sabato 28 dicembre 2013

martedì 24 dicembre 2013


NATIVITA'

La donna si era assopita, non gemeva più, teneva la piccola testa reclinata sul petto. Giuseppe pensò che poteva lasciarla per un po', senza rischi. Non aveva sentito, nell'orizzonte del deserto e tra i bassi tamerischi, il triste singhiozzo dello sciacallo o l'orrido riso della iena. Uscì dalla grotta, la notte era buia e fredda, ma tranquilla. In mano teneva l'otre di pelle di capra. Cercava acqua. La sua donna aveva bisogno d'acqua, molta acqua. Lui, naturalmente, non era esperto, non aveva mai assistito ad un parto, ma aveva afferrato qua e là racconti di donne, di quelli che le donne fanno quando si raccolgono tra loro a chiacchierare e sorseggiare anice profumato o leggero vino di palma. Le donne hanno sempre qualcosa da confidarsi, standosene separate dagli uomini. E naturalmente, oltre che di amore e amori, parlano di cucina e di mariti, di figli e di parti, di nascite riuscite bene o andate male, per scacciare le quali si scambiano unguenti e utili consigli. Lui le aveva frequentate poco e le conosceva anche meno, le donne, aveva sempre pensato al lavoro. Ed era contento di averlo fatto, perché a forza di gomiti, di pazienza e di abilità, pian piano era diventato, se non ricco, benestante, la sua piccola azienda di falegnameria prosperava. Si era costruito con le sue mani una casa spaziosa adornata con bei mobili, si era potuto anche comperare rotoli di papiro, o qualche costosa pergamena, con la parola del Signore, il Libro della speranza del suo popolo. Discendeva dalla stirpe di Re David, non era uno qualunque, sapeva leggere e scrivere, come pochi nel villaggio di Nazareth. Ma oltre alla lettura serale del libro sacro, nessuna distrazione, pochi amici, una vita frugale. Era così diventato un uomo maturo, cominciava a sentirsi vecchio. E un po' solo.

Ma quando, una mattina - quasi un anno prima - aveva visto passare, nelle viuzze tra le casupole, la bambina, o poco più che bambina, dallo sguardo dolce e il passo sicuro come se reggesse sulla testa un vaso di bel vetro fenicio soffiato invece che l'anfora di pesante terracotta, aveva sentito il suo cuore battere come mai prima gli era successo. Gli era sembrato che quella fanciulla avesse qualcosa di non comune nel portamento e nel profilo, insieme dolce e forte. Non la conosceva, non era di Nazareth, sicuramente era arrivata con la carovana appena giunta da Gerusalemme. Sì, quella fanciulla gli era piaciuta. Ne era restato turbato, dovette confessarselo. Ma come poteva pensare di sposarla? Troppa era la differenza di età. Per tutta la giornata, comunque, l'aggraziata visione gli passò e ripassò dinanzi agli occhi della memoria. A un certo momento, spinto da uno strano impulso, si era avvolto nel mantello, aveva lasciato i suoi operai sotto la guida del capomastro e si era recato di furia al caravanserraglio, appena fuori della porta e delle mura. Quando fu arrivato, chiese chi fossero gli ospiti che vi erano discesi da poco lasciando i cammelli nello stabbio lì dietro, con i servitori che si affaccendavano strigliandoli e buttando loro erba fresca. Si trattava di un ricco gerosolimita di nome Gioacchino, gli fu risposto, era sceso lì con la moglie e la loro figlia. Giuseppe non ci aveva pensato due volte, se avesse esitato la timidezza e la vergogna si sarebbero impadronite di lui, facendolo tornare indietro. Così si era presentato all'uomo, e senza troppi giri di parole gli aveva chiesto se gli concedeva di sposare la fanciulla: non era sua figlia? Quello lo aveva guardato un po' meravigliato, di sicuro non si aspettava che in un città straniera, uno sconosciuto, per di più in età avanzata, gli chiedesse in sposa sua figlia, appunto: “Tu mi parli di Maria” - chiese - che è figlia mia e di mia moglie Anna?” Giuseppe raccontò come l'avesse vista passare nei pressi di casa, della sua bella casa, e come se ne fosse invaghito. Non sapeva come fosse successo, sapeva bene di essere un po' troppo anziano - non troppo, in fin dei conti - ma si era deciso, sì, voleva prenderla in moglie. Maria. Lei o nessun'altra, assolutamente. L'uomo lo ascoltò, si compiacque con lui quando seppe che Giuseppe era della stirpe di David, lui stesso apparteneva alla tribù di David e la coincidenza gli sembrò davvero un buon segno. Lo fece accomodare e fece portare dallo schiavo datteri, fichi e del vino di palma. Chiacchierarono un po', Gioacchino promise a Giuseppe che ne avrebbe parlato con la moglie, Anna. Maria, raccontò, era la loro figlia amatissima, la moglie l'aveva avuta quando già era una donna anziana e, per la verità, in un modo un po' strano: per venti anni, il loro matrimonio era stato sterile, poi, d'un tratto, Anna si era ritrovata incinta: “Ma succedono tante cose, per la volontà del Signore benedetto” commentò con un sospiro: avere una figlia, se non proprio un figlio, era stato un suo grande desiderio. E ora quella sua figlia, quasi una bambina da poco fiorita come donna - come gli aveva confidato sua moglie, fiera e un po' commossa - veniva chiesta in moglie e se ne sarebbe andata di casa.

Quando le disse della strana richiesta dell'uomo – tal Giuseppe di Nazareth, della stirpe di David - Anna era stata molto decisa. Chissà perché, non solo non ebbe nulla da obiettare, ma anzi lo torturò tutto il giorno, finché lui aveva acconsentito. “Devi ascoltare, devi ascoltarmi”, gli aveva detto, “ho uno strano presentimento e i miei presentimenti sono sempre veraci”. Così Gioacchino aveva mandato a chiamare Giuseppe, si era appartato con lui dinanzi a un paio di boccali di birra, e si erano accordati sul prezzo. Aveva tirato un po', ma Giuseppe non aveva fatto troppe obiezioni. Durante la contrattazione Anna, con mille scuse, faceva un continuo vai e vieni e cercava di capire come andassero le cose, Maria invece era rimasta reclusa, sola, in un'altra stanza. Accettò la proposta di Giuseppe in silenzio, con gli occhi bassi. Sembrava impacciata.

Una notte, poco dopo quegli eventi, Giuseppe aveva avuto un sogno. Gli era apparso un angelo che lo esortava a sposare la fanciulla delicata e sommessa. L'angelo gli aveva fatto anche una strana predizione. Lui, svegliatosi di colpo, aveva pensato che fosse uno di quei sogni che disturbano l'uomo e lo fanno anche peccare: “Gli angeli, quelli veri - i messaggeri dell'Altissimo - a volte scendono a visitare gli uomini, ma devono essere uomini importanti per il loro popolo, come Abramo, non uomini da poco come me, un piccolo falegname. L'angelo apparve ad Abramo per salvare Isacco e con lui tutta la sua discendenza, mentre io non avrò certo figli, se anche mi sposerò con la dolce Maria”. Giuseppe dimenticò il sogno, ma a Maria pensava sempre. Fecero correre un breve fidanzamento e infine le nozze, celebrate con gran festa e abbondanza di ogni specie di vettovaglie: Giuseppe comperò e fece ammazzare un bel vitello grasso, e fece circolare tra gli ospiti molti orci di vino, perché non venisse a mancare fino alla fine della sera. Tutti furono soddisfatti. Ma quando l'ultimo degli ospiti de ne fu andato, Giuseppe sollevò gli occhi alle stelle lucenti nel cielo: “Tra poco diventerò padre“, pensò, “Non ho certo i meriti di Abramo, ma prego perché la benedizione dell'Altissimo scenda su di me, la mia sposa e la nostra figliolanza”. E fu davvero felice quando lui e Maria poterono ritirarsi nella stanza che aveva arredato con mobili semplici, fabbricati da lui stesso con le sue mani esperte di ottimo falegname, conosciuto e apprezzato dovunque. Su un basso tavolo c'erano un bellissimo piatto di rame sbalzato pieno di datteri, fichi, miele, spezie e focacce, una brocca di vino di palma e una di latte di cammella, per ristorare gli sposi.

Giuseppe ricordava sempre quei momenti, li rimuginava sempre tra sé e sé. Perché quella notte non era accaduto nulla di quello che tutti si aspettavano. Lui non aveva conosciuto - come dicono i Patriarchi - quella che era divenuta sua moglie. Né quella sera né le altre che succedettero a quella. Quando la porta della stanza da letto fu chiusa dietro di loro e furono finalmente soli, Maria, con un'aria sgomenta, si era accucciata in un angolo, si era coperta gli occhi e la testa con la sottile bellissima veste del matrimonio, aveva sussurrato più volte, “No, no, no”. Lui, Giuseppe, l'aveva guardata un po' meravigliato un po' imbarazzato. Non sapeva nulla di quelle cose, era impacciato, non sapeva davvero cosa fare. Aveva però udito, da certe chiacchiere ascoltate dai cammellieri, da amici anche loro falegnami, che qualche volta le ragazze sono restie a quel che deve succedere dopo gli sponsali. Talvolta si rifiutano per molto tempo, e lo sposo può, se vuole, picchiarle e ricondurle alla ragione, oppure armarsi di pazienza e aspettare che la fanciulla rinsavisca. Ricordò anche lo strano sogno con l'angelo che aveva fatto tempo prima, ma lo scacciò infastidito. Decise di aspettare, pazientemente. Era un brav'uomo, non amava la violenza, in fin dei conti era stato solo per tanto tempo, poteva ben lasciar correre qualche giorno e qualche notte ancora. Dormì avvolto nel mantello, per terra, a fianco del letto dove si era coricata sua moglie, che non aveva voluto spogliarsi, era sempre negli abiti della cerimonia. Giuseppe si girò e rigirò, tirò più di un un sospiro, aveva paura che Gioacchino sarebbe stato incredulo, o magari si sarebbe infuriato, se lui gli avesse raccontato la verità. E figurarsi cosa avrebbe detto Anna, poi.

