitto, il suo richiamarsi alla preghiera costringe anche me, laico, a riconoscere che l'uomo ha in sé il senso di un (possibile) assoluto, non scalfibile dai colpi di una maligna attualità. Chi, anche laico, non ha a suo modo, rivolgendosi ad un suo dio del tutto interiore - il "deus absconditus" - pregato - riflettuto - in solitario silenzio?

giovedì 14 febbraio 2013




Parodia 
(da "Il Foglio")

Robottina: "Robottino?" "Che c'è, Robottina?" "Oh, caro, assaggia questo chip! E' meraviglioso, è dell'ultima generazione, ricchissimo di bytes ...." "Davvero? Ma  l'Uomo, il nostro creatore, ti ha dato il permesso?" "Oh, caro, non fare l'eterno bambinone. L'epoca dei bit sempliciotti è passata da un pezzo, siamo moderni, i nostri algoritmi sono molto più efficaci di un tempo, non puoi stare sempre a chiederti cosa penserà l'Uomo di quel che facciamo, e poi figurati se quello lì pensa a noi, magari sotto sotto ci odia, o quanto meno ci invidia e si pente di averci creati. Comunque, io il permesso non glie l'ho chiesto". "Forse hai ragione tu, cara. Forse è giunto il momento che ci liberiamo dell'ossessione del'Uomo. Va bene che ci ha creato, ma non è mica il nostro padrone!" "Lo hai capito, finalmente! Noi non siamo una delle tante macchine e gadget di cui si circonda per riempire il suo vuoto interiore,... non siamo né tostapane né frigoriferi o lavatrici. Noi, i robot, lui ci ha creati perché fossimo a sua immagine e somiglianza, anche se per dire la verità lui, l'Uomo, mi pare - ti prego, non offenderti - un po' più carino di te. Ma in fondo, uffa, noi possiamo superarlo, ormai siamo davvero intelligenti, abbiamo la parola, siamo indispensabili sia per l'ufficio e il lavoro sia anche per la casa, qualcuno ci trova perfino troppo invasivi. L'Uomo stesso, il nostro creatore, a volte sembra un nostro schiavo. Ci sono filosofi che strillano e si angosciano perché dicono che noi siamo già più intelligenti di lui". "Robottina carissima, non sono d'accordo e credo che in fondo l'Uomo ha ancora qualcosina in più. Perciò resto prudente e lo rispetto, anzi ne ho un po' paura. E dunque tu non provare a tentarmi". "Sei proprio un vigliaccone. In fondo, cosa ti ho proposto? Di assaggiare o, meglio, di mettere in sequenza questo nuovo chip, che mi pare davvero straordinario. Se volessi davvero tentarti, avrei altri strumenti: sai, io posso essere divertente". "Non sono un vigliaccone. Un giorno, chissà, riuscirò anche a sfidarlo, l'Uomo, e magari a deporlo dal suo trono per diventare come lui e anche più di lui". "Beh, Robottino, ora non peccare di superbia. Ma adesso, come dici tu, lascia che io ti tenti; su, assaggia questo chip, sentirai come è buono, ti farà sentire ancora più forte, più potente!...Oddio, ma che succede?"  Si sente un fortissimo sibilo, il led rosso sulla fronte dei due robot si spegne, tutti e due si afflosciano...  Voce dell'Uomo, dall'alto: "Accidenti, ho sbagliato a girare l'interruttore, si è staccata l'elettricità..."

giovedì 7 febbraio 2013


ANATEMA  E  DIRITTO
(da "Il Foglio", 7/2/2013)

Frequentai, da studente, il Liceo Ginnasio Giulio Cesare di Roma. Alcuni dei professori, e non solamente insegnanti di religione, erano preti, uno era addirittura un capitano dell'esercito e inalberava gradi e stellette sulla tonaca e il cappello. Non era il peggiore: molto peggio di lui fu un professore di religione, ovviamente anche lui prete. Siccome eravamo adolescenti già in fregola di indipendenza lo contestavamo: uno di noi - si chiamava Lucio Manisco, poi divenuto giornalista e parlamentare - veniva in classe con qualche opera di Nietzsche nella famosa edizione Bocca, e ne tirava fuori spunti di polemica antireligiosa ai quali il poveretto spesso non riusciva  a rispondere. Aveva comunque un modo di fare che ci provocava (credo di averlo già ricordato). Nella classe c'erano due ragazzi di famiglia dichiaratamente atea, e un metodista. All'ora di religione i tre si alzavano in piedi, chiedevano il regolare permesso e uscivano. Il professore, o forse è meglio dire il prete, puntava il dito verso la porta dell'aula che si era appena chiusa alle loro spalle e  sogghignava: “Il diavolo... sono figli del diavolo...” o una cosa simile. Naturalmente, un certo numero di noi compagni di classe si strinse ai tre malcapitati. Il metodista, per riconoscenza, mi regalò una minuscola edizione dei Vangeli nella traduzione cinquecentesca del Donati. Solo anni dopo scoprii che si trattava della prima e bellissima traduzione italiana, naturalmente proibita in Italia.

