giovedì 29 novembre 2012




COMMEMORANDO BENEDETTO CROCE
(da “Il Foglio”)

Il 20 novembre scorso ricorrevano i sessanta anni dalla scomparsa di Benedetto Croce. A Napoli, nello storico palazzo Filomarino - già residenza del filosofo ed oggi sede dell'Istituto filosofico da lui ideato - il Presidente Napolitano ha commemorato la ricorrenza, focalizzando la sua attenzione sul periodo postbellico, quando don Benedetto mostrò sagacia e determinazione anche politica contribuendo fortemente alla ripresa istituzionale del paese. Mi pare che il suo appassionato intervento sia caduto nel vuoto e nel disinteresse. L'oblio di Croce non è un fenomeno transeunte. Croce è inviso a troppi, per ragioni anche opposte. Non è amato dalla Chiesa perché coerentemente laico, ma anche dagli anticlericali o - meglio - dai laicisti, i quali non gli possono perdonare un testo coraggioso e innovativo, “Perché non possiamo non dirci cristiani”. Ma soprattutto Croce è stato detestato da una genia di cosiddetti “superatori”, ingegnatisi in ogni modo per gettarlo giù da un piedistallo egemonico ed ingombrante.

In questo paese che ama sparlarsi addosso celebrando masochisticamente, un anno sì e l'altro pure, la propria scomparsa (“...la morte della patria...”) l'occasione c'era tutta per portare all'attenzione dell'opinione pubblica quella che è invece, a mio modesto giudizio, l'operazione etico-politica più importante che il pensatore avviò e elaborò assieme a Giovanni Gentile: facendo corpo e riassumendo nel loro lavoro la grandezza dell'ambiente culturale napoletano della fine dell'Ottocento, Croce e Gentile ebbero, in parallelo, il merito di disegnare e far accettare quella che potremmo dire l'”ideologia italiana”.

Il Risorgimento e l'unificazione sono stati fenomeni assai complessi, un intreccio di spinte e controspinte, in parte endogene in parte anche esogene, al quale hanno portato i loro contributi soggetti molto diversi. Però occorre risalire ai due filosofi, allevati nella culla della cultura tardoottocentesca e primonovecentesca che si sviluppò a Napoli con Francesco De Sanctis, i fratelli Silvio e Bertrando Spaventa o Arturo Labriola, per vedere definiti e portati in piena luce i lineamenti ideali che poterono interpretare e legittimare, anche o soprattutto in sede interna, la nascita del nuovo Stato. Giovanni Gentile innalzò al livello della moderna filosofia europea, definendoli come suoi veri iniziatori, i pensatori italiani rinascimentali, Bernardino Telesio, Giordano Bruno e Tommaso Campanella, che preannunziano il più maturo Giambattista Vico. Al di là delle sue grandi opere storiche, a Benedetto Croce va il merito di aver puntigliosamente sottoposto al vaglio della critica autori, anche di seconda importanza, dell'ottocento postunitario, individuando in Giosue Carducci l'aedo simbolo di quelle generazioni risorgimentali. Così, se il Piemonte diede all'Unità l'impianto istituzionale/militare sapientemente gestito dal Cavour e Milano vi apportò la solidità di un società civile e produttiva di stampo europeo, toccò alla cultura napoletana l'enorme compito di offrire all'Italia che nasceva una impalcatura ideale d'eccellenza, tale da reggere per un lunghissimo periodo all'erosione della critica e ai colpi della storia. Togliatti ironizzava perché il ministro Croce spesso, durante le interminabili riunioni del consiglio dei ministri, sonnecchiava, svegliandosi di colpo e tendendo le orecchie solo quando si parlava di agricoltura e di riforma agraria. Ma comunisti ed excomunisti di ascendenza togliattiana non possono dimenticare che Togliatti si impadronì di quel retaggio idealistico, rivendicando una continuità storica ed ideale tra Francesco De Sanctis, Benedetto Croce e quel Gramsci che poteva far pensare ad uno sviluppo del marxismo in forma autonoma e nazionale, cui fosse aliena la strettoia leninista e stalinista. All'egemonia del proletariato Gramsci sostituiva l'egemonia dell'intellettuale. Su quelle riflessioni gramsciane Togliatti edificò una teoria per sostituire il suo comunismo, il suo PCI, all'esausto liberalismo delle residue elites politiche e culturali giolittiane, incapaci di comprendere e gestire il presente. Fu una operazione di raffinata intelligenza politica e culturale, su cui si è modellata pressoché tutta la critica letteraria del dopoguerra, tra Asor Rosa e, per dire, Giulio Ferroni. Da questa impostazione deriva, tanto per capirci, la preferenza data all'ortodosso Calvino piuttosto che a uno Sciascia radicale, e la relativa dimenticanza di scrittori di tendenza liberale o comunque non allineati al conformismo progressista, quali un Landolfi o un Flaiano. Qualche iperzelante sostituì a Benedetto Croce Giovanni Gentile, sostenendone la superiorità filosofica. Per me, invece, Croce esprime al massimo il potenziale di una riflessione antidogmatica, antispiritualista e antimetafisica. Amo vedere in lui il più coerente prosecutore - malgré lui-même - di Nietszche: per Croce, l'uomo è tutto nella sua storia, nella sua opera; secondo qualche esegeta crociano (forse Gennario Sasso), nella sua vita, nel fuoco del suo vitalismo interiore. Più laico di così.

