lunedì 31 dicembre 2012


ROBERT LOWELL
(Boston, 1917-1977)

traduzione di Angiolo Bandinelli

IL FRATELLO DI LEI, MORTO


Il Leone di S. Marco sullo scudo invetriato
della finestra s'accende, mentre la notte
incanta chiglie oscillanti ai suoi terrori
                                   e oscura
i tuoi occhi lontani, arsi dal vento -
ahi!,
il tuo ritratto, nella ritorta cornice d'alpacca,
specchia il tramonto come un drago. Resta
luce quanto basta a vederti, tra la patina.
                                   Donare
la vita t'ha più stretto agli amici;
sì, ti ha portato a casa. Quel che finisce è bene:
Achille, morto, è più grande che vivo;

ti ho in mente come avrei voluto vivessi,
un ibernante drago. Troppo breve l'estate,
quando andavamo ai picnic coi binocoli
e le Guide in legature rinsecchite, lassù al Forte
sullo scabro Sheepscot ( gli aironi, e sui pendii
le cicute) a scrutare gli uccelli. Quell'idillio
ti riporto, Fratello. O fu anche altro?
Ricordi le cavalcate, quando di sprone
sventrasti
quella biscia di un metro, tra i ginepri?
Babbo la spiaccicò alla neviera, sulla porta.

Poi tu crescesti; ti abbandonai a te stesso.
Dimenticheremo il ventitré d'agosto
- mamma e le cameriere in auto a Stowe
e le lievi tendine giù tirate, basse
che alcuno ci vedesse; né afferrasse
la tua parola sibilante, falsa
come Cressida. Espìino le nostre morti:
le dita, sulla tua dragona, vivono
e Speranza, che con la grazia offusca
la mia chiarezza, s'ancorerà alle strette
della tua faccia.
La Packard di mio marito! Il viale
stride...

II

Il ghiaccio fonde, la marea ne trascina
i blocchi contro le lance che sciabordano
sotto gli incrociatori - la flotta di mio fratello.
Il gas esce dai becchi del fornello, appanna
il volto sulla bottiglia che racchiude
la "Strega d'Acqua", il canotto
che mio fratello incagliò e abbandonò
                                 a rodersi
il cuore presso il Faro di Boston.
Fratello,
io t'ho serbato, lì, nella neviera
della mia mente -
si scioglie il ghiaccio...le nostre dita si serrano
sopra la barra. Sbandiamo nella schiuma,

le nostre vele - lo spinnaker, la randa -
dicono i colori d'arcobaleno; ma s'afflosciano
se cade il vento, e la boa si allontana...
Il suo bastone ticchetta alla soglia del mulino,
sfrega un cerino, un altro, un altro ancora -
oscuro il Signore, ed è Santo il Suo nome;
per le mie mani, nelle Sue! I fornelli
cantano come teiera, il nickel specchia
la tua squadriglia al Pontile Stigio.
Fratello,
la rada! Gli incrociatori silurati in fiamme,

i riflettori delle lance guizzano
tutto intorno ai bersagli. Tu sei nero. Gridi
con la destra spezzata chiusa a coppa. Sì,
il tuo fischio
tra lo scroscio dell'acqua: presto, il ghiaccio
si scioglie!

Il vento muore nelle vele. Fu una corsa
a fil di vento - ma la nostra vela
è ora parte di morte. Fratello,
una città del New England è morte e incesto
e vidi tutto. Dissi:
la vita, io la posseggo. Fratello, il cuore mio
corre verso spazi marini - noi siamo senza fiato.