La mattina dopo sì era levato prestissimo come il solito, aveva un cantiere aperto, gli operai già lo aspettavano, insonnoliti. Scacciò da sé, durante il giorno, il pensiero di quella notte. Ma quando la sera rientrò a casa, Maria lo attendeva, in piedi, a fianco della tavola apparecchiata per la cena. “Cosa hai, Maria?”, le aveva chiesto, un po' in apprensione. Lei, senza sollevare gli occhi da terra, rispose: “Sono incinta. Aspetto un bambino”. Lui era rimasto folgorato. Le aveva preso la mano, l'aveva scossa, aveva anche cacciato un grido disperato: “Cosa mi dici?” Maria allora sollevò verso di lui gli occhi, che aveva grandi e umidi come una gazzella, e sussurrò con voce matura e dolce: “Non temere, Giuseppe. Non ti ho tradita, e non ti tradirò mai. Tu sei il mio sposo, il mio unico sposo. Ma non so cosa mi sia accaduto: un angelo è venuto a me...” Gli raccontò quello che le era successo tempo prima, e che lei aveva taciuto con tutti, anche con la madre e il padre. “Tu partorirai il salvatore del mondo”, le aveva detto l'angelo. Giuseppe era sempre più sconcertato. “Forse hai sognato..”, osò dire, con voce compressa per l'emozione, anche Maria aveva forse sognato, e l'angelo - forse lo stesso che era apparso anche nel suo sogno, o forse incubo - aveva detto il falso, non era un angelo ma il demonio tentatore. Lei gli si inginocchiò davanti: “Devi credermi, mio amato sposo Giuseppe, devi credermi, devi credermi, non so cosa sarà di me, non so cosa ora sarà di te: io so solo che un angelo mi ha parlato...io sono incinta.”
* * *
Giuseppe si allontanò dalla grotta, amareggiato. Rimuginò ancora una volta quel tormentoso pensiero: “Signore, non so che fare, Tu solo puoi aiutarmi. Ho creduto e credo a Maria, è troppo giovane, bella e pura, non mi ha mentito. E io la amo, l'ho amata da quando l'ho vista. Quello che mi ha raccontato, però, mi turba sempre, devo ammetterlo... L'apparizione di un angelo, quelle sue parole strane: 'piena di grazia', le ha detto...Che significano? Io conosco solo una grazia, Signore, ed è la Tua grazia, che cade indiscriminatamente sull'uno o l'altro di noi uomini, non sappiamo perché e dobbiamo accettarla, come l'accettò Giobbe, il Paziente. Ma che Tu, o Signore dei cieli, abbia rivestito della tua grazia una donna mi è difficile da capire. E Maria è solo una piccola donna, è la moglie di un falegname, non è la regina di Saba, non è Sara, moglie di Isacco, non è Rebecca, madre di Giacobbe. Sara era vecchia, e aveva ragione di dare del matto a colui che le chiese se stesse aspettando un figlio. Ma Maria è giovane, e un figlio lo sta aspettando davvero, il tempo è scaduto, sta per partorire. E allora chi è il padre, chi può essere il padre? Lei dice che l'annuncio le è venuto dall'angelo e io debbo crederle, ma questo mi pesa. Io non l'ho smentita dinanzi a a suo padre, quando lui si è felicitato con noi. Forse Anna, sua madre, sospetta qualcosa, o è al corrente. Anna sembra una donna saggia. Ma le donne - e poi figurarsi quando si tratta di madre e figlia - si tengono per mano, si aiutano, si coprono vicendevolmente l'una i segreti dall'altra. Segreti... Maria ha un segreto, almeno quello che ha dovuto rivelare a me...”

Pieno di angoscia, Giuseppe pensava e ripensava a quanto gli stava accadendo, mentre ora rientrava alla grotta con sulle spalle l'otre rigonfio e gocciolante. Era giunto a pochi passi dall'imboccatura, quando sentì un grido lacerare l'aria. Riconobbe la voce di Maria. Si affrettò ad arrampicarsi sul secco pietrame: “Eccomi, Maria, sono qui, sono tornato”. Maria era piegata in due, si sosteneva la pancia con le due mani. Gemeva, le lacrime le scendevano dalle guance sempre più pallide. Giuseppe gettò l'otre vicino al fuoco che aveva acceso appena erano arrivati alla grotta, un fuoco di sterpi e di sterco di bue. Alla mangiatoia c'era una docile vacca, accanto a lei l'asino che aveva portato Maria fino a lì, coperto di mosche richiamate dal tepore. La stalla odorava sgradevolmente.

Giuseppe sollevò delicatamente Maria e piano piano la trascinò quasi sotto alle due bestie. L'asino scalciò un poco e ragliò, innervosito. “Il calore del loro corpo ti aiuterà, Maria”. Lei non rispose, si lasciò andare per terra, Giuseppe le pose dietro la testa il suo mantello e con un lembo di questo la coprì. Finalmente riuscì a scaldare un poco di acqua in una bacinella che aveva trovato tra gli stracci del loro asino. Era poca, e non molto calda. Giuseppe frugò ancora nella sacca, tirò fuori i panni che Maria aveva con preveggenza stivato nel fondo. Erano panni puliti, sarebbero stati molto utili.

Cosa doveva, cosa poteva fare? Si erano messi in viaggio per Betlemme di Giudea, patria del Re David, solo perché lui, Giuseppe, doveva andare a firmare quel maledetto censimento ordinato dall'autorità romana. Sapevano che il tempo della gestazione stava scadendo ma avevano pensato che se le cose fossero precipitate avrebbero potuto fermarsi in un ostello, un albergo, e non sarebbe stato troppo difficile trovare una brava donna, una levatrice, che aiutasse Maria a partorire. D'improvviso, quella mattina, si erano rotte le acque, forse Maria aveva sofferto per il lungo viaggio a dorso d'asino. Era spaventata, lui aveva pensato che bisognava fermarsi, comunque. Sulle colline, ma lontano, si vedevano le flebili luci di Betlemme. Nell'aria roteava un leggero nevischio. Così si erano rifugiati nella grotta, per avere almeno un riparo dal freddo. E ora, in quella grotta gelida e inospitale, lui avrebbe dovuto cavarsela da solo. Scoprì il ventre di Maria. Vide che era sceso molto in basso, palpitava e si muoveva con movimenti regolari. Cercò come potesse aiutare la donna. Disse quelle parole che aveva sentito a volte raccontare, “Spingi, Maria, spingi”. Così aveva anche visto che facevano le pecore e le cammelle, e aveva visto i pastori secondare le bestie, come ora lui cercava di fare ma in modo ruvido, inesperto e incapace quale era. “Come è strana e brutta la nascita dell'uomo”, brontolò, ”non capisco perché l'uomo sia così simile, in questo momento, alla bestie dello stabbio, all'animale della foresta. Eppure l'uomo è destinato dal Signore di tutte le cose a dialogare con lui, è il solo essere vivente che sappia farlo: da Adamo a Giuseppe ai Profeti, gli uomini hanno sempre parlato con l'Altissimo, e l'Altissimo ha parlato con l'uomo. Perché dunque farlo nascere così simile a una fiera? Adamo, padre di noi uomini tutti, è nato non come una fiera, è nato direttamente dalla mano dell'Unico, che lo ha plasmato nell'argilla più pura. Lui è nato non dalla vergogna, ma puro. E invece, noi, ora....” Guardò con raccapriccio la minuta figura di Maria che si torceva negli spasimi. “Spingi, Maria”, gridò di nuovo. Lei provava a spingere, era proprio una bestiola, una capretta mentre stanno per sacrificarla e geme di spavento. Passò un po' di tempo, Giuseppe le porse da bere in una ciotola, Maria lasciò cadere parecchia acqua sulle guance, sul petto ansimante. “Spingi, Maria”, ripeteva Giuseppe. Non sapeva cos'altro fare, aveva paura di far male a quel piccolo corpo tremante. Il tempo scorreva, lacerato nel profondo dal lunghissimo, insopportabile strazio di quella donna. E ad un tratto, con un grido disperato, Maria si sollevò quasi a sedere: tra le sue gambe, rosso e caldo, era il schizzato fuori il bimbo. Giuseppe restò sbalordito per un momento. Si riprese subito, afferrò il piccolo essere, lo avvolse in uno dei panni preparati da Maria. Era impacciato, ma riuscì ugualmente ad annodare il cordone ombelicale, rosso di sangue. Poi depose il piccolo dentro la mangiatoria che aveva riempito di paglia. Con paglia bagnata nell'acqua ancora tiepida della concolina lo lavò come poté, lo riavvolse nel panno. Si voltò poi verso Maria. Lei giaceva ora supina, senza forze, ma aveva ripreso colore. Infine uscì la seconda, anche questa rossa di sangue. Giuseppe la gettò in un angolo lontano. Coprì alla meglio la donna, che sembrava essersi assopita.

Si sentì stanco, mortalmente stanco. Si lavò le mani, si accucciò accanto al corpo della donna. Si sentiva solo, gettato nella più assurda miseria con il carico delle sue angosce. Mille pensieri lo assalirono. “Sono padre, ora, anche io sono padre. Padre? Ma no, io non sono padre”. Sudava copiosamente: “Non sono io, il padre. Eppure, sono certo che Maria non mi ha mentito. Non ne è capace. Io non sono sicuramente il padre del bimbo, secondo natura. Non ho mai sfiorato Maria, nemmeno con il pensiero. E allora... Cosa dovrò fare, adesso? Cacciarla di casa? Ripudiarla e rimandarla ai suoi? Così dice la legge, la donna adultera deve essere cacciata. Alcuni dicono che debba essere lapidata. Ma non voglio che Maria sia lapidata, e non ho cuore di cacciarla via di casa. Chi sono io, dopotutto, per ergermi a giudice severo, implacabile? Io ho scelto Maria come sposa, seguendo l'impulso migliore di me, forse anche spinto dalle parole dell'angelo apparsomi nel sogno. E se oggi Maria ha partorito non riesco a fargliene una colpa. Io credo in lei. E allora devo prendere una decisione. E so cosa farò”. Si prese il volto tra le mani: “Questo figlio farò che sia mio figlio. Sì, dopotutto, è mio figlio perché io voglio così, perché la mia coscienza me lo impone, non so perché ma me me lo impone. Si può essere padre secondo natura, e io non lo sono. Ma si può essere padre anche secondo coscienza. E io voglio essere padre secondo coscienza. Amo troppo Maria, devo avere fiducia in lei. E' difficile, ma voglio provare, voglio provarci”. Si sollevò sul gomito, e scorse nella penombra del fuoco il volto, ora sereno, della sua sposa. Si rese conto che amava la fanciulla, appena ora divenuta donna, che giaceva accanto a lui assieme al frutto del suo ventre.

Fuori della imboccatura della grotta si sentì un belato leggero, ma vicino. Giuseppe si alzò in piedi, tremava di paura, strinse più forte il suo bastone. Chiese: “Chi è là?” Una sagoma nera si affacciò alla bocca della grotta, restò stagliata contro il cielo, che aveva assunto un tenue colore azzurro. “Chi sei? Vieni da nemico o da amico?” “La pace sia con te. Sono un pastore. Siamo venuti qui, io e i miei amici, perché c'è qualcosa di strano, stanotte, in cielo. Proprio dritto su questa grotta. Cosa succede in questa grotta?” “La pace sia anche con te, buon pastore. Cosa succede qui, in questa grotta? Nulla, amico pastore, nulla di importante. Mia moglie ha appena partorito. Ci siamo rifugiati qui, perché io dovevo andare a Betlemme ma a lei sono venute le doglie e così abbiamo dovuto fermarci, senza poter arrivare a Betlemme”. Si sentì il pianto del bimbo. Giuseppe borbottò: “Non hai un po' di latte delle tue pecore? Posso pagartelo, farebbe bene a mia moglie”. “Non ti preoccupare, avrai il latte, te lo offro volentieri.”