sabato 24 novembre 2012



SCIASCIA, UN LAICO, LA CHIESA

da “Il Foglio”

Todo modo” (1974) è forse il romanzo più riflessivo e tormentoso, se non tormentato, di Sciascia: fin dall'epigrafe, quel mirabile passo di Dionigi Aeropagita che sostiene l'impossibilità di dare una definizione della “causa buona di tutte le cose”; causa che è “insieme esprimibile con molte parole, con poche e anche con nessuna”, in quanto di essa “non vi è discorso né conoscenza, poiché tutto trascende in modo soprasostanziale, e si manifesta senza veli e veramente a coloro che trapassano tanto le cose impure che quelle pure (...) e si immergono nella caligine, dove veramente sta, come dice la Scrittura, colui che è sopra tutte le cose...” e così via, negazione dietro negazione, perché quella “causa buona” “non è tenebra e non è luce, non è errore e non è verità...”. Penso che già con questa straordinaria citazione Sciascia voglia avvertirci che le pagine che seguiranno saranno intese a sciogliere un qualche mistero dell'esistere e vivere umano nel suo confronto con l'ineffabile principio “di tutte le cose”: irraggiungibile, infinitamente lontano ma anche presente e incombente. Parla di Dio? Probabile: o forse il laico ed illuminista Sciascia usa l'allucinato testo in modo allusorio, ambiguo e beffardo.

Todo modo” l'ho ripreso in mano, assieme a tutte le opere dello scrittore di Racalmuto, per discuterne ad un recente convegno, curato dalla Associazione "Amici di Sciascia" e svoltosi a Palermo, nel quale si sono affrontati interrogativi molto sciasciani: “Quid est veritas?”, “Quid est religio”?, “Quid est mors”? La trama è, come sempre nei suoi romanzi, scheletrica. Un pittore, di cui non ci è riferito il nome, durante una gita in macchina si imbatte in un “eremo”, “l'Eremo di Zafer 3”. L'eremo è in realtà un albergo, gestito da preti, dove si tengono periodicamente “ritiri spirituali” - per personalità del mondo clericale, politico o affaristico - che diventano occasione per stringere rapporti di affari, o per concedersi riservatissimi intrattenimenti erotici. Sciascia ritrae efficacemente ambienti e situazioni tipiche di quegli anni lontani, con la DC al governo e un boom economico che consentiva facili e spregiudicati arricchimenti. Tra gli ospiti, il pittore intravede anche un “Principe della Chiesa”, un ministro... Ma, ad un certo punto, uno dei partecipanti al ritiro viene ammazzato, ed ecco subito dispiegarsi tutto l'apparato del giallo sciasciano. Al primo assassinio segue un altro. Il pittore ne discute, soprattutto con il gestore dell'albergo, un prete, don Gaetano. E qui il romanzetto giallo si accende di lampi improvvisi, di altezza metafisica, perché la conversazione tra i due è un susseguirsi di sottili giudizi e splendidi concetti. Il don Gaetano affarista, manutengolo e anche un po' ruffiano, si rivela uomo colto e raffinato, ma anche cinico e sarcastico, un tra Montaigne e Rabelais: “Perché, me ne confesso, la contemplazione dell'imbecillità è il mio vizio, il mio peccato... Proprio: la contemplazione...Giulio Cesare Vanini, che è stato bruciato come eretico, riconosceva la grandezza di Dio contemplando una zolla; altri contemplando il firmamento. Io la riconosco dall'imbecille. Non c'è niente di più profondo, di più abissale, di più vertiginoso, di più inattingibile...” Don Gaetano sa di pittura, cita Montale, il “cristiano” Sade, persino Papa Pio II Piccolomini, “un eroe stendhaliano avant la lettre”...