Da "Poems, 1938-1949


lunedì 24 dicembre 2012



LETTERA


Carissimi,
questa lettera è, alla lettera, una lettera. Essere una lettera, solamente una lettera, è pur sempre una cosa complicata, non ci si immagina quanto possa essere complicata, una lettera. Dentro quel suo involucro pallido e anonimo, ogni lettera è unica. Le lettere sono diverse una dall’altra. Questa, per esempio, è una lettera dall’aspetto delicato (altre, invece, sono rozze, di grana grossa) e un po’ fragile. Ha gli spigoli avvizziti, non belli tesi come quando la busta e i fogli vennero comprati in cartoleria. Tutto ciò ci dice - dovrebbe garantirci - che si tratta di una lettera partita. Nessuna meraviglia, tutte le lettere devono partire. Devono anche arrivare, quando una lettera non arriva ci se ne preoccupa, si può entrare in terribile ansia e fare cose strane. Deve arrivare a destinazione, una lettera: è il suo destino (scusate il bisticcio) ed è giusto, è destino di ciascuno di noi - non solo delle lettere - arrivare a destinazione. Ma a un certo punto questa lettera si è smarrita, l’hanno dovuta accompagnare a domicilio. Anzi, hanno dovuto proprio portarla a mano. Quelli che così l’hanno compiaciuta - tanto da farle raggiungere, sia pure per vie traverse, la sua propria destinazione, e dunque farle adempiere al suo naturale destino - erano però anche gente sospettosa. Prima di farla arrivare a destinazione hanno titubato. Non hanno osato aprirla. Però si sono insistentemente, sfacciatamente, chiesti cosa contenesse: “Chissà che dice, qua dentro”, e l’hanno palpata, con mano rabbiosa. Non è che facessero qualcosa di indebito. Una lettera infatti dovrebbe sempre avere un contenuto, dire qualcosa, una lettera senza contenuto credo non sia concepibile. Bisogna, dunque, accertarsene. L’operazione può essere inquietante. Un tale aprì una lettera e, trovandola vuota, svenne, era indirizzata proprio a lui (ci sono tipi che aprono lettere destinate ad altri e ovviamente costoro sono meno sensibili, o sensibili in modo molto diverso, rispetto ai contenuti). Ricevere una lettera destinata a noi e vederla tutta bianca mette addosso paura, angoscia. Non si sa cosa voglia, perché sia partita, perché sia arrivata. Non solo il nero, anche il bianco, come colore, ha qualcosa di enigmatico.

Una lettera bianca e vuota può significare tante cose, persino le più divaricate e repugnanti tra di loro. Più o meno consapevolmente, nessuno ama trovarsi di fronte ad un evento così, che lo costringe a sforzarsi, a mettere in campo l’immaginazione, e chi ama una tale fatica (l’immaginazione, checché se ne dica, è un esercizio faticoso)? Però una lettera può essere bianca e non avere contenuto o nessun contenuto apparente, solo perché è e vuole essere innanzitutto se stessa, una lettera nella sua forma pura e perfetta, una bianchezza che così diviene, già di per sé, il contenuto. Un contenuto di questo tipo sarà leggero e forse anche svagato. Chi l’apre la richiuda, quella lettera potrebbe prendere vento e sfarfallare via, leggera come è, non vi pare?