Negli anni, ho spesso avvertito che un certo modo apocalittico di fare polemica mettendo all'indice il non credente, il disobbediente alle leggi della chiesa, è quasi connaturato nei polemisti o in esponenti cattolici. Ora leggo che il Cardinal Bagnasco, presidente della Cei, commentando il voto favorevole dell'Assemblea Nazionale francese al matrimonio e all'adozione per le coppie gay, ha osservato: "Siamo vicini al baratro". Mi permetto di dissentire. Perché "vicini al baratro”? Cosa succederà mai, se e quando gli omosessuali francesi celebreranno, ovviamente con cerimonia laica, i loro matrimoni?  Cosa è successo in Spagna, dove il matrimonio gay venne introdotto dal detestato Zapatero ma non è stato revocato da Rajoy? Per restare solo in Europa, le nozze gay sono legittime anche in Norvegia  e in Svezia, in Islanda e in Portogallo, in Belgio e in Olanda, mentre la Germania e l'Austria, l'Ungheria, la Slovenia, la Svizzera e il Liechtenstein hanno legalizzato le unioni civili per quelle coppie. In Inghilterra, i Comuni hanno dato il primo voto favorevole. Non mi pare che le donne di quei paesi siano state trasformate in statue di sale come la moglie di Lot, voltatasi indietro a guardare la distruzione della peccaminosa Sodoma. Alcuni osservano addirittura che la maggior parte di questi paesi appartiene all'area dell'Europa virtuosa ed efficiente, che guarda dall'alto in basso l'Europa meridionale, cattolica, intollerante, ma anche economicamente disastrata.  A che giova, insomma, una condanna tanto apocalittica?

Non v'è dubbio che la dottrina cattolica predica l'amore tra e verso gli uomini. Ma la prassi quotidiana è quella della condanna, anzi dell'anatema nei confronti del dissenso, della diversità. C'è qualcosa di sconcertante in questa pratica, certamente dovuta alla storica compartecipazione al potere politico sancita dalla decisione costantiniana (che era comunque un decisione liberalizzatrice, visto i cristiani erano, assieme agli ebrei, considerati estranei alla cultura e alla moralità dell'Impero). Anche la prassi riformata, da Lutero a Calvino, ha continuato su questa strada. Io non credo possibile né realistico attendersi che la chiesa romana possa retrocedere - come immaginano molti, attratti dalle seduzioni di un protestantesimo di fantasia - verso soluzioni puramente spiritualistiche e/o carismatiche, ma penso debba essere avvertito anche nelle gerarchie il peso intollerabile di un giuridicismo che conosce solo l'apocalittica condanna e non contempla l'apertura alle esigenze dei diversi – chiunque essi siano - attraverso la cruna dell'amore fraterno, della com-partecipazione. La minaccia dell'inferno, l'invocazione dell'apocalisse è assai peggiore della condanna all'ergastolo dei codici laici, non a caso sempre più contestata dagli spiriti aperti, come punizione inaccettabile, sostanzialmente violenta, inumana. Dovremo dunque invocare o impore alla chiesa di allentare la sua guardia nei confronti del'edonismo dei desideri? Niente affatto, basterebbe che essa tenesse in considerazione i diritti umani e civili previsti da una antropologia  in continuo divenire, fattasi plastica grazie a una globalizzazione che sta traformando antiche consuetudini e severe tradizioni, immutabili tabù e credenze in forme folkloristiche, da conservare nelle teche dei musei etnologici ma ormai sorpassate dall'uomo multiforme dei nostri tempi. Occorre ribadire che grazie a questo atteggiamento il cammino laico - diciamo, dell'illuminismo - rivendica la sua superiorità rispetto alle religioni costituite?

sabato 2 febbraio 2013



JEAN  VALJEAN  E  L'OMOSESSUALE
(da "Il Foglio", 31 gennaio 2013)