Toto modo” fu criticato aspramente dagli ambienti clericali, l'immagine che dava della Chiesa era inaccettabile. Nel convegno palermitano si è convenuto che in effetti lo scrittore condanna la corruzione della chiesa e dei suoi rappresentanti, rivolgendo le sue preferenze ad una religiosità purificata, per la quale ci si è richiamati anche a Ernesto Buonaiuti, il sacerdote scomunicato e perseguitato in quanto modernista. In questo vario discorrere, Sciascia non si distingue da un comune sentire anticlericale assai diffuso tra l'intellettualità di sinistra, progressista. Ma proprio attraverso la figura di Don Gaetano lo scrittore ci dà un giudizio del ruolo della Chiesa e dei suoi rappresentanti e officianti assai più profonda. “La grandezza della Chiesa - osserva Don Gaetano - la sua transumanità, sta nel fatto di consustanziare una specie di storicismo assoluto: l'inevitabile e precisa necessità, l'utilità sicura, di ogni evento interno in rapporto al mondo, di ogni individuo che la serve e la testimonia, di ogni elemento della sua gerarchia, di ogni mutazione e successione”. Una interpretazione che sarebbe piaciuta ad Ignazio di Loyola, calibrata però subito da un inciso del più puro Pascal: ”Le mie certezze, lei questo non lo sa, sono altrettanto corrosive che i suoi dubbi”. La Chiesa è, in definitiva, “una zattera, la zattera della Medusa, se si vuole; ma una zattera”. Don Gaetano però è anche altro, la sua immagine si rovescia ancora: infatti è un assassino. E, ovviamente, viene assassinato. Il suo uccisore non viene scoperto, la sua morte resta circondata dal dubbio. Non sarà Dionigi l'Areopagita, ma in queste pagine Sciascia sprofonda nella densità del mistero. Vedi un po' in che intrico può cacciarsi un vero laico...

martedì 20 novembre 2012




RADICALI A SAN PANTALEO


Il tempo delle azioni
che ("Lo facciamo noi")
ci usura, ci stanca, ci arrazza,
ci polisce ed ecco brilliamo
stupefatti, tutti belli orgogliosi
di noi stessi, nudini nudini,

si arresta adesso, e folgora:
"Un mese fa, m'hanno letteralmente spogliato.
Ero partito per un viaggetto
(l'occasione è destino, ma però):
rientrati in casa, una borsetta
lucente in terra, soldi sparpagliati
che ti ci sei buttata sopra. A scompisciarmi
- che ne volevi cavare! -
ma sai, mi ci hai fatto divertire.

Poi, dài a litigare con la polizia
quando invece di indagare sul misfatto
mi inquisì, su due piedi, attorno al mio
stato civile, su me e te."

Voi, mo', ridete. Va bene. Ma che altro
ci rappresenta il tempo
che viviamo
e la spesa
spicciola e controversa
che tu, io, ne facciamo
con il nostro concionare
quando ci convochiamo
disutili a noi e al mondo
per fuori uscirne, a prova?

Sarà anche il nostro scontento,
io non lo nego. Ed ora
in questo luogo puro,
tra contrasti, rilassatezze,
ci ritroviamo daccapo a inventare
a Capodanno qualche tiro
"Il papa alza le braccia
sulla stampa bruciata:
tutto è mondo, tutto è Mondo".

Allora, Massimo invia
- un poco per ripicca -
lettere d'America. False
se badi al timbro, al tono
gne gne e brodolone
e contengono tanta zavorra
ma sono vere, vere, vere

perché, me lo sai dire di che
sono fatte (e da lontano, pensa)
se non delle parole inventate
se non dei discorsi promossi
qui, ogni sera rasposa;

ogni tanto - davvero
ogni tanto - scassato
dalle opposte fazioni
di amanti e di amati
(violenze che non cedono,
uniche durano, avvinte)
minaccia di piombare
un vaso dalla terrazza.