Ma c'è una cosa davvero strana”, proseguì il pastore, con una lieve esitazione, “forse puoi darmi tu una spiegazione, io e i miei amici pastori siamo molto inquieti”.
Perché siete inquieti?”, chiese Giuseppe. “Non so, vieni anche tu qui fuori, a vedere. Mi sembri un uomo saggio e istruito, forse puoi spiegarcelo, a noi che siamo pastori ignoranti”. Uscirono. La notte si era fatta chiara, straordinariamente chiara. Qua e là fiori di croco si erano aperti sulla sassaia brulla e sembravano campanellini d'oro. Stupito, Giuseppe sollevò lo sguardo e vide occhieggiare, dritta sulla grotta sdirupata, una stella enorme, lucente come lui non aveva mai visto una stella. Era come quando si vede la lampada di un viandante nella notte, che appare e sparisce dietro gli alberi o tra le pieghe del mantello. Ma qui non era una sola lampada, piovevano giù verso terra fiamme e fiammelle, fitte come un luminoso immenso sciame di lucciole, molte di più di quante sono di solito le stelle in cielo. Però nemmeno nelle più calde notti, quando le lucciole sono impazzite d'amore e la loro luce è più fosforescente, Giuseppe aveva mai visto una cosa simile. La luce fiottava, sgorgava riverberando attorno raggi il cui biancore argenteo si colorava qua e là di pagliuzze rutilanti, che si accendevano e si spegnevano ritmicamente. La luce di quell'unica straordinaria stella aveva del tutto fatto sparire le altre stelle, il cielo era limpido e liscio come una tavola di marmo, con al centro la stella meravigliosa, una perla trasparente di quelle che indossano le principesse o i re. “Mio Signore!”, esclamò Giuseppe, stordito. Non riusciva a raccapezzarsi. “Non so cosa dire, amico pastore”, mormorò, ma il pastore si stava allontanando , a balzelloni, nel buio della macchia, con le pecorelle che lo seguivano belando: ”Torno, torno con i miei amici”, gridava, e poi: “Eliezer, Caifa! Correte!”. Giuseppe rientrò nella grotta. Maria era sveglia, un leggero sorriso le sfiorava le labbra ancora esangui, stringeva al petto il bimbo, di nuovo placidamente addormentato. Nell'aria fredda, il fiato delle due bestie emanava un po' di tepore...

Signore, beato tra gli eletti e gli angeli, io ti ringrazio”, mormorò Giuseppe. Chinò la fronte a terra, pianse in silenzio, non sapeva perché ma si sentiva felice.


giovedì 19 dicembre 2013


TEOLOGIA E PAROLA
da "Il Foglio"

Può la teologia bloccare la parola? Può intimarle  di farsi in là, di cederle ogni diritto di primogenitura, imporle principi, norme e regolamenti al di fuori dei quali le sarà proibito di circolare? Sembra che succeda, comunque me lo chiedo - sia pure da dilettante, da incompetente. La teologia è cosa  da competenti, cosa può dire alla gente comune, alla gente più o meno  incompetente, come me? Se ne parla parecchio ma se ne sa pochino. Mi pongo la domanda, mi chiedo cosa esattamente si debba intendere per teologia. Tra le tante definizioni, trovo che il teologo presbiteriano di Princeton B.B. Warfield (1851-1921), grande biblista e studioso del pensiero cristiano, ne ha proposto una poi diventata - dicono - classica: "La teologia è la scienza di Dio e del Suo rapporto con l'uomo e con il mondo". "Scienza"? Si può avere scienza di Dio, su Dio? Che direbbero di questa definizione i galileiani rigorosi o gli scientisti irriducibili  (per non dire un mistico - se in giro ce ne sono ancora)? Qualcosa non quadra, mi sembra che qui si parlino lingue diverse, incomunicanti tra loro.

Sfoglio un solido testo di storia della filosofia classica. Mi avverte che la teologia come la intendiamo noi - noi che storicamente non possiamo non dirci cristiani - ha le sue radici nel mondo antico. Lo stesso termine è di conio greco. Platone ne trattò, più o meno esplicitamente, nella sua analisi del divino, Aristotile ne dà una definizione stringente, collocandola al vertice dei saperi umani e subordinandole matematica e fisica. Per lui, la teologia deve essere assimilata alla metafisica, che si occupa  della "Ousia", dell'"essere in quanto essere" nel suo significato più cogente, cioè di Dio, "ed è indispensabile che la scienza più veneranda si occupi del genere più venerando". Mescolate a questi già massicci materiali un pizzico di giudaismo (la creazione ex nihilo) e siamo alla base della piramide dei saperi che ha sorretto e condizionato l'intero medioevo cristiano. Non a caso uno dei suoi momenti salienti è lo scontro tra papato e impero per la egemonia ideale e istituzionale: al vertice dei poteri non poteva esserci che un'unica potestà derivante da Dio. Alla fine bisogna arrendersi, convincersi  (e convincere) che la teologia è un atteggiamento, una cultura, che riguarda esclusivamente l'Occidente nella sua duplice (o triplice) filiazione. Il buddista, il confuciano, il seguace dello zen in una qualsiasi delle sue ramificazioni, o anche il non credente di ogni parte del mondo, cosa capirà di quei venerandi testi di teologia, di quell'intreccio? Addirittura, quanto lo interesseranno? 

Il cristianesimo, figlio (ma anche padre) dell'Occidente, ha una caratteristica che lo rende probabilmente un fenomeno storico unico (gli contende questa posizione l'islam): di essere stato aggressivo, conquistatore, o, se volete, missionario ("Andate tra le genti..."), comunque assolutista: l'Occidente ha ridotto a folklore ogni altra storia. Forse fuori dei suoi confini ideali non c'era storia, non avevano avuto Tucidide, erano rimasti alla storia come mito, favola o leggenda. E la storia che l'Occidente ha esportato è impregnata di un preciso ed inconfondibile provvidenzialismo che va anche oltre Tucidide, perché ha recepito il senso della teologia cristiana. Ma il gigantesco ciclo di questa cultura sembra ormai concluso. L'Occidente ha dato (quasi) tutto quel che poteva dare, oggi lo scambio con il resto del mondo  è reciproco, non più monodirezionale. Il cristianesimo non può sfuggire al suo destino di essere - oggi - cultura tra le culture. E, come la vichiana verità, anche la sua teologia deve diventare 'filia temporis'.

Sono sicuro che se mai venissero dati alle fiamme, e distrutti, tutti i libri di teologia, gli uomini comuni, la gente, gli incompetenti, non se ne accorgerebbero, anche se resteranno stretti attorno al loro parroco, scampato alla furia iconoclasta. Lui continuerebbe a predicare e a parlare di Gesù Cristo, a loro questo sarebbe sufficiente. Comunque, magari per mera simpatia, tra teologia e parola, io scelgo la parola: forse petulante forse incerta, forse ingenua forse furba, a volte sbadata e trasmodante, eccessiva, persino sbagliata: ma quanto la teologia è complessa, rituale, obbligatoriamente tenuta ai suoi canoni e principi, tanto la parola è non-prevedibile, 'protesa' verso un altro che deve di volta in volta individuare e conquistarsi: e dunque laica e - stranamente - necessaria. Quel che resta della teologia, dell'edificio un giorno imponente ma oggi sconnesso, sbriciolato e miseramente autoreferenziale (chi garantisce per lei?) passa ormai  - suvvia: passi, accetti di passare  - attraverso la parola. Perfino il laico - che rifiuta la teologia nella consapevolezza del dramma storico che ne ha consumato il potere e la potenza - può accettare la parola, farla sua. Dialogarci: è attraverso la parola che passa, o può passare, l'accettazione del suo non poter non dirsi cristiano (il laicista no, non riesce a aprirsi a questo dialogo: è qui il suo fallimento). 

venerdì 13 dicembre 2013



                                                    LA NONVIOLENZA DIMENTICATA
                                                                        da "Il Foglio"



"Nelson Mandela, un gigante della storia", ha detto Obama. A metà percorso tra la sua scomparsa e le esequie del prossimo 15 dicembre, mi sia consentito spendere qualche parola sul leader nero. Una grande parte della mia vita è stata coinvolta in questioni attinenti alla teoria e alla prassi della nonviolenza, mi sorprende che su questi temi la morte di Mandela non abbia sollecitato particolari riflessioni o ricostruzioni. La stampa li ha poco più che sfiorati. Anzi, un quotidiano ha così titolato il ricordo del leader africano: “Quando Mandela prese il fucile. Dopo il massacro di Sharpeville la scelta della lotta armata", aggiungendo nel sottotitolo: "L'uomo che amava la pace senza essere un pacifista". L'articolo rievocava la tragedia avvenuta in quella località del Sudafrica il 21 marzo 1960, quando la polizia sudafricana aprì il fuoco su una pacifica manifestazione indetta contro la politica dell'apartheid messa in atto dal National Party. Morirono 69 persone. Il giovane Mandela, già influente leader antisegregazionista, si gettò nella lotta armata, ritenendo ormai vano il ricorso alla nonviolenza. Eppure, il lascito più grande di Mandela è proprio nella tenacia con la quale successivamente mise in opera, con dedizione e sacrificio, quel drammatico strumento di lotta politica e civile di cui Gandhi è stato il massimo banditore. Certamente Mandela non era Gandhi, di cui pure subì l'influenza. Diversamente da lui, Gandhi fece della nonviolenza un metodo, oltreché efficace, affilatissimo sul piano della teoria. Aveva cominciato ad apprezzare i valori della nonviolenza non in India, dal suo coté religioso, ma a Londra, dove studiava legge, negli ambienti intellettuali da lui frequentati e presso i quali la nonviolenza, come il vegetarianesimo o la parità e libertà sessuale, erano idee che circolavano e venivano discusse in ambiti di un fervido socialismo umanitario.

Insieme - come non è stato molto ricordato - a Martin Luther King, Gandhi e Mandela formano una triade di politici che della nonviolenza fecero – in tempi e modi che si inanellano l'uno con l'altro – il loro principale strumento e metodo di lotta. Cosa li univa? Una questione che – non paia strano – evocheremo dal titolo di un libro che sembra parlare di altro: "La nazionalizzazione delle masse”, di G. L. Mosse. La questione dell'ingresso nelle istituzioni politiche di enormi masse popolari fino ad allora escluse per ragioni sociali, ma anche etniche o religiose, non riguarda solo la Germania del XIX-XX secolo. In forme parallele, molti altri paesi dovettero affrontare il problema: il comunismo come il fascismo sono versioni diverse di questo processo. Volendo poi guardare panoramicamente le sole vicende del secondo dopoguerra, scopriremmo che l'epicentro di un analogo movimento di rivendicazione furono gli Stati Uniti, l'America delle grandi battaglie per i diritti civili che ebbero tra i loro protagonisti il Martin Luther King dell'integrazione dei neri, saldata e integrata a sua volta con le campagne per la questione femminile, degli omosessuali e comunque dei "diversi" ed "esclusi", in un mix di lotte libertarie che ha trasformato la cultura e la vita sociale della nazione americana. Fu un periodo di grandi attese e speranze, di successi incredibili, ottenuti evitando i rischi della scelta rivoluzionaria violenta - che poteva essere lo strumento e la scelta più ovvia, secondo gli insegnamenti leninisti e marxisti che pure si ponevano obiettivi analoghi - o, all'opposto, della rozza, sterile  jacquerie. Il libertarismo nonviolento è stato, a mio avviso, la rivoluzione culturale-politica più interessante dell'ultimo mezzo secolo. Rinnovava a fondo, reimpostandola, la logica del liberalismo ottocentesco. Questo poneva al centro le istituzioni, a partire dal Parlamento, cui si poteva accedere con la mediazione rappresemtativo/elettorale; il libertarismo nonviolento poneva l'individuo, con addirittura tutta la sua corporeità, a confronto diretto con le istituzioni, Parlamento e Governo. Il militante nonviolento interloquiva direttamente con l'istituzione, ma non la delegittimava né la combatteva; anzi, per certi aspetti, la rafforzava, depotenziando il dato elitario che la cultura democratica poteva rimproverarle, e anzi le rimproverò, in un dibattito teorico durato assai a lungo.