Una volta una lettera arrossì, un evento davvero straordinario anche se non del tutto eccezionale. Accadde perché, abbracciata al vento, era caduta nel fuoco. Arrossì e sparì via, senza rivelare nulla delle cose che conteneva. Si dimostrò una lettera molto riservata, e questo piace molto, nelle lettere. La persona che l’attendeva però pianse, era certa che dentro ci fossero cose importanti per lui: era, forse, un presuntuoso. Sempre, di norma, le lettere mute, o sparite, o anche rubate, immaginiamo contengano cose importanti, assolutamente importanti; non solo per noi ma per tutti, oggettivamente, e non ci piace essere, in questo, contraddetti. Quel tale ne era tanto più sicuro in quanto, diceva, la lettera era diretta a lui e lui di sé pensava (come abbiamo detto) di essere tale da meritare solo cose importanti. “Ma come possono essere importanti, se sono sparite nel nulla così? Avrebbero pure dovuto lasciare una traccia, un segnale!”, qualcuno si affrettò a insinuargli. Questo qualcuno era stato, fino a quel momento, amico di colui che piangeva e si disperava; anzi, “il suo migliore amico”, come gli ripeteva spesso (e faceva sapere anche agli altri). Ora l’antica amicizia si ruppe. Si spezzò, proprio, irreparabilmente: per chi non lo sappia, mentre le lettere, se cadono nel fuoco, arrossiscono, le amicizie possono solo spezzarsi, inutile chiedere perché, è così. E quando si spezzano non si riattaccano più, è difficilissimo farle riattaccare. Le terrecotte, e anche le porcellane, possono essere riattaccate, magari con difficoltà e mostrando per sempre la cicatrice della crepatura, il cretto che il mercante cercherà invano di negare, di nascondere, quanto meno di minimizzare. Le amicizie non si riattaccano più, le loro rotture sono irreconciliabili, ed è per questo che i mercanti non trattano la merce delle amicizie: sono troppo fragili e rendono poco, in confronto con gli investimenti fatti per farle nascere e crescere. Si capisce che le amicizie siano rare, e siano rare anche le lettere tra amici. Se ne parla spesso, vengono decantate, ma sfido chiunque a produrre, esibire la lettera di un amico, di un vero amico che abbia scritto a quello lì, a quel tale, una vera lettera. Forse succedeva un tempo, ma io ho sempre dubitato che si trattasse di lettere tra veri amici, io le ho lette sempre come false, piene di ipocrisia e di vanità. Ho sempre odiato gli epistolari, monumenti alla propria narcisistica importanza.

Comunque, una amicizia in frantumi è orribile da vedere. I lembi dove c’è stata la rottura sono taglientissimi. E’ strano come un’amicizia, quando è così spezzata, divenga tanto pericolosa; molti dicono che è capace di fare molto male, evitano di averci a che fare, una amicizia spezzata è sempre anche evitata. Invece una lettera, per quanto stracciata o appallottolata, per quanto respinta al mittente, è ancora accarezzata, palpata, fors’anche amata. Questa è una differenza molto importante. Alcuni fingono di non vederla o magari non se ne accorgono proprio, e questi sbagliano, sono particolarmente da compiangere.

Una lettera rotta non arriva più. Lascia dietro di sé curiosità, e persino un po’ di nostalgia. Vi sono persone che, senza confessarselo, in fondo al cuore sono sicure che una lettera non arrivata è più importante di una lettera invece arrivata e che se ne stia, dopo letta, abbandonata sul bordo del tavolo o sul bracciolo della poltrona: ridotte a questo punto, sono poche le lettere da considerare ancora importanti, mentre la mente può vagare nell’immaginazione, almanaccare su quanto importante sia l’altra lettera, quella che si aspettava e non è arrivata, magari (senza che noi lo sospettiamo, la cosa potrebbe deluderci) perché non è nemmeno partita. Questa lettera immaginaria, su cui noi fantastichiamo inutilmente, pensiamo fosse scritta a caratteri d’oro, oppure pesanti come il piombo. L’aspettiamo ancora, la desideriamo, pur sapendo benissimo, in fondo al cuore, che non arriverà. Noi l’aspetteremo sempre.

Non vi accade mai, per caso, di ricordare di aver visto per la strada, o altrove, un frammento di lettera, un pezzetto di lettera, leggero e frusciante, abbandonato per terra? Vi ricorderete allora anche di aver avuto la irresistibile tentazione di chinarvi e raccoglierlo. E’ uno di quei comportamenti che più ci fanno provare sensi di colpa: e non c’è nulla come il senso di colpa che affratelli, faccia sentire tutti partecipi della stessa condizione (ciascuno - ciascuno che abbia provato sensi di colpa - teme che l’altro possa rivelare qualcosa che certamente, come ci dice un presentimento interno, lui sa di noi - qualcosa di disdicevole - esattamente come noi sappiamo che faremmo, se fossimo al suo posto). Anche voi avrete provato una volta la tentazione di raccogliere il frammento di lettera in cui vi siete imbattuti. Magari per un senso di gelosia - nella curiosità c’è un pizzico di gelosia - per quello che vediamo destinato non a noi; a uno sconosciuto, persino. Vi sarete, però, trattenuti.