Un fiore scivola giù sulla strada:
"Ma sì! ma no! ma sì! ma no! ma sì".


1971 ca.

venerdì 16 novembre 2012


ANTICHI MESTIERI


(da "Il Foglio")

Lo scalpellino

Lo scalpellino siede per terra a gambe aperte e larghe, quasi a novanta gradi. Accanto ha i suoi strumenti, scalpello e mazzuolo, di rado la subbia. La mano sinistra pare la chela di un granchio, con l’indice, il medio e l’anulare stretti sopra lo scalpello, il pollice e il mignolo sotto. La destra impugna il mazzuolo, un massello di ferro a base quadrata di quattro centimetri circa e alto otto-nove centimetri, con un corto manico di legno. Io non ho mai visto uno scalpellino mancino, mancini sono i fannulloni, quelli che non lavorano. Sotto i colpi del mazzuolo, la testa dello scalpello è divenuta liscia, lucida, slabbrata ai bordi. I colpi hanno un suono sordo. Lo scalpello, inclinato di circa 45 gradi, incide la pietra con solchi dritti e regolari, che percorrono il rettangolo della lastra in diagonale a distanza di circa un centimetro l’uno dall’altro, e si arrestano a circa due-tre centimetri dal margine: ne risulterà un bordo continuo successivamente trattato “a bocciarda” con la subbia, che al posto della lama ha una tozza punta arrotondata ed è usata piuttosto dagli scultori. I solchi dello scalpello ricordano le onde di sabbia sulla spiaggia battuta dal vento. Le lastre così lavorate vengono collocate in incastro, a formare il piano della strada. Ora la strada sembra una pittura astratta, ma lo scalpellino questo non lo sa. Quando piove ed è tutto bagnato, gli asini e i muli che la percorrono non scivolano e non cadono col rischio di spezzarsi le zampe, dovrebbero essere abbattuti. Il ginocchio sbucciato e sanguinante di un asino caduto formicola di mosche, l’asino è una bestia triste. Passano anche, aggiogati al carro, buoi (che invece sono malinconici) col fiocco rosso pendente tra le narici. Lo zoccolo del bue è diverso da quello degli asini, dei muli e dei cavalli: ha due unghie separate, occorrono due ferri a forma di foglia, uno per unghia. I buoi perdono facilmente i ferri, e questi arrugginiscono per la campagna.

Archeologi inglesi hanno scoperto un sito preistorico dove venivano prodotti chopper, amigdale o punte di freccia: dalla disposizione delle schegge ammonticchiate, apparve evidente che anche l’antichissimo scalpellino era seduto a terra, a gambe aperte. Gustave Courbet, nel 1849, dipinse due quadri aventi a soggetto lo spaccapietre, che però è un mestiere assai diverso dallo scalpellino: lavora infatti tenendo un ginocchio a terra, avvolto in un pezzo di ruvido sacco. A Roma, lo spaccapietre (ma forse è uno scalpellino) lavora i sampietrini, grossi ciottoli di pietra lavica a forma di piramide tronca a base quadrata, con i quali si pavimentano le strade, solo in questa città. Una volta, gli spaccapietre erano galeotti, ora non usa più. I sampietrini vengono infossati in un letto di sabbia, e un tempo erano ribattuti con il mazzapicchio. Il mazzapicchio era un grosso e pesante tronco di legno rinforzato da strisce di ferro e attraversato da due grosse sbarre, sempre di legno, di diseguale lunghezza. Arrivava all’altezza della cintura e lo si impugnava per le due sbarre. Veniva sollevato e lasciato ricadere pesantemente sul sampietrino. In genere, con il mazzapicchio lavoravano due operai: ciascuno aveva il suo, e i due si alternavano ritmicamente nel sollevare l’attrezzo e batterlo giù. E’ un mestiere sparito, anche a Roma. In Italia non si fabbricano più sampietrini, vengono importati dalla Cina, ma sono differenti, tozzi e scabrosi. Hanno sfigurato le strade di Roma.