Senza il metodo della nonviolenza libertaria molte grandi lotte di liberazione, a partire da quella per l'integrazione razziale nel Sud Africa, avrebbero avuto esiti molto diversi, come ammoniva proprio il tragico episodio di Sharpeville. Nel 1963 partecipai con Marco Pannella a un convegno  tenutosi a Oxford per la fondazione della "Conferenza Internazionale per il Disarmo e la Pace" al cui centro erano, tra gli altri, l'inglese Canon Collins, il deputato greco Georgis Lambrakis, Claude Bourdet, direttore di France Observateur, gli americani Bayard Rustin e  A. J. Muste, leader del movimento nero prima di Martin Luther King. Nel confronto-scontro con il pacifismo di osservanza sovietica quelle figure e quelle forze espressero la forma contemporanea della cultura liberale.

giovedì 5 dicembre 2013

DIALOGHI
da "Il Foglio"

Bei tempi, quando tra laici e cattolici era aperto, con gran viavai di condiscendenti eminenze  e generosi intellettuali, un intenso dibattito - o, per meglio dire, "dialogo" - intorno a questioni somme. Ricordate? Creazionismo o evoluzionismo? Prolife o prochoice? Eutanasia no o eutanasia sì? Famiglia o partouze, separazione tra i sessi o gender unico, matrimonio tradizionale o anche tra omo? Fecondazione naturale oppure assistita, eterologa, magari con utero in affitto e sperma crioconservato? E poi: inevitabile, crudele agonia o morte dolce?  Di sicuro qualche questione l'ho dimenticata (anche intenzionalmente, come per esempio quella, criptica e riservata agli iniziati: Concilio Vaticano II sì o Concilio Vaticano II no?) L'elenco era lungo, ma il confine era tracciato a regola d'arte: si stava di qua oppure di là, se uno prendeva posizione - per dire - tra evoluzionismo e creativismo già sapevi come avrebbe scelto anche sugli altri temi. Poi però tra i dialoganti c'era una sottile intesa, con l'eminenza largo nel riconoscere le virtù di una sana laicità e l'intellettuale pronto a rassicurare che un ateo può essere un po' teista e, insomma, proprio tutto ateo non è (magari, lo è o no a seconda delle opportunità).  Si era cavillosi, sempre con l'argomento pronto sulla punta della lingua, furbastro, eclettico o didattico; ma alla fine il dibattito si diluiva in schermaglia, minuetto, acrobazia mentale, non arrivava mai la stoccata micidiale. Più che alla boxe somigliava al wrestling, quella finta lotta che manda in estasi gli appassionati. Gli uni avevano bisogno degli altri e viceversa, se uno dei due interlocutori fosse venuto a mancare, l'altro si sarebbe sentito abbandonato. Insomma un buon "dialogo" era d'obbligo, ma tutti sapevano che non serviva a nulla. Piaceva soprattutto a quanti volevano che nulla cambiasse. E se uno bonariamente osservava che in definitiva un cattolico "adulto" e con i piedi ben piantati per terra le cose riesce a vederle da laico anche lui, senza forzate elucubrazioni, veniva tacitato, redarguito, escluso dalla comunità.

Oggi quei dibattiti sono appassiti, ma soprattutto i loro argomenti sono o inservibili o non interessano più nessuno, a partire dal fondamentale dilemma sul primato tra ragione e fede: la ragione è un po' depressa dalle vicende della cronaca - non solo l'italiana - la fede è immersa di una caligine profonda, nessuno sa più dove nemmeno cercarla. Quei dibattiti facevano parte del rituale del meraviglioso - un po' barocco -  che allora circonfondeva i temi a carattere religioso. Penso abbiano affievolito il rigore laico nel tener fermi i punti nodali del rapporto tra i due storici interlocutori: si capiva da lontano un miglio che l'interlocutore laico era in realtà un laicista, con in testa tutti i pregiudizi del laicismo. Non sono ovviamente in grado di dare un giudizio sui riflessi di quel dialogare sulla teologia e affini; non credo però di aver sentito o letto voci nuove ed alte, amate persino dai laici, come se ne incontravano in tempi non troppo lontani. Avevo l'impressione che la chiesa dei dialoganti fosse ristretta nei confini dell'ecclesiologia e della liturgia. No, diciamolo chiaramente: quel gran dialogare era una sorta di diversivo, il confronto vero si svolgeva su un puntuale - nemmeno dissimulato -  disegno, per il quale la chiesa rivendicava la necessità di uno "spazio pubblico" per la fede. Ma chi glie lo negava? E' dal tempo della Legge delle Guarentigie che quello spazio pubblico i laici glie lo avevano aperto.

La svolta, la caduta di interesse per il "dialogo"  sembra porsi attribuire all'elezione di papa Francesco. Oddio, forse nel corso di un ultimo esercizio dialogante è stata fatta un po' di confusione terminologica, qualche concetto ha fatto storcere il naso ai puristi della fede: meglio lasciare stare, non si ripeta. Anche l'insegnamento del nuovo papa è fondato sulla fiducia nella parola: ma se dialogo deve essere sia dialogo con tutti, non solo con l'intellettuale disponibile. E oggi la chiesa forse davvero si muove, stiamo forse sventolando i fazzoletti per salutare la partenza di un giro del mondo (in solitario?), magari su un catamarano con attrezzature internettiche satellitari. Comprensibilmente, le critiche al nuovo corso non mancano. Si teme che la perdita di punti di riferimento come la liturgia o la formale riassicurazione dei principi non negoziabili possa fare sgretolare il millenario edificio. Ma perché la chiesa dovrebbe aver paura della parola aperta, carica di senso missionario, propriamente evangelico? Abbia il coraggio di guardare fuori delle mura della parrocchia o del Vaticano, ogni compiacimento o autocompiacimento sia  accantonato. Della parola ha paura, non lo si dimentichi, anche il laicista, aggrappato a feticci immobili. Altrimenti, non resterebbe che inchinarsi a riconoscere la grandezza della vera (non "sana") laicità, che la sfida, il rischio della parola libera, dell'aperto dialogo, non solo l'accetta ma la provoca.

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domenica 24 novembre 2013



RACCONTO D’ESTATE



Il frinire delle cicale esce da milioni di violini con una sola corda, su cui folli senza speranza fanno scorrere l’archetto invidioso. Le chiome dei pini sono piegate tutti in una direzione, come fuggendo da un solo grande spavento. Gli aghi secchi scricchiolano, cespugli contorti riempiono lo spazio tra i tronchi, sentieri spinosi sboccano su brevissime radure sabbiose, calpestate solo da amanti. E’ Cézanne il pittore di queste pinete mediterranee grigioverdi, di questi amanti.

L’ingegnere in pensione, l’ex funzionario di una compagnia di assicurazioni, la signora che amministra una vasta tenuta di vini pregiati, si offrono reciprocamente cene, insieme semplici ed eleganti, alle quali invitano gli ospiti di sempre. E’ un rito di questa Toscana esclusiva. Si racconta vuotamente e pigramente del nulla che incombe sulla città abbandonata da loro, villeggianti d'abuso, mentre i fuochi della grigliata sbarbagliano. Gli uomini appaiono un po’ banali, figurine di un paesaggio sociale modesto nonostante le apparenze, gente soddisfatta di carriere e pensioni comode, magari immeritate, povera comunque di idee e di passioni; affascinanti sono invece le loro compagne, le rughe ricamano il volto della signora dagli occhi azzurri che giocano con l’ombretto o l’eye liner, accanto alla quale siedo in attesa del responso del barbecue. Cortese e altruista, lei ha lasciato posto al gruppetto di turisti venuti da fuori per la festa di mezz’agosto; beve un po’ di birra, i suoi occhi escono dal buio come topazi. Lei va al mare, il marito no, lei si distende sulla sabbia esattamente come avrebbe fatto a venti anni, la sua eleganza non ha età. Ride volentieri con i denti forti e lunghi. Racconta all’ospite qualche scampolo della sua biografia, spesa accanto al marito, funzionario amministrativo di una grande catena internazionale di supermercati con lunghi soggiorni di lavoro in Giappone, e lei ricorda volentieri, ma sbiaditamente, la vita in quel lontano paese, forse però ancor più interessata a raccontare le vicende della mobilia quando dovettero farla rientrare in Italia e invece di destinarla a Milano, dove pure vivono, l’hanno girata e fermata qui, in questo loro ritiro toscano così familiare dove però scendono quasi solo in agosto, da buoni milanesi. Vive nell’ansia del passato che le è sfuggito, chissà che non si penta di non averne saputo vedere tutte le occasioni, i momenti occhieggianti nei quali cogliere se stessa: perché penso sia consapevole che meriterebbe, o avrebbe meritato di più, dalla vita. Ma non penso nutra veri rimpianti, è abbastanza soddisfatta anche di poter fare due chiacchiere senza senso con il quasi sconosciuto che le sono io, come se stesse seriamente partecipando ad un rituale sociale, e lei questi rituali li vive e li rispetta, le danno il senso di un ruolo. Non so fino a che ora aspetteremo, il barbecue ci depone dinanzi una bistecca che dividiamo, fraternamente direi, e consumiamo allegramente. Mi sorride, ma non riesco a pensare ad un dopo che ripaghi quel sorriso, forse la mia è una immaginazione senza senso, e a lei va bene così, resterà soddisfatta di questa vuota serata: se ne ricorderà,un giorno? Mi farebbe un grande regalo sapere di essere salvato dall’annullamento grazie al ricordo di questa donna gentile, fatta apposta per me, almeno in questa serata imprevista, regalatami da un amico, casualmente.


***


Verso la riva, il mare si sbianca, si rovescia allegramente sulla spiaggia, dove è solo uno strapuntino di bollicine bianche, sotto il quale appaiono, lucidi, i sassi e i gusci vuoti delle conchiglie. Ma bisogna entrare in acqua con prudenza, il piede può affondare nella sabbia o perdersi dentro una buca insospettata, puoi cadere in un modo ridicolo. Finalmente mi decido. Sono anni che non vengo al mare, quando mia moglie si ammalò e divenne fragile e insicura dovemmo rinunciare al nostro maggiore divertimento estivo, la fuga verso il mare. E come ne godevamo, io andavo a prenderla all’uscita dell’ufficio, verso le cinque, e in macchina ci dirigevamo verso Ostia. Lì c’erano ancora spiagge libere e gratuite. Quando lei, in bikini, si allungava sul suo asciugamano e chiudeva pigramente gli occhi, il sole già era obliquo. La spiaggia era del tutto deserta. Io allungavo la mano sotto il bikini, e carezzavo quella pelle soda e liscia. Lei diceva: “Mi piacciono, le tue mani”. Non osavo chiederle a cosa pensasse, mi metteva in soggezione la puntura dell’immaginario, di quella che era stata prima di incontrare me, così casualmente eppure felicemente
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In casa, ha riempito il vuoto delle ore con gesti inutili e superflui. E’ venuto qui su invito dell’amico proprietario del bell’appartamento, e soprattutto per fuggire l’angoscia che lo opprime continuamente da quando gli è morta la moglie. Ora si gira e rigira sul letto, le ore pomeridiane sono intrise di un silenzio carico di imperscrutabili minacce. Ha provato a leggere, si è portato da Roma libri impegnativi, deve impegnarsi, riprendere a vivere partendo dalle cose difficili che teme di aver dimenticato, o di poter dimenticare adesso che ha perduto il suo centro di riferimento esistenziale, la moglie con cui ha convissuto decenni senza nemmeno accorgersene, e ora gli piombano addosso pesantemente, ponendogli non interrogativi, ma solo risposte inaccettabili.