Qualcuno che ha ceduto alla tentazione ha cercato anche di decifrare quel che era scritto sul frammento. Ma le parole, o i mozziconi di parole, su questi frammenti sono tracciati, inspiegabilmente, in diagonale, di traverso oppure dall’alto verso il basso o viceversa, e quindi sono illeggibili, incomprensibili. Ci abbandoniamo alle più vaghe congetture, chissà cosa daremmo per riuscire nell’impresa. Rigiriamo il frammento di carta, lo mettiamo controluce, lo stendiamo per bene sul palmo della mano. Niente, i geroglifici non si sciolgono in parole, restano muti e maligni, per sempre. Qualche volta, allora, ci prende un po’ di imbarazzo (che è la copia minima del senso di colpa). Trasaliamo, ci vergogniamo sospettando che qualcuno ci stia osservando. Essere colti in flagrante con un frammento di lettera in mano, mentre cerchiamo di leggerlo, ci è intollerabile. E’ molto peggio che essere sorpresi mentre stiamo leggendo una vera lettera, completa della firma e tutto: questo potrebbero ben farlo tutti, anzi lo hanno già fatto tutti, con un piacere soddisfatto e un po’ facile. Ma i frammenti! Imbarazzatissimi, gettiamo via il triangolino di carta, oppure fingiamo di essere intenti ad altro. Spesso, la notte dopo, restiamo un po’ di tempo, nel buio, a occhi aperti nel rimorso mentre l’oscurità della stanza sembra infittirsi di altri occhi, estranei, che ci spiano. La mente è occupata ossessivamente dagli sparsi indizi di parole strappate al frammento; quelli si dilatano, si moltiplicano, si disperdono e svolazzano da ogni parte. L’alba arriva come una fastidiosa salvezza. Il lampeggiare di bianco che dall’angolo lontano della stanza ci ossessionava (sembrava il frammento più grosso della lettera, che ci stesse aspettando per chissà quale rendiconto) è invece un filo di luce che filtra dalla finestra e macchia un mobile, un giornale gettato in terra. Quando ce ne rendiamo conto, tiriamo un sospirone, ma è comunque tardi.

Una lettera arriva sempre da lontano. Lo presumiamo, necessariamente: non sappiamo quasi mai da dove, ma sicuramente arriva da lontano. Lo desideriamo ardentemente, non sapremmo che farcene di una lettera che sia partita da vicino, da dietro casa. Ci sentiremmo defraudati, violentati. Anche una lettera che abbiamo letto e poi stracciato in minutissimi pezzi, in un accesso di rabbia, anche questa arrivava di lontano. La cosa stupefacente - non c’è nessuno che non l’abbia sperimentata - è che appena l’abbiamo strappata, appena l’abbiamo gettata via, paonazzi per la stizza, e i pezzi hanno volteggiato a terra come foglie in autunno, sentiamo che quella lettera non era veramente stata inviata da quella tal persona che conosciamo bene, con la quale avevamo da tempo uno scambio di corrispondenza: no, quella era una lettera misteriosissima, partita da chissà dove, scritta e firmata da chissà chi, da un tempo e un luogo estranei. Probabilmente non era nemmeno destinata a noi. Poiché l’abbiamo rifiutata e anche stracciata, e poiché ci sentiamo per questo in colpa, ecco che cerchiamo di liberarcene, negandola. Guardiamo stupiti i frammenti, le striscioline bianche infilate e nascoste nei posti più incredibili. Non riusciamo a credere che sia la stessa lettera di prima. E’ proprio un’altra lettera. E’ stata scritta chissà quando e da chi, i caratteri sono illeggibili, impossibile ricostruire cosa vi fosse scritto.