La scala a pioli

Mariano sapeva fabbricarsi una scala a pioli: c’era una cultura contadina del legno che oggi è scomparsa. Mariano tagliava dalla macchia un tronco ben dritto e della lunghezza necessaria, del diametro di circa quindici centimetri. Con la roncola lo ripuliva della corteccia, cosicché la superficie risultasse liscia e senza asperità, che potrebbero ferire le mani di chi userà la scala. Sempre con la roncola, lo fendeva longitudinalmente, dall’alto in basso, in modo che i due semitronchi, una volta separati, risultassero perfettamente identici l’uno all’altro e potessero fungere da montanti della scala. Sulle loro facce interne, con un grosso succhiello, praticava quindi dei fori, a intervalli regolari. I fori dovevano corrispondersi sui due montanti. Da un’altra parte, intanto, Mariano aveva tagliato, da un altro arbusto, tanti rami di circa due centimetri di diametro ciascuno, della lunghezza adeguata alla larghezza della scala. Siccome questa, per lavorare tra gli ulivi, doveva essere leggera e portatile, la sua larghezza mi pare non superasse, alla base, i quaranta centimetri, restringendosi leggermente all’estremità superiore. I rami, convenientemente spellati e con le due estremità lievemente rastremate, venivano incastrati nei fori praticati nei montanti, da una parte e dall’altra. La scala era fatta, con i suoi pioli. Il legno dei montanti era diverso da quello dei pioli, avevano funzioni diverse. Non so però il nome dei due tipi di legno, Mariano è morto prima che potessi chiederglielo. A questo punto, Mariano immergeva la scala nell’acqua e ve la teneva a lungo. L’acqua faceva gonfiare i legni, che avrebbero aderito perfettamente tra loro, per sempre. Mariano non usava nemmeno un chiodo. Una buona scala a pioli non deve avere nemmeno un chiodo. La scala di Mariano era leggerissima, veniva trasportata facilmente da una pianta all’altra, penetrava delicatamente tra le fronde per la raccolta delle olive o per la potatura. L’ulivo deve essere potato, dice un proverbio, così che la rondine possa volare attraverso le sue fronde. Anni fa, in Umbria venne la gelata, e tutti gli olivi sembravano morti. Il contadino tagliò i grossi tronchi alla base del pedale, l’anno appresso spuntarono i cacchi. Il contadino ne lasciò alcuni, due o tre, o anche cinque, a seconda della grandezza del pedale. Quegli ulivi, oggi, hanno ciascuno più tronchi, ma sottili e bassi, e la raccolta ne viene avvantaggiata.

Farneta

Scale a pioli di antica fabbricazione, sottili e altissime, sono conservate nell’Abbazia di Farneta. Fondata dai benedettini tra il IX e il X secolo e dedicata alla Madonna Assunta, l’Abbazia ha una unusuale forma a T, come molte chiese preromaniche. Secondo l’antica devozione, le sue absidi sono rivolte ad oriente. Quando la scoprii era officiata da un vecchio prete, don Sante Felici, che l’aveva riportata all’antico splendore dopo secoli di incuria e di devastazioni. La facciata attuale è arretrata di quattordici metri rispetto all’originaria, che aveva anche un portico di cui restano poche vestigia. L’edificio venne ridotto alle attuali dimensioni a metà del settecento, alla fine dell’ottocento fu abbattuta la torre campanaria, altri scempi seguirono. Don Sante Felici arrivò a Farneta negli anni ’30, dandosi con amore infinito al ripristino delle sue bellezze. Quando l’ho conosciuto aveva circa ottanta anni, adesso è morto. La sua vita è stata una laboriosa, santificata solitudine. Viveva povero nel casale-canonica annesso alla chiesa, una volta alla settimana si cucinava un bel po’ di pasta, giorno per giorno scaldava quella che gli serviva. Collezionava reperti d’ogni genere trovati o scavati nella campagna intorno. Nel piccolo, bellissimo museo ordinato in nude, fredde stanzette, mostrava con fierezza urne funerarie etrusche, statue romane, terrecotte altomedievali effigianti S.Pietro e S. Paolo, un Cristo risorto del 17^ secolo, una bella acquasantiera, una tomba medievale “alla cappuccina” con tutto lo scheletro, e la copia di uno stampo di quelli usati per fondere le tipiche croci longobarde. L’originale è altrove, al sicuro, ladri hanno visitato la canonica. Lo stampo, quadrato con i lati di circa otto centimetri, ha sulle due facce, in scavo, le sagome della croce latina, con i bracci svasati. Lo scavo è profondo un tre-quattro millimetri. Gli orefici longobardi vi versavano dentro oro o argento. Queste croci longobarde erano bellissime. Nella sagrestia erano anche conservati reperti della seconda guerra mondiale, nella zona si erano avuti combattimenti con i partigiani: elmi tedeschi sforacchiati, bossoli di cannone. Alcuni di quei bossoli, che sono in ottone, erano stati lavorati in forma e per uso di vaso da fiori.