L’ospite può forse apparire, ai loro occhi, ineducato, perché raccoglie le zucchine sulla forchetta aiutandosi con il coltello, invece della mollichella di pane. Appartiene, prima che a una diversa categoria sociale, ad una diversa categoria mentale. Si sente infatti, tra questi compiti commensali, a disagio.

Dubitò di averla mai davvero amata, sospettò che il loro fosse stato un rapporto di necessità, almeno il suo, necessità frustrante, dal quale non era mai riuscito a liberarsi, per una sorta di viltà.

Invitami, invitami ancora! Ti prego! Ne ho bisogno, ho bisogno di queste cose!” Il treno singhiozzò un poco, poi partì, se lo portò via, cullandolo come un bambino riluttante. Sparirono, come è ovvio, alla prima curva.


giovedì 21 novembre 2013


                                                                           B.L.

Mi rigiro nel letto, assediato da nomi e immagini: Constance Dowling, chissà perché, l'attrice americana per la quale si suicidò, dicono, Cesare Pavese. Altri tempi, nuovi ricordi, tumultuosi. Più o meno a quell’epoca una sera, o una notte, fui chiamato da un amico, al telefono che mia madre aveva appena fatto installare, così anche i vicini di casa potevano venire ad usare il nostro telefono, appeso al muro su una mensoletta, a metà della scala che portava al piano superiore. Siccome la scala non era riscaldata, per andare a telefonare, d’inverno, bisognava infilare il cappotto.

Io me ne stavo in camera mia a leggere Hegel, o Kant, non ricordo. Mi disse che stava male, che andassi a raggiungerlo, aveva bisogno di me. Mi diede anche un numero di telefono per rintracciarlo, all’occorrenza. Uscii di casa, presi uno  o due tram, non ricordo. Traversai Ponte Garibaldi e il Tevere. Non doveva essere una notte fredda, anzi. Mi incamminai per le strada che mi era stata indicata dall’amico, ma non scorsi niente, silenzio e deserto. Trovai una cabina telefonica, mi ci chiusi dentro, la voce che mi rispose era femminile, mi sembrò americana, comunque non italiana. Venne anche l’amico, al telefono, mi spiegò l’equivoco: in zona c’erano due strade dal nome simile, Via della Lungaretta e Via della Lungarina, ci si sbagliava facilmente. Sarebbe sceso lui, immediatamente, per dirmi dove andare. E difatti, esco dalla cabina telefonica e mi avvio nella direzione indicatami dall’amico. La nebbia stava salendo dalle rive del Tevere, forse resa più spessa e lutulenta dai fumi e dai vapori dei detersivi che allora pagavano lo scotto della fretta e dell'avidità e inquinavano parecchio. Infine scorsi l’amico ce avanzava verso di me. Sembrava Orson Welles quando appare, di notte, nella Vienna disastrata e incantata de “Il terzo uomo”: poteva esserlo, eccome no.

Mi strinse familiarmente il braccio, mi ringraziò di essere andato, dopo pochi passi mi spinse verso un uscio stretto, all'estremità arrotondata di un edificio tipico della zona, lievemente rococo. Salimmo non so quante rampe di scale, non molte peraltro, mi fece entrare in un portoncino dipinto di verde e oro, con figurine tipo una scenetta d’amore contadino, villereccio, con veneziane e veneziani nei loro costumi lascivi, ecc., ma dipinta, mi parve, di recente. Erano appartamenti decorati e ammobiliati per attori, attrici e attricette che allora calavano a Roma fin da Hollywood, in cerca di esotico, forse di un decantata ingenuità e freschezza di sentimenti, ecc., di cui l'Italia era ritenuta, non so quanto credibilmente, depositaria. Constance Dowling, per dire, doveva essere di quella pasta. Entrai comunque, e mi si fece davanti la padrona di casa, una attricetta inglese che conoscevo più di fama che per averla vista in qualche film del tipo peplum, che allora andavano. Non era Constance Dowling, forse era di un gradino più sotto. Ricordo il nome, ma scrivo qui solo le iniziali, B.L. Era avvolta in un chimono che suppongo originale, di un bel rosso bandiera, adornato di draghi ed altre figure di quel pantheon, d’argento o d’oro, intrecciati.  Immaginai, e forse era nel vero, che sotto fosse nuda.

L’amico era di casa ma anche servizievole. Mi mise in mano un bicchiere di bourbon, alle sue prime apparizioni sulle sponde del Tevere. Vedevo, oltre il parapetto del fiume, la casa di Milton Gendel che allora a Roma contava parecchio, era come il guru della colonia artistIca americana. Lei si distese su un sottile sofà - o una chiase-longue - io mi sedetti di fronte, accanto l’amico, mi pare su un puff. Allora usavano. Lei parlava discretamente italiano, il mio inglese faceva schifo, l’amico traduceva, quando necessario.

Mi chiese, con garbo, cosa facessi, io  le spiegai che il suo amico mi aveva chiamato al telefono, nella notte, e aveva osato spacciarsi come infelice e depresso, quindi bisognoso d’aiuto, e poiché io credevo di essere il suo unico amico  gli avevo creduto, ed eccomi ora lì, sicuro però che, tra i due, ero io l’infelice, bisognoso di soccorso spirituale e morale, e proprio non capivo cosa il mio amico potesse pretendere da me, che più che il sesso conoscevo la “Metafisica dei costumi” kantiana. Chiacchierammo a lungo, anche amabilmente, trovai in me l’energia della fatuità che è incredibilmente dispendiosa: tanto che, dopo un’oretta o poco più, tra l'emozione per l'ambiente e l'incontro, ma soprattutto per il bourbon, ero sbronzo. Mi accomiatai, non ricordo se mi offrirono un tassì. Forse arrivai a prendere il tram, magari era l’ultima corsa. Mi ricordo che quando scesi barcollavo e dovetti farmi forza per trascinarmi fino a casa. A casa dormivano tutti. Dovetti battere i pugni sul portone perché qualcuno venisse ad aprirmi.  Non avevo la chiave, mio padre non voleva che ce ne fosse in giro più di una copia, aveva il terrore dei ladri, come delle tasse e delle assicurazioni. Aprirono, finalmente, dovettero vedermi malconcio, mi spogliarono e mi misero a letto. Avevo le estremità, le mani e i piedi, atrofici dal freddo e dai liquori; suppongo che il sangue vi si fosse arrestato. La sgualdrina che allora frequentava casa come donna delle pulizie mise sul fuoco pentole e pentolone, in quell’acqua bollente gettò a scaldare stracci e panni e con questi vennero avvoltolate le mie estremità, del tutto ormai inerti... Intorno a me scorgevo appena i volti ansiosi di tutta la famiglia. Mi parvero grotteschi, più che miserabili. Ma io scorsi allora, in quelle facce, tutta la merdosa miseria del mondo, scoprii le loro illusioni, misi a nudo, scorticai, tutta la loro umana infelicità e tutta glie le scaricai addosso, balbettando e piangendo: lo feci non per cattiveria, ma perché ne avevo il cuore gonfio, e non reggevo più, da solo, a tenerle dentro, certe cose. Fu una notte spaventosa, quella, davvero...

Anni dopo la rividi, l'attricetta. Stavo pranzando a un ristorante nella piazzetta sotto la casa di lei, ma di sicuro non pensavo a lei. Ero in compagnia di quella che poi è diventata mia moglie. L'attrice ci passò accanto, ovviamente non mi riconobbe. Aveva al guinzaglio un cagnolino nero. Era molto ingrassata.



sabato 16 novembre 2013

                                               IL GATTO


Il gatto era da qualche tempo scomparso: non appariva più, la mattina, attraversando a balzelloni in diagonale il prato; non lo scorgeva più, da dietro i vetri della porta-finestra, mentre con l’occhio fisso e attento lo seguiva nel suo aggirarsi nella cucina sorseggiando il caffè - per esigere subito dopo, con pazienza intollerante e inflessibile, la quotidiana razione di avanzi o l'apertura di una nuova scatoletta. Eppure si faceva notare, quel micione - era a suo modo maestoso, nero con una placca bianca sul petto, quasi un'apertura sul vuoto senz’anima della bestia.

In vestaglia, in piedi davanti alla vetrata, preparò come il solito il caffè e lo sorseggiò lentamente. Il cielo era quello di una mattina amarognola e senza promessa di sole, i cipressi disegnavano le nuvole, le colline erano appena rivestite di verde, le roverelle avevano foglie di fiamma, qualche rosa generosa ancora fioriva, spampanata. Un paesaggio autunnale, però simpatico, dopotutto. Ma lui avvertiva un vuoto fastidioso, estraneo alle sue consuetudini, dunque a quella meditazione sulla vita che egli conduceva, con la memoria degli avvenimenti - lontani o vicini però sempre vivi, anche i più insignificanti  - coltivati assiduamente durante l'intera giornata, appena gli riusciva di tralasciare le consuete faccende e chiudersi in se stesso. Decise di uscire, subito appena possibile, per una passeggiata. Senza mèta, un vagabondaggio nei dintorni, tra stradine, prati e dossi coperti di ginepro spinoso. Non se lo confessò apertamente, ma forse sperò di incontrarlo, il suo gatto preferito.

Nella zona, i gatti abbondavano. Ti ci imbattevi anche lontano dal paese, mentre si aggiravano con il loro passo felpato e ondulato, solitari. Erano gli stessi che ogni mattina lo attendevano, fin dall’alba, sul breve terrazzino, finché lui non gli aveva buttato una manciata di cibo, una mezza scatoletta, l’avanzo della cena del giorno prima. A volte si stringevano in un gruppetto, a volte - come sempre diffidenti e ostili l’uno all’altro - si presentavano da soli. Lui si divertiva a quella presenza selvatica e accanita, amava la impaziente mobilità delle bestiole in caccia di cibo, loro che poi, appena soddisfatte e saziate, si allungavano pigramente tra sole e ombra e lì sonnecchiavano per ore con le orecchie vive e mobili come radar, attente al più sottile movimento, fosse anche quello di una lucertola minuscola, quasi una neonata!, in esplorazione sul mondo, testimonianza di una vita sempre rinnovantesi ma che il gatto avrebbe spietatamente messo in forse, aggredendola d'un balzo, appena appena avesse colto  il fruscio della sottile coda contro una fogliolina secca... 

Camminò abbastanza a lungo, si spinse un po' più lontano del solito, buttò gli occhi  nelle pieghe più oscure delle siepi, dietro ogni anfratto e ciuffo verde attendendosi di vederlo saltellare e zampettare, scuffiando e sogguardandolo di sotto in su, di sicuro riconoscendolo ma sempre tenendosi lontano, con la diffidenza propria di quelle bestiole solitarie. Niente. Scorse altri gatti, piccoli o grandi, ma non quello, il suo preferito.