Io sono contrario a stracciare le lettere. Le lettere vanno conservate accuratamente. “Ma le lettere conservate sono pericolose”, mi dice un tale, sono come piante esotiche, proliferanti e carnivore, di quelle che nei film dell’orrore mangiano gli uomini dopo averli strangolati o dissanguati. Va bene, lo ammettiamo, le lettere conservate sono insidiose per chi le conserva, ma perseguitano anche chi le scrisse. Gli possono ricadere addosso, lo ricattano. Hanno la straordinaria proprietà di balzare alla vista nei momenti più impensati. Quando meno te l’aspetti ecco che una lettera conservata, ma dimenticata, ti si apre dinanzi agli occhi, scricchiolando lassù nello sforzo di aprirsi (chi è che l’apre, con mani invisibili ma vendicative?). Tracciate in sbieco, ci sono parole che ti fanno sanguinare l’anima. “Non ti dimenticherò mai”, oppure: “Ti ho scoperto, con le tue bugie!”. E tu ti chiedi chi sia mai la persona che non ti dimenticherà mai, o quali bugie hai detto, e a chi, da esserti ora rinfacciate. Ma sei, ancora una volta, falso, perché come sono andate certe cose lo sai benissimo, e la coscienza ti rimorde da tempo. La lettera riesce solo a farla sanguinare di nuovo.

O meglio: quella persona tu l’hai dimenticata, hai voluto proprio dimenticartene, e ora ti opprime il pensiero che lei, da chissà quale parte del mondo, ancora ti ricordi, invece, e stia pensando a te. Vorresti tranquillizzarti, ma sai benissimo che non è vero, sai che lei sta ricordando - ricordando non te, ma quel suo momento antico - con il dolore della nostalgia, che è uno dei dolori più antichi e solenni. Hai fatto di tutto, tu, per dimenticarla, da ipocrita, ma quella persona à meglio, molto meglio di te: generosamente, elegantemente, sa ricordare, senza aver bisogno di ricordare te.

E la bugia? Quella - è davvero curioso - la ricordi benissimo. Come ricordiamo le nostre bugie! E’ incredibile. Essendo bugie, dovrebbero essere labili, perché costruite sul nulla, su ciò che non è, e dunque pronte ad annegarsi nel gran lago stagnante del tempo, dove sono sepolte le carcasse di tante cose, comprese tante verità: ah!, le immagini ferrigne, dure, pesantissime, intrasportabili, che assieme alle leggere bugie, stranamente, giacciono tranquille! Perché mai vanno e giacciono assieme, ignorandosi a vicenda, verità e bugie? E chi lo sa? Ma sì, le bugie hanno un’enorme capacità di farsi ricordare. Hanno una pelle durissima, non si lasciano consumare né digerire. Fanno male, sono spigolose.

Quel che è peggio, le lettere conservate hanno sempre una frase del tizio che tu vorresti non ti si parasse più davanti. Ecco perché io scrivo pochissime lettere, ho paura che qualcuno, solo leggendole, arrivi a detestarmi. Ci sono persone che addirittura non hanno mai scritto una lettera. Altre, invece, ne hanno scritte moltissime. C’è da giurare che non hanno mai scritto una cosa vera, una sola verità, nelle tante, tantissime lettere scritte, affrancate e regolarmente spedite. Una lettera, in fin dei conti, è fatta per nascondere la verità. Quando uno comincia a scrivere una lettera, dentro è come se gli si serrasse il cielo. Il suo spirito, umido e rugiadoso, fertile e disponibile fino a un istante prima, appena lui comincia a scrivere si dissecca e impallidisce. Invece di spaziare su prati freschi e molli come dopo una pioggia di primavera, si ricopre di polvere e ceneri vaganti, portate qua e là dal vento, aride e sperdute, che non vedranno mai spuntare sotto di sé né una immagine, né un ricordo, né un avvenimento degno di nota, di menzione. E lì, il nostro scrittore di lettere si perde, felice in definitiva di perdersi; imprecando addirittura se, per balzi e strappi, si dovesse trovare a lasciare alle sue spalle una parola, una riga, come uno di quei sassolini che Pollicino faceva cadere dietro di sé, per fuggire all’Orco e ritrovare la via di casa.