Don Sante Felici era un autodidatta, ma esplorava con grande perizia le cave di sabbia dei dintorni e vi raccoglieva ossa preistoriche. Al Museo paleontologico di Firenze è conservato lo scheletro di un “Elephas Meridionalis” o “Antiquus” del Pleistocene, da lui riesumato. Per questo, era stato nominato sovrintendente onorario per la Toscana. Ne avevano parlato giornali tedeschi, di cui lui teneva esposta una copia. Aveva anche prodotto un dizionario del dialetto cortonese lodato dalla Crusca, e un disco di canti popolari. Quando era arrivato a Farneta, la cripta, sotto l’abside, era interrata da secoli. Lui l’aveva riportata alla luce, svuotandola della terra e degli scheletri e scacciandone le serpi che vi facevano il loro nido. Tozze colonnine d’età romana dividono la cripta in tre celle con volte a botte e a crociera. Una è di granito rosa e proviene da Assuan, due sono di un marmo orientale, un’altra ancora è di marmo ionico. Hanno interessanti capitelli e presentano, scolpiti qua e là, caratteri alfabetici e una figura del mitico Acheloo. C’è anche la stele funeraria di una “Quarta, figlia di Erennio Pompeo liberto”. Il prospetto posteriore dell’Abbazia è un capolavoro, ha tre absidi che sporgono dalla liscia superficie di pietra, nitide come opere di Brancusi, di Max Bill o di Jean Arp. L’architettura romanica creava geometrie di volumi di grande purezza. Bruno Zevi diceva che per riconoscere il romanico basta guardare se la chiesa è asimmetrica nel disegno complessivo e nelle parti: in queste chiese, sovente, gli spazi dell’intercolumnio e quindi anche gli archi tra le colonne sono diversi l’uno dall’altro. L’ottocento positivista fece delle repliche di romanico, ma simmetriche e senza dissonanze, noiosissime. Dietro ripetute, vigorose insistenze del vecchio prete, l’azienda elettrica aveva spostato e allontanato i piloni dell’alta tensione, prima piantati a pochi metri dalla facciata. Il terreno intorno è argilloso. Se ci cammini quando l’argilla è bagnata, questa si attacca alle scarpe in zolle enormi. Don Felici diceva che l’”argilla è amorosa”.

La vanga
La vanga è l’attrezzo principale dei contadini. E’ una lama di ferro triangolare appuntita, una costola verticale la irrobustisce ed evita che si pieghi per la resistenza della terra, della zolla. La costola si prolunga in una sorta di canale sporgente di una dozzina di centimetri, nel quale viene inserito un manico di legno, lungo all’incirca quanto un uomo. Nel manico, a un dieci centimetri sopra la lama, viene inserita una sbarretta di ferro che sporge per una dozzina di centimetri. Il contadino poggia la punta dell’attrezzo in terra, poi con il piede sinistro preme sulla sbarretta e la pressione fa sì che la sottile lama penetri progressivamente nel suolo. Si aiuta l’operazione tirando a sé e facendo oscillare, di tanto in tanto, il manico: così si allarga la fessura nel suolo e si facilita la penetrazione della vanga. Quando tutta la vanga è penetrata nel suolo, il contadino tira a sé con forza il manico, facendo staccare la zolla e rovesciandola, con un movimento analogo a quello che fa l’aratro. Lungo il taglio prodotto dalla vanga il suolo è compatto e lucido, sembra metallico. E’ anche profumato. Un bravo contadino sa usare la vanga in modo che il terreno lavorato abbia un aspetto uniforme, con le zolle regolarmente allineate l’una all’altra, senza accavallamenti disordinati. Se la terra non è stata vangata per lungo tempo, le zolle strappano e portano con sé anche l’erba che vi è cresciuta, e tra zolla e zolla compare un bell’effetto di colori, tra il verde e il bruno. La vanga si usa solo per piccoli orti, giardini, aiole.