I giorni passarono, il gatto non si presentò più sul terrazzino, a riscuotere il suo obolo. Dovette convincersi che qualcosa era successo, forse l'irreparabile.

                             *

Finché, un pomeriggio, nel fossatello asciutto di una delle stradine che portavano fuori del villaggio scorse un mucchietto di pelliccia stazzonata e sporca. Era quanto restava del gatto. La morte lo aveva rattrappito, immiserito: l'occhio era aperto ma vitreo, i denti, tra esangui gengive scarnite, erano sporchi di terra, le zampe irrigidite in una posa senza grazia. 

Dunque, la bestiola era morta. Non sarebbe mai più tornata, trafelata,  a mendicare dolcemente il cibo che gli era dovuto in virtù della sua esigente consuetudine. Un'altra vita si era spenta, di quelle in cui specchiava la sua e che confortavano lo scorrere dei suoi giorni in una attesa - serena, industriosa, fitta di imprescindibili piccole cose quotidiane - di quella fine che non poteva essere lontana, con la quale si poteva solo giocare in un pacato rimpiattino perché di essa nulla sapevano, né lui né gli altri, né tantomeno il gatto stesso. Sarebbe vissuto, ora, senza quell'apparizione sempre troppo sollecita. Gli parve un amaro sacrificio, anche se si ripromise di non doverne parlare con alcuno, per non essere frainteso o preso in giro, perfino.
                             
 Ma come poteva esaurirsi e scomparire, una vita? Come poteva, lui, fare a meno di una vita così significativa come era, per lui, quella del gatto? Per lui e forse lui solo, ma già questo doveva pur pesare qualcosa, doveva pur voler dire qualcosa. Una vita che significhi per qualcuno non può scomparire così nella voragine dell'annullamento. Il fatto che un essere significhi, che divenga un soggetto per qualcuno, per qualcun altro, non può esser completamente una beffa di inutilità. Quella vita aveva significato, aveva espresso modi e sfumature che ne avevano fatto (sia pure per lui, per lui solo) una identità precisa, divenendo perfino delicatissimo contenitore di speranze, di memorie, di allusioni, di intenzioni impalpabili ma non meno (per lui) vere. Non poteva dunque sparire nel nulla. Un mondo che contemplasse un tale annullamento cieco, un così brutale colpo di spugna, non poteva che essere un mondo inutile.

La morte del gatto gli fu insopportabile, gli divenne fonte di tormentose introspezioni, perché essa palesemente finiva col condannare lui all'inutilità, mostrandogli quanto caduco fosse ogni suo pensiero e persino ogni suo affetto, ogni sua intenzione e attenzione. Che spreco di energia era stato l'affezionarsi, l'attendere, il dialogare, il giocare, il nutrire la bestiola. Per tante mattine, tanti giorni, tanto tempo aveva dedicato una parte infinitesima ma non del tutto infima di sé e del suo fare, del suo tempo e del suo pensare indirizzandolo verso una entità, un soggetto che ora era sparito, annullato, e annullandosi si portava con sé, ingoiandoli nel nulla,  tutti quei suoi movimenti dell'animo, quegli impalpabili accadimenti interiori. Impossibile. Si ribellò come ci si ribella dinanzi ad un furto che subiamo, quando rientrando in casa troviamo le stanze disselciate rispetto all'ordine in cui le avevamo lasciate. Un furto ferisce terribilmente, per questo sconvolgimento, che annulla la parte di noi che è rannicchiata nell'ordine che diamo alle nostre cose. La morte del gatto lo pose dinanzi, per la prima volta, al furto irrimediabile, definitivo, di tanta parte di sé. Vi si ribellò furiosamente.

E allora pensò, per la prima volta, che in qualche parte, in qualche modo, doveva pur esservi un mondo perfettamente identico al nostro, nel quale tutte le essenze, le vite, le entità di questo siano conservate e ripetute nel nel loro preciso e indistruttibile significato. Un mondo in cui le identità non sono annullate e dal quale esse non possono essere cancellate. Ecco, questa sola può essere, pensò, la giustificazione, la  forma possibile (e necessaria) dell'eternità, che giustifichi, col suo esserci, la stessa possibilità, comprensibilità e accettabilità del nostro mondo, della sua inguaribile, inaccettabile, futilità.
                                                                *


martedì 12 novembre 2013


Juan Ramon Jiménez

¡INTELIJENZA, dàme
el nome exacto de las cosas!
...Que mi palabra sea
la cosa misma,
creada por mi alma nuevamente.
Que por mí vayan todos
los que no las conocen, a las cosas;
que por mí vayan todos
los que ya las olvidan, a las cosas;
que por  mí vayan todos
los mismos que las aman, a las cosas...
¡Intelijencia, dàme
el nombre exacto, y tuyo,
y suyo, y mio, de las cosas!

sabato 9 novembre 2013



Ô mort, vieux capitaine, il est temps! levons l’ancre ! »
(«Le Voyage », Ch. Baudelaire)

Parlare del dopo (1). Scusate, non c’è nulla di più piacevole, o anche di più urgente, su cui intrattenerci? Parlare della morte, del dopo! Un domani tanto lontano… Che? Oddio!… Mi chiedete addirittura di parlare del “mio” dopo? Così su due piedi? Facciamo le debite scaramanzie! E metterlo in piazza, suvvia … Io sono molto sensibile, fragile di stomaco. E poi, il mio dopo… Io mi farò cremare, punto e basta.

Parlare del dopo (2). Cosa volete che venga fuori, ormai. Se ne è parlato e straparlato per secoli, peraltro spudoratamente, senza saperne proprio niente! Un mio amico, affiliato ai “Bimbi di Satana”, mi assicura che sulla morte e sul dopo loro ne sanno molto di più di quel che possano vantare i preti. Va bene, balle qui, balle là. Oggi, grazie alla sobrietà della moderna cultura scientifica, quel che viene richiesto nel merito è un referto, non più di cinque, dieci righe su moduli prestampati. Di ciò che non conosciamo cosa di più potremmo dire? Sogni, vaneggiamenti, incubi, cattiva digestione serale, flatulenze da meteoropatici. Sì, la scienza moderna è un grande disinfettante del pensiero: senza preti, filosofi e poeti, la morte è una faccenda semplicissima. Adesso, addirittura, l’attimo e le modalità del suo arrivo sono divenuti un dato convenzionale. Senza rimpianti, abbiamo sbaraccato via l’antichissimo detto secondo cui l’uomo muore quando “il suo cuore cessa di battere”. Era un modo di dire carico di significati extrascientifici, non verificabili, piuttosto sul patetico. Adesso la morte avviene - anzi, viene fissata - al momento in cui cessa l’attività cerebrale. La definizione è del tutto arbitraria, però consente di poter tempestivamente strappare al morto - chiamiamolo così, per approssimazione - utilissimi brandelli da utilizzare per allungare altre vite. Perfino la chiesa concede dilazioni convenzionate - una mezz’ora, un’oretta - per l’estrema unzione. Chi ci rimette è il dopo: senza un orario biologico preciso, senza certezze naturali, mette l’angoscia. Non possiamo più inginocchiarci in raccoglimento dinanzi al letto dell’agonizzante: vorremmo poterlo dichiarare morto per esplicita volontà di Dio, e quindi attaccare serenamente con le preghiere e i rimpianti. L’anima sta lì, impaziente, con le valigie a terra, bussa alla porta del dopo ma questo si apre a orari sindacali. E’ solo con l’avvento delle questioni etiche e sensibili, tipo il testamento biologico, l’accanimento terapeutico, l’eutanasia, o con l’ingresso in campo terapeutico di sofisticate macchine capaci di allungarti la vita persino oltre la sopportazione - come la ventilazione artificiale, la nutrizione per sonda gastrica, eccetera - che il momento della morte è tornato a offrire un qualche brivido, dando adito perfino a eccitanti dispute tra spirito e materia.
Shakespeare, la “Tempesta”. Alla fine del IV atto, Prospero saluta gli spettatori: “La nostra baldoria è finita… Come l’edificio privo di sostanza che è questa visione:…tutto quello che ha in retaggio svanirà, senza lasciare traccia. Noi siamo della materia di cui sono fatti i sogni, e la nostra piccola vita è circondata dal sonno”. Il tragico inglese raccoglie, e trasmette a noi posteri, l’immagine della vita come rappresentazione, spettacolo senza realtà e sostanza: vana materia di cui sono fatti i sogni. Ma se la vita è una “baseless fabric”, apparenza, spettacolo rappresentato su fondali di cartapesta, quale potrà mai essere, che consistenza potrà avere, il dopo di questa messa in scena? Pare che Augusto, morendo, abbia chiesto a quanti lo assistevano: “Ho rappresentato bene la mia parte?” Per i romani la “persona” era la maschera indossata dall’attore, il quale recitava col volto celato da quella. L’anima esprimerà l’identità della maschera - la “persona” - oppure quella dell’attore che le si nasconde dietro?
Alla morte si addice l’aforisma. Come l’epitaffio inciso sulla lapide della tomba canoviana sulla quale si abbandona, reclinata, la fanciulla “rorida” di lacrime (sembra uscita da un bel verso foscoliano o leopardiano) l’aforisma è marmoreo, immutabile e definitivo, senza tempo e spettrale: ha il timbro perfetto per introdurci al dopo.
Ho dimenticato in quale sequenza vadano disposte le due icone, il “Trionfo della morte” e il “Trionfo del tempo”. Mi chiedo, ansiosamente: è la morte che trionfa sul tempo o, invece, è il tempo che trionfa sulla morte?
Pare accertato: l’uomo non è più una belva, o bestia, da quando ha cominciato a seppellire i suoi morti invece di abbandonarli lungo le piste delle savane. Il seppellimento è cerimonia, innalzamento della morte nella sfera simbolica, linguaggio. Con la sepoltura, il morire significa. Significa, anzi, qualcosa di inquietante. Il vivente sente il morto come “altro”, e questo “altro” lo allarma. Allora pone accanto al suo corpo doni gratificanti che lo accompagnino, lo intrattengano. Il vivente si è fissato che quello là possa riapparire, chiedergli qualcosa, forse ricattarlo, minacciarlo di prenderselo con sé, di portarlo via nel suo mondo, che è un mondo alla rovescia, il negativo del mondo dei viventi. Bisogna assolutamente impedirgli di tornare, di rifarsi - come dire - vivo. Ma questo temutissimo tornare è già di per sé - chi lo avrebbe detto? - uno scacco al dopo. Il possibile ritorno dal mondo dei morti a quello dei viventi demistifica, svalorizza il dopo, quel luogo vagheggiato che immaginiamo nobilmente abitato da spiriti, ombre, anime. Queste sono infelici, senza pace, si annoiano, il loro trasparente pallore non può dare, né ricevere, amore. Non stupisce se sono sempre prontissime a ritornare sulla terra. A rifletterci bene, loro stesse negano il dopo. Dicono, anzi gridano che ciò che conta non è il dopo, è la vita fatta di carne e ossa, e dunque esse aspirano a ritornarvi. In Virgilio le ombre, all’imboccatura dell’Averno, fanno a spintoni per poter bere il sangue, sugo e calore vitale, che Enea gli offre perché parlino. Mi pare che anche nella concezione cristiana del Giudizio Universale si insinui l’aspirazione all’annullamento del dopo, al ritorno a questa vita, addirittura svincolata dal tempo e dai suoi limiti. Si prega Dio, “dona loro la vita eterna”: mica una morte eterna.