Una lettera, insomma, è davvero un mistero. Come questa lettera, ecco, che giace davanti a voi, delicata e terribile, e vi sfida. Vi sfida ad aprirla, a spezzarne la busta e insieme la trama, a penetrarvi dentro, a violentarla oppure ad abbandonarvi nelle sue pieghe, nelle sue fruscianti pagine.

Ma è solo una lettera, infine, che diamine.

Angiolo Bandinelli

2001-2006

venerdì 14 dicembre 2012


Dalla rivista "Cortocircuito", n. 11/12, ottobre 2012


E M E R G E R E


Emergere!
Eccellere!

Emergere?
Perché? Perché emergere?
Perché eccellere? Perché?”

Per me, emergere, eccellere,
è tèndere,
tèndere bene -
tèndere sempre - fremente… -
è tessere,
tessere tele,

è essere vedente
(se tenderete,
vedrete - benché nelle tenebre).

E se…se, per certe elette belvette,
tendere
è prendere lente,
serene
vendette -
(“metterle nel sedere…”).
- ebbene, è legge!

Per me
prenderle nel sedere
è sempre essere perdente”….

Beh, perché? Se permette, prenderle nel sedere…
pere...mele… tre pere… tre mele…
se prese nelle serre, fresche…
E le pesche, ceree,
eh!, perfette perle...beh, vederle...

Che serpente, che fetente!
Per me, è repellente!”

Repellente…fetente… E perché? Se
perfette,
perché perderle? Eh?
Prendétevele, tenétevele strette!

Se le vedeste essere…
merde, dense merde, merde melense, schegge...beh!

Mentre, se le vedrete
essere semente
recente
(che bel vedere, le tènere
mele renette, le pere...)

ebbene, è bene eleggerle -
reggerle erette…
e prenderle nel sedere!
E’ decente, eccellente -
sempre -

Teh! Eccellente per te,
pezzente! Fetente!
Eh… che gente!

Se emergere è
- certe terree, nere sere! -
prenderle nel sedere…
beh… permette? E’ bene perdere.
Perché emergere?”.


Angiolo Bandinelli
Roma, 1998-2010

   

sabato 8 dicembre 2012


ALLIUM SATIVUM

Il bianco, comune o rustico,
ha dimensioni
e aromi più o meno
accentuati - a seconda
di climi e terreni.
La zona
più produttiva, il Polesine.

Quello rosa esibisce
tuniche di tal colore -
o giallo pallido. Precoce,
soffre l’umidità, non si conserva
facilmente, i bulbi
sono grandi e irregolari, il gusto
è delicato e aromatico.
Migliore, quello del sud.

Il rosso? Le coltivazioni
più importanti, a Sulmona
ed a Nubia. Tuniche esterne
bianche e interne rosse,
quello siciliano
è alla base del pesto trapanese – ma l’altro,
color porpora, e ricco
d’oli essenziali, lo usi
vestito.

Trovi diffuso
in Cina e in Giappone
il fistulosum, detto anche
aglio del Galles, di fioriture
importanti e con foglie
aromatiche.

giovedì 6 dicembre 2012



STROFETTE PER LEI

*

vorrei subito qui,
mio amore, morire,
per raggiungerti

la tua immagine, diafana,
si allontana come il vento

mi pesa il fardello
di troppe ossa,
di troppo pianto

*

mi dicono
che sei da qualche parte, in un
posto – laggiù

questo posto io non
lo trovo, nelle mie
carte – geografiche, mentali

eppure
deve essere così – se voglio
nutrire la speranza
di rivederti
ancora

*