Pecione
Pecione ripara le scarpe. Risuola, o rifà i tacchi, ma la maestria emerge nella riparazione delle suole, la risuolatura. Talvolta, quando l’usura è contenuta e il buco è ancora piccolo, lui stesso suggerisce l’applicazione di una pezza. Pecione gira per il quartiere, si ferma dove viene chiamato. Mia madre, soprattutto a causa mia, lo chiama spesso. Per questo, lui suona fiducioso al nostro campanello, quando si trova dalle nostre parti. Mia madre gli mostra il paio di scarpe da riparare, tira un po’ sul prezzo, e lui si posta con le sue carabattole accanto al cancello di casa nostra o all’angolo della strada, vicino alla fontanella. Per il suo lavoro, ha bisogno di acqua. Le fontanelle di Roma sono chiamate “nasoni”, perché l’acqua sgorga da un lungo cannello ricurvo. L’acqua è sempre fresca, un tempo era “Acqua Marcia”, la migliore acqua del mondo. Pecione mette a mollo, sotto il nasone, un pezzo di cuoio - un po’ più grande della suola o del tacco da riparare - ritagliato dal rotolo che porta con sé, legato a una cordicella. Lo ritaglia con la lesina, dalla lama a sguincio affilata come un rasoio. Intanto ha sistemato le cose che aveva a spalla: un seggiolino di paglia, un grosso sacco di pelle con gli attrezzi, il rotolo di cuoio, d’un color tabacco chiaro e ancora le venature superficiali della bestia viva. Ritira il pezzo ammollato, si siede sullo sgabellino e comincia a batterlo col martello su una minuscola incudine delle dimensioni di un piede, ben stretta tra le ginocchia. Il martello dei calzolai ha una forma strana e bellissima. La testa di ferro ha due ali, o penne, lievemente incurvate: una sembra proprio un becco d’anatra fessurato (il martello è detto “a granchio”) e serve per estrarre le bollette, l’altra invece termina in un disco con il quale il calzolaio batte su chiodi e bollette. Pecione batte a lungo il pezzo di cuoio per renderlo più compatto e resistente, e lo adatta alla scarpa rifilandolo tutto intorno con la lesina. Ha strappato via la suola vecchia, la nuova sta lentamente prendendo forma. Sempre con la lesina, scava una millimetrica fessura tutto in giro, a un centimetro dal suo bordo. Estrae quindi dal sacco un grosso fiocco di canapa o refe grezzo da cui separa lunghi filamenti che arrotola in due sottili spaghi passandoli e ripassandoli, con un mezzo guanto di cuoio ammorbidito dall’uso, prima su un blocco di cera rossastra e poi sul logoro grembiulone di pelle. Inserisce quindi un crine di cavallo ad una delle estremità dei due spaghi. Li farà ora scivolare - contemporaneamente, uno da una parte uno dall’altra - nei piccoli fori che viene praticando nella scanalatura con un punteruolo ricurvo. Ripete l’operazione tutto intorno stringendo a sé ogni volta, con forza, gli spaghi, finché la suola è saldamente cucita alla tomaia. Rifinisce poi il bordo con la carta vetrata. Il bambino osserva, gli occhi sgranati. La memoria è un fossile.

Riparare il tacco è operazione molto più semplice. Si applicano sul tacco uno o due strati di cuoio, tagliati anch’essi su misura, e li si imbulletta. Pecione tiene le bollette in bocca per insalivarle e renderle più scorrevoli. Sia sulle suole che sui tacchi appena applicati, Pecione spalma il bordo con un po’ di cera e di vernice, usando un piccolo attrezzo dalla testa gonfia e curva, che ha messo a scaldare sulla fiamma di un candelotto fatto con una lattina. Il calore scioglie la cera e la vernice. L’ultima operazione consisterà nel passare sulla suola o sul tacco una rapida mano di vernice nera o marrone, lucidandola con uno straccetto. La scarpa è tornata proprio come nuova.