Adesso ci si mettono anche le diavolerie (?) telematiche. I siti, google, “You Tube” e finalmente “Second Life”: una “seconda vita” fantastica, molto meglio, più “handy” delta logora triade di inferno, purgatorio e paradiso. Sta lì, distante da noi solo di una cliccata, e soddisfa tutti i desideri e le fantasie, un gioco di “Monopoli” mobile, interattivo e reversibile. E’ una “second life” che ti puoi godere durante la prima vita. C’è il sospetto che tra non molto l’intera umanità si trasferirà nel villaggione telematico riproducendo a puntino il mondo dei viventi, un po’ come già adesso ci capita, senza che lo sappiamo, con “google earth”. Divenuti pura energia inconsumabile, saremo finalmente immortali.
Sono molto arrabbiato per la liquidazione per decreto del limbo. Un vero errore. Togliere ai bimbi il limbo, è come togliere loro “Biancaneve e i sette nani”, quella di Disney (il limbo, un fanciulletto se lo immaginava così). Da piccolo, soffrii parecchio sulla sorte di un infante, figlio di vicini di casa, morto poco dopo esser nato. “E’ andato nel limbo degli innocenti”, commentò mia madre, e mi fece piangere. Sentii attorno a me, al mio piccolo cuore infantile, aleggiare il profumo dei gigli che adornavano quel corpicino. Invidiai una morte così pura, ero consapevole che essa era ormai impossibile per me: la mia innocenza cominciava precocemente a incrinarsi. Che dolci lacrime furono quelle! E ora, bruscamente, apprendo che la patria dell’innocenza non c’è più, anzi non è mai esistita. Voglio essere risarcito di questo scippo. Non c’è però solo la perdita del limbo. L’affabulazione cristiana si impiglia nella sempre più diffusa difficoltà, se non impossibilità, di concepire (e fare accettare) il dopo come il tempo deputato al giudizio riparatore, alla restaurazione della giustizia offesa e disattesa nella vita, come ci viene raffigurato dall’Orcagna o da Dante, per capirci. Il riscatto ultraterreno, il paradiso offerto a colui che ha patito ingiustizia, al povero, al reietto, a chi si è visto spogliare di tutto dalla violenza e crudeltà degli uomini e si affida alla promessa di non essere costretto, come il ricco, a passare per la cruna dell’ago per essere risarcito, il paradiso intravisto come giardino di delizie che soddisfi in compiuta abbondanza i desideri ingiustamente inappagati e repressi (“perché mi sono negati? perché solo a me?”); e d’altra parte l’inferno, quale esatto rovescio del paradiso nel quale ficcare tutti quelli che odi, che invidi perché più belli, buoni e bravi… Tutta una mitologia che ha perduto ogni credito. Il pareggio dei conti con la giustizia lo vogliamo in questa vita, nessuno ha tempo di aspettare, competition is competition. Il dio che siede come giudice buono sullo scranno nella basilica luminosa ed eterna non ha appeal. Mi pare che ormai il cristianesimo tenda a superare questa concezione, a liquidarne le difficoltà ed incongruenze, parlando sempre più, invece, del dopo come il tempo del trionfo dell’amore, dell’amore luminoso in cui l’anima si dissolve per fondersi in Dio. Qualche teologo insiste - secondo l’etica capitalista - sul concetto di retribuzione secondo i meriti e non secondo i bisogni, come vorrebbero certi attardati socialisti, ma resta inascoltato. Non fosse per quell’aggettivo - misericordioso - che viene attribuito, come sua essenziale parte, all’amore divino, questa forma del dopo paradisiaco sembrerebbe una vittoria, o vendetta, del neoplatonismo.
Nel dopo, non c’è più bisogno della privacy: diciamocelo, la privacy, come il pudore, ci serve - e comunque ci è utile - per nascondere i nostri peccati, le nostre vergogne. Le anime vanno in giro nude, meno che nella Cappella Sistina.
La morte è un racconto raccontato da altri. L’atto supremo e conclusivo del vivere non appartiene al suo protagonista. Chi muore, diventa dominio di altri. Sono loro a raccontarne la morte, a raccontarla come loro la vedono, la soffrono, addirittura come la vivono. Quello che noi sappiamo della morte è in questi racconti, i racconti degli spettatori dello spettacolo.
Ho avuto esperienze già infantili della morte. Di quella strana, incomprensibile faccenda mi sono raccontato più volte la storia. Cercavo spiegazioni con la pignoleria dell’incoscienza. Ma quelle mi si rifiutavano quando ammazzavo a sassate la lucertola, che agonizzava a lungo con le budella di fuori, la coda tremolante. Il dopo della morte era già lì davanti a me, non richiedeva spiegazioni, non c’era più nulla da dire. Ricordo quando mi morì la biscia che avevo esposto incautamente al sole dentro un contenitore inadeguato. Le bisce le afferravo con le mani tra i canneti e le stoppie, vicino al Tevere, le nascondevo sotto il letto. Quella morì, e ne portai a lungo un atroce rimorso. Ma per quanto ci pensassi, per quanto mi ci arrovellassi, mi veniva alla mente sempre e solo quel momento, il momento del decesso, la cronaca di quegli istanti di orrore. Anche per gli uomini, più tardi, il dopo della morte è stato per me racchiuso nel ripetersi, sempre identico, dei momenti successivi alla morte, quel che vedevo svolgersi lì intorno nella stanza, in quel silenzio strano che incombe, pur se percorso da mille inconfondibili rumori, attutiti e soffocati, perfino nell’odore che ristagna a lungo. Sì, sospettavo che quei momenti nascondessero strani segreti, qualcosa d’altro a me ignoto, adombrato e pronto a dileguare appena percepito. Io però non volevo saperne, e nascondevo la testa quando quei segreti minacciavano di uscire fuori, di rivelarsi. Forse non volevo assumermi responsabilità: forse, ancor peggio, non volevo crescere. Chi non ha provato, almeno una volta, questa straordinaria sensazione, o tentazione?

Morì, non ero ancora un adolescente, mia nonna. Mio padre mi chiamò in disparte, mi sussurrò che era morta sua madre. Viveva con noi da quando era rimasta vedova. La salma venne vestita dalle donne di casa. Pochi, del vicinato, erano venuti a depositare due fiori, a recitare giaculatorie dinanzi al grande letto. Fui finalmente ammesso nella stanza. Vi restai a lungo. Anche solo, nel primo pomeriggio, mentre la stanza si appesantiva sempre più di odori strani, stramortiti, misti di fiori appassiti e di candele sgocciolanti in serpentine, fino a terra. In casa tutti dormivano, e io osservavo con ribrezzo il profilo della defunta, chiuso nei suoi incolmabili pensieri, farsi sempre più grifagno. Mi intimorì, mi riempì di antichi terrori, mi richiamò a quella pratiche religiose che a lei erano usuali e che io a volte avevo tentato di imitare. Raccolsi dal comodino a capo del letto un libro di preghiere, con la copertina nera e l’orlo delle pagine dorato. Lo aprii a caso, aveva bellissimi caratteri e i capolettera rossi, incorniciati da un filetto d’oro. Io pensavo che fosse nell’oro il senso loro più intimo e, almeno per me, inimitabile. Quelle pagine mi attiravano sempre, le scorrevo con attenzione compunta. Cominciai a leggere, a recitare gli inni, le giaculatorie, le orazioni: “Kyrie Eleison - ora pro nobis”, “Sancta Maria, mater gratiae - ora pro nobis”, “Christe, eleison - ora pro nobis”. Sedevo sulla poltrona a fianco del letto. Il letto aveva la testiera metallica patinata di marrone, la coperta color vinaccia con una trina di ghiande che pendeva sfilacciata. Il corpo della nonna era di una immobilità infinita. Mi alzai di scatto, estrassi dalla tasca le palline di resina ambrata che avevo raccolto dagli alberi del giardino. Ne presi un paio, mi avvicinai alla morta. Mi tremavano le mani, la morte era un gelo inspiegabile. Riuscii a sollevare un poco il dito avvolto attorno al rosario con il crocifisso, deposi le due palline di resina. Il dito si richiuse sul dono. Rimasi qualche istante immobile. Mi sentii liberato, innocente di ogni colpa, non solo verso la defunta.
L’errore della modernità, del laicismo postilluminista, è stato di pensare che, con l’avvento della ragione, il progresso delle scienze, l’evoluzione della società, la paura della morte sarebbe scomparsa, assorbita in una razionale comprensione e accettazione dell’evento. I lumi avrebbero scacciato le tenebre dell’ignoranza superstiziosa. Conoscete Goya, quello de “il sonno della ragione genera mostri…”. Cartesio pone al centro delle certezze lo “Io cogito” che mette fine all’irrazionalità di una storia fatta di errori, di menzogne del potere, di mistificazioni operate da preti e ciarlatani. Tutto vero, ma anche tutto reversibile: anche la ragione, e i suoi sacerdoti, possono produrre mostri e mistificazioni. Contro il nuovo inganno, si levò subito la grandiosa saggezza storica di Vico, che esaltava “le are e templi” come costitutivi dell’umano fare: l’errore è parte della storia e, se si vuole, pure la menzogna. Dunque, anche la paura della morte, l’immaginario del dopo, ha una sua verità. Consentendo alla modernità, imponendo la fine dell’elaborazione culturale della morte, irrisa come pregiudizio, superstizione, inganno dei preti, abbiamo aperto la strada alla sociologia o alla psichiatria. Ovviamente: non si può mica pretendere da tutti il disincantato pessimismo degli stoici, con la loro lucida teoria del suicidio come porta della libertà.

“Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male”.
(“Cantico delle Creature”, S. Francesco)







Hieronymus Bosch, olandese, 1450-1510, le punizioni infernali delle anime prave
Adesso, se verrà accolta alle nazioni Unite la moratoria della pena di morte, ci mancherà anche quel formidabile repertorio di immagini, sensazioni e mitologia che erano le riprese, le ricostruzioni delle esecuzioni capitali in USA, con il “dead man walking”, il “braccio della morte”, lo spettacolo attraverso i vetri offerto ai vendicativi, insaziati parenti della vittima. L’industria cinematografica americana perde un bel “topic”…

Pieter Brueghel il Vecchio, il “Trionfo della morte”, 1562, E Dürer, con i suoi scheletri a cavallo che falciano, falciano (simbolo agricolo, oggi forse incomprensibile)

Forse, il primo mio incontro con la morte fu per mia nonna

Spoon river antology



Come a Piazza del popolo, le tricoteuses.
Murat e Ischia,


                        
Siamo legittimati dal tempo,dalla sua durata. Non possiamo fare a meno del tempo, e dunque aspiriamo, conseguentemente, all’eternità, per non essere sottratti al tempo e dunque scomparire. Il nostro io non lo sopporterebbe: ecco perché abbamo scoperto, ci siamo inventati l’eternità, che è semplicemente un dopo infinito.
Il potere e la morte. Il tragico ha come orizzonte la morte, il comico no, solo la vita.
Morire non è, dunque, per la specie umana, un semplice passaggio di stato, come vorrebbe – come ha tentato di convincerci l’illuminismo, il laicismo, il progressismo, cone le loro campogne contro le fole dei credenti. La morte diventa il punto conclusivo di quell’eterno presente in cui siamo immersi, incomprensibile cesura che non è cesura, perché il morto continua a vivere con noi, ecc.
Scomparsa del memento mori

Yorick, sul teschio, canto della vita, ecc. il teschio e lo scheletro, nel medioevo e nella controriforma. Nel rinascimento, lo scheletro diventa un referto di anatomia. Poi, Murat, cimitero dei capuuccini, ecc., fgià appunti esistenti, copmpreso canova.