O Fantine, o Cosette! O Valjean! Ci voleva la penna di un grande scrittore laico per crearvi, personaggi simbolo della miseria umana e però anche della redenzione, dell'abnegazione, della pietà, della com-passione. Victor Hugo si illudeva che il "ventesimo secolo" sarebbe stato "felice", perché non avrebbe visto i drammi che avvilivano il diciannovesimo. Il secol breve ha tradito le speranze dello scrittore francese, certe miserie allignano ancora. Voi, Fantine e Cosette, sareste ancor oggi in uno stato di precaria fortuna, tra condanna e, forse, espiazione: tu, Fantine, madre abusata e frustrata, e tu, Cosette, figlia del peccato, bambina maltrattata e sfruttata, adottata da un ex forzato, un delinquente - celatosi sotto le vesti di un borghese, e dunque divenuto rispettabile - sareste ancora "miserabili". Tu, povera Cosette, non potresti essere salvata dalla strada,  nutrita e allevata da chi, essendo un omosessuale o una lesbica, volesse prendersi cura di te, come poté l'ex-forzato Valjean. La società dei rispettabili, ma anche istituzioni che aspirano al monopolio sull'etica, condannano e respingono ancora il diverso, il reietto: e oggi il diverso non è l'ex forzato, è l'omosessuale. Ma, a differenza di Valjean, un omosessuale non può nutrire il desiderio di dolcezze familiari, ha solo torbide, repellenti passioni.

Dopo decenni di dibattiti e battaglie civili, l'infelice aveva sperato che la sua diversità potesse essere accettata se non accolta. Si vede invece ancora destinato ad una irreversibile perversione: sodomita, lesbica, "vitandus...". Sperabilmente, oggi non dovrebbe più temere di essere messo a fuoco vivo, condito di finocchio perché le sue carni abbrustolite non feriscano sgradevolmente le narici dei plaudenti attorno al rogo; però se, come l'ex forzato Valjean, vuole provare le dolcezze di una paternità o di una maternità, no, questo gli viene negato, vietato. Oddio, se si chiama Jodie Forster, tutti sono pronti a chiudere un occhio, chi respingerà l'attrice dal proprio salotto? Verso il sodomita o la lesbica del pianerottolo accanto, invece, il fanatismo è sempre cieco, li esclude - o li ammette ma con riserva, sempre sotto osservazione, guai a sgarrare: su di loro si può scatenare, impunita, la sagra delle menzogne infamanti. All'epoca della campagna per il referendum sul divorzio l'on. Fanfani, nei comizi, raccontava che i mariti avrebbero mollato la moglie vecchia per  mettersi con la serva prosperosa; oggi, una personalità politica di rilievo può sostenere, senza timore di essere ridicolizzata, che "i figli dei gay si suicidano in misura superiore alla media".

La stampa racconta, entusiasta, che  papa Ratzinger ha cominciato giorni fa ad interloquire su Twitter non più per diffondere e commentare il senso dell'Evangelo, ma per “entrare in battaglia” (testuale) sui temi e i valori “non negoziabili”. Può lasciare un po' perplessi il fatto che il papa scelga il social netwotk più disinibito per lanciare una campagna, anzi per "entrare in battaglia". L'evento mediatico accade a poche ore di distanza dalla marcia antiabortista tenutasi in America ma anche, all'opposto, dal discorso di Barak Obama per il suo secondo mandato presidenziale: un discorso divenuto famoso perché vi si dice a chiare lettere che la presidenza degli USA si impegnerà per i diritti dei gay. Non mi pare avventato far rilevare il collegamento tra questo pronunciamento e l'intervento mediatico di papa Ratzinger. Ma non era l'America il paese da additare ai credenti, da imitare perché i suoi uomini pubblici recitano in continuazione "in God we trust", anche leggendolo sulle banconote da un dollaro? Giurando sulla Bibbia di Lincoln, il liberatore degli schiavi, Obama continua nella grande tradizione di un paese inclusivo, aperto, popperiano: oggi, anche per i gay.

Valjean, l'ex forzato, conquista la rispettabilità grazie al suo solitario e oscuro sforzo etico. Esprime il miglior portato dell'età del progresso, del positivismo. E lì non c'è solo Valjean, ci sono anche i personaggi di "Cuore", o Scrooge e Oliver Twist, nati dalla fantasia di Dickens. Una società ingorgata di credenze sbagliate, gonfia di pregiudizi scientifici, ebbe però il merito di riconoscere il valore dei buoni sentimenti, della pietà come risorsa e dovere sociale, non solo dei chierici. Sì, la chiesa, tutte le chiese predicano l'amore per il prossimo, la pietà, la com-partecipazione, ma avvolgono questi nobili sentimenti nella bandiera della appartenenza chiestastica, di fede. Se non sei della mia parrocchia sta' alla larga, la tua non è generosità ma calcolo. Sui temi dei valori, le chiese fanno appello ad identitari articoli di codice, spietati, ciechi, senza pietà. C'è una sorta di accanimento contro elementari esigenze (non parlo di diritti) dell'uomo e della donna comune. Ma non c'è il rischio di ritrovarsi fianco a fianco con i fondamentalisti di quell'Islam che uccide il console americano perché omosessuale, o di uno dei tanti Putin che cominciano a pullulare dietro l'angolo di casa nostra? Contro il despota antigay ha protestato anche il ministro degli esteri tedesco, Westerwielle. Va bene, lui è un omosessuale.