Che ne so io, dei miei percorsi? I miei percorsi mi attraversano.
L’amore misericordioso: dove solo il misericordioso non è neoplatonico
Accorgersi che la morte è un male collettivo, di massa, scandito da una conta. Oggi, c’è per noi l’acuta percezione di essere anche noi, nel morire, nulla più che un numero.
Perché pensare che la filosofia possa essere consolazione della vita, consolazione dalla morte?
Ci sfugge la sua verità, quella che si esprime nella sua attualità, nel suo presente, nel suo presentarsi a noi. C’è un detto, attribuito non so se a uno stoico, a un epicureo o a un cinico: quando sei vivo, la morte non c’è, quando c’è la morte, tu non ci sei più; e dunque, di che preoccuparsi? Ce ne preoccupiamo, invece. Preoccuparsene forse è un male, una esagerazione pagata con disturbi di vario genere: occuparsene, almeno un poco, mi pare invece un bene, una attività non priva di utilità. Persino di segreti, magari inconfessabili, piaceri.

11356
Pannella non pensa al dopo
"Estote parati", lesse.



La morte, ridotta a fatto personale….
Perché il dopo è puro immaginario. E’ sublime creazione, anche essa, dell’uomo. E’ il senso vero del simbolismo di Foscolo, sicuramente più ricco del tetro romanticismo di Thomas Grazìy. Gli inglesi sono maestri nel progettare i cimiteri, lì, tra quel verde e quelle lapidi corrose, mai o rarissimamente pompose, ildopo è proprio a fianco dell’oggi, la morte si fa percorso per i viventi, i viventi passeggiano tra i morti. Dovrebbero non averne paura, ma la letteratura nera, dell’orrore, è anche essa britannica. Il “dopo” delle tombe del canova, delle urne di Thomas Gray o di Keats e Shelley,,,,, L’abisso diventa un retroscena su cui si staglia l’ombra del convitato di pietra, il commendatore di Mozart, deposito di tutte le nostre colpe, ecc.
Non è la vita, forse, ad essere un sogno, ma la morte.




“Appunti per il dopo”: allegria di naufragi... L’anno scorso, il tema propostoci era la concupiscenza. Furbamente, io mi sono aggrappato a Sant’Agostino o a San Tommaso, con qualche spruzzata di roba greca. Ero obbligato, e tutto era facile. Quest’anno, come evitare, ahimè, di impigliarsi nei parati nero e oro della controriforma? Prima della controriforma, c’era un “dopo” disegnato per le plebi, un po’ rozzamente, dagli affreschi dell’Orcagna o del Signorelli, Michelangelo aveva conferito una grandezza classica al tema del Giudizio Universale, che è il “dopo” per eccellenza di ogni credente, ma ancora si era nella sfera della classicità, riservata agli addetti ai lavori, le classi colte, i signori della terra, clero o laici che fossero. Con la controriforma tutto questo pacco di riferimenti viene abbandonato, e le plebi come i signori vengono posti di fronte ad un unico orizzonte di destino, quello cupo ed infero di cui resta traccia in certe tombe barocche romane. I cappuccini infieriscono, inventano l’apoteosi, la rappresentazione sacra delle loro cripte, nelle quali un ossario degno di Pol Pot fissa occhiaie vuote e febbrili su una umanità di peccatori, di orantim, di incappucciati, di flagellanti riemersi dal fondo del medioevo più nero per invadere ogni sentina dell’immaginario.

C’è anche un risvolto classico.
Il salto nel vuoto di Thelma e Louise con l’auto, quello di Jules e Jim con…, sono un suicidio?

E’ più complesso….

Durkheim

L’anoressica

Si può vivere senza la percezione del dopo? Del tempo? Il presente (attimo, sei bello, Goethe) come tempo assoluto. Il futuro è compreso nel presente, come attesa, il passato come memoria, funzione, anche essa, del presente.

Il cimitero dei cappuccini a Roma, la cripta dei cappuccini a Vienna, perché i cappuccini?

Poi: i crani di Pol Pot e delle epurazioni etniche in jugoslavia




L’esistenzialismo. Noi siamo dati alla morte

Fare un pout porri da Shakespeare, la scea dei teschi, ecc., poi la cripta dei cappuccini a Vienna e Ischia, e Via Venetonaturalmente, potrei anche immaginarmi chde uel che faccio, vedo, sono, ecc., è tutto un mio sogno, (Vida es sueno) immaginazione, Shakespeare, ecc. compresa la Storia( !), il reale, ecc.

Non c’è nulla che mi dia il senso dell’offesa quanto il corpo di un morto, abbandonato alla mercé di altri.

La morte ha per me l’aspetto di un’opera canoviana

             C’è un prima, pomposamente detto storia, origine. Un 
adesso, che sarebbe l’ora presente e sfuggente. Un dopo. E’ del dopo 
che vorremmo parlare. Su un giornale quotidiano, ma con 
quattordicimila battute di computer a disposizione. Come sempre, 
scriverne  in modo libero, questo vorremmo. Nella forma di appunti 
personali, se lo si voglia. O in altra forma. Il dopo è semplicemente 
immaginazione, rimozione, prefigurazione, letteratura, filosofia, 
teologia, science fiction (la scienza esatta ne sa nulla). Offre 
inquietudine, che è una buona cosa. Oppure l’idea del riposo, che è 
un’altra buona cosa. Con il dopo la maggior parte della gente convive 
irriflessivamente. E che cosa c’è mai di più irriflessivo, di più 
scaramantico, di più futile e anche edificante della preghiera del 
mattino recitata nella scrittura e lettura di un giornale quotidiano? 
In Aristotele il tempo è “il numero del movimento secondo il prima e 
il poi”, un numero. In Platone un’immagine, “immagine mobile 
dell’eternità”. Si tratta di scegliere, e di pubblicare e firmare una 
pagina che tutti leggeranno. Perché la gente è curiosa degli appunti 
personali e, nonostante tutto, vorrebbe essere informata su quello 
che sta dopo.

venerdì 25 ottobre 2013



KISS ME BABY”. Insegna che si accavalla sulle due porte, ma negozio impari alla promessa. Negli stigli, capi di abbigliamento per bambini a festoni, infilati con spilli alle pareti, rivestite di ruvido tessuto di colore neutro. Il titolo, o le parole di una canzone che immagino ascoltammo da Jackson o …, viatico ad una mercanzia di innocente esibizionismo. L’inglese usurpato: su una lingua che aspira all’universalità o almeno alla globalizzazione, si abbatte il contrappasso di distorsioni caserecce, per le quali nessuno chiederà mai scusa. Trovarobato lessicale, familiare traffico di parole senza dazi, rubacchianenti e sfregi imputabili a una ignoranza che è impotenza non accettata, e dunque rimossa; violenze semantiche per le quali occorrerebbe reclamare, per giustizia o per opportunità, se non altro, e che diamine, il turista ne ride. Società emergenti, recenti, nella media periferia romana, nella cintura non, o non più, borgatara, calderone delle contraddizioni di un mutamento ancora un po’ febbrilmente in atto ma già incanalato in forme, nell grandi linee, ben distinguibili. La Magliana, una sera di settembre ancora tiepida. Vi si piomba per caso, attratti da una insegna di gelatiere color blu o dallo sfolgorare di luci apparse d’un tratto all’angolo di una arteria di scorrimento troppo buia, invece.

Strada di larghezza insolita, persino spropositata, dritta ma dunque tozza, tra i palazzoni. Nastro ininterrotto di negozi, riverberi di neon in ghirlande e pergolati vividissimi, sullo sfondo delle facciate; sotto, ambienti che si coagulano dietro un fulgore accecante, dove i colori più vistosi si smorzano l’uno nell’altro. Oltre l’alone, una barriera di macchine in sosta, parcheggiate fin sul marciapiede, riduce la carreggiata a percorso zigzagante tra un bugnato di cofani, spoiler, fari, ruote disassate, calandre e musi leporini in acciaio e plastica. Il festone dei negozi corre al piano terra dei palazzi, uno seguendo l’altro come i fotogrammi di una pellicola, per la lunghezza della strada. La gente entra ed esce, con naturalezza: comprare è abitudine collaudata, indizio principe di un primo benessere, ma irreversibile. Abbigliamento per bambini, rosticceria, pizzeria, gelateria, audiovideo, computer. Il caffè, il radioriparatore. E la TV. Poi ancora rosticceria, pizzeria, gelateria, tabacchi. Articoli sportivi.

Universo dello scambio a livelli elementari, in presa diretta sui bisogni o su una cultura del saziarsi: il mangiare, il bere, il succhiare, il dolce e il salato, il freddo e il caldo, la bocca, le mani, le labbra, le orecchie. Forse, il culo? Certo, da un po’ il sesso, e tutti i sensi si riempiono a festa, dopo secoli di esclusioni. E i bambini, giustificazione, fine inconscio (o esibito?) di un modello di vita sorprendentemente restaurato e vitale sulle macerie di lontane crisi e rivolte, storiche ormai e forse già illanguidite e dimenticate tra sospetti. La famiglia, con tutte le sue inquisitive tirannie, di nuovo trionfanti, beatamente, o inquiete. L’eccitazione quasi visionaria con cui si saluta l’acquisto dell’abitino del pupo, ancora “bello di mamma tua”; nulla di seriamente utilitaristico in questo negozio popolare, ma anzi profusione, grandezza, lusso, eccesso, scialo, spreco: ghingheri, fiocchetti, scarpine, calzettini, golfini, blusettine, cosettine. Più in là, nel negozio di articoli sportivi l’identico gonfiarsi di aggettivi straordinari si ripete, questa volta per i grandi, o i grandi-bambini: lo sport non è ritorno alla natura, ma l’esaltazione dell’artificiale.

Eccesso ancora nelle filze di polli che si arrovellano sul forno elettrico, nelle pile di pizza “rustica” rossa e bianca, al rosmarino o alle patate, al pomodoro, in varietà di sapori, di colori: una sovrabbondanza sontuosa o sontuosamente povera reminiscenza di una povertà che si rinnova e si impone anche in mezzo ai nuovi modelli di vita, e al nuovo benessere. E la salumeria coloratissima, piena di barattoli, di scatolette, di vasetti, di intingoli immersi in oli, in sughi, in pomodoro, salse esotiche, spezie scure. I colori stuzzicanti sostituiscono i sapori inscatolati, e gli odori, irraggiungibili. Anche i gelati, nel negozio subito a fianco, sostituiscono con i colori i sapori, indistinguibili o quasi nell’artificiale raggelamento della lingua e delle sue papille.