L’ombrellaio

L’ombrellaio ha, a tracolla, una grossa cassetta di legno, quadrata o rettangolare, lunga sessanta-settanta centimetri, larga venti-venticinque. E’ chiusa da una stringa di cuoio forato che si incastra in un qualche piolo piantato sul fianco ed è portata a tracolla grazie a una cinta di cuoio o un pezzo di nastro per le persiane. Il legno è scomparso sotto strati di sporcizia grigiastra. Dentro la cassetta, un martello, un tronchesino, due o tre pinze piccole e una un po’ più grande, con le estremità a punta arrotondata, come un becco. Poi, rocchetti di refe, qualche barattolino di colla, un rotolo di fil di ferro, striscioline di latta dei barattoli di pomodoro. Sempre a tracolla, sull’altra spalla, vecchi fusti di ombrello di varie fogge, con o senza il manico, tenuti assieme a fascio. Può anche avere, a piacimento, altri ombrelli integri, sciolti o in un altro mazzo. Gira per il quartiere, quando qualcuno gli porta l’ombrello da aggiustare, lui si siede sopra la sua cassetta dopo averne tirato fuori gli attrezzi. La maggior parte delle rotture da riparare è nelle stecche. Gli ombrelli di oggi sono piccoli, hanno stecche ripiegabili, come il mantice delle spider di lusso, sono rimasti pochi gli ombrelli lunghi, con la stecca unica, generalmente nera, terminante comunque sempre nel pirolino staccabile, che sembra il pedone di un gioco di scacchi. Le stecche possono essere in tondino di acciaio oppure in lamierino sottile, piegato ad “u” squadrato. Le rotture avvengono nelle giunture tra le stecche e le barrette che le uniscono al fusto. La riparazione consiste nell’inserire, nei forellini della giuntura, sottili segmenti di fil di ferro che poi vengono serrati. Le stecche tornano a piegarsi correttamente, evitando che la barretta si infili di nuovo nella stoffa. Qualche volta il manico si stacca dal fusto, oppure il fusto si spezza. Se è di legno, si potranno rincollare le due parti, altrimenti occorre cambiarlo con uno di quelli portati a tracolla. A volte, anche, l’ombrello perde il puntale che è in fondo al fusto. L’ombrellaio ne ha sempre qualcuno di riserva, usato, nella cassetta, da sostituire al mancante. Può anche essere necessario applicare un nuovo pirolino in cima alla stecca, per evitare che questa ti acciechi, quasi fosse diventata un fioretto da scherma. Gli ombrelli d’un tempo avevano l’impugnatura in legno, in bambù, in metallo, o anche in avorio scolpito, in foggia di testa di cane o altro. Gli ombrelli di oggi non si aggiustano, si buttano via. Sono per lo più fabbricati in Cina. L’ombrellaio è stato rovinato dall’avvento della plastica. Un tempo, faceva anche l’aggiustatore di piatti, ciotole, vasi e terrecotte. Arrivava con il suo lento passo, gridando forte: “Ombrellaio! Concoline da accomodare!” La “o” e la “e” finali venivano prolungate e tenute sospese, con una inflessione nasale caratteristica. L’inflessione nasale era l’”insegna” dell’ombrellaio. Dovevi essere un vero uomo del mestiere per saper dare quell’inflessione nasale così unica. Le donne, quando la sentivano, scendevano precipitosamente per strade, portando l’ombrello, il piatto o il coccio da accomodare. Accomodare piatti e cocci era molto difficile. Nella novella “La giara”, Pirandello racconta come si aggiustano i grandi orci da olio, ma quello è un lavoro grezzo di fronte alla sottile tecnica dell’aggiustare un piccolo piatto. L’ombrellaio d’un tempo metteva i due pezzi a combaciare, poi praticava dei forellini minuscoli sulle due parti, in corrispondenza esattissima, forellino con forellino. Per fare questi forellini usava un trapano a mano, identico a quello usato nella preistoria dall’homo habilis. Si tratta di una asticella, in cima alla quale viene saldamente applicata una punta aguzza, spesso fatta con un pezzetto di stecca d’acciaio da ombrello. A un quarto dalla estremità con la punta è incastrato un disco, di legno con bordi di piombo. Più su, c’è una sbarretta orizzontale forata, che può scorrere su e giù lungo l’asticella. Alle due estremità ha una robusta cordicella, fissata all’estremità dell’asticella. Facendo rapidamente scorrere su e giù la sbarretta, questa trasmette, grazie alla cordicella, un moto rotatorio all’asticella, e la punta può così perforare la terracotta. Nei forellini veniva infilata una grappetta di sottilissimo fil di ferro, insieme a qualche goccia di colla. Con un piccolo martello si mette in perfetta posizione la graffetta. Di queste graffette a volte sono necessarie molte. Quando la colla si è asciugata, il piatto o la concolina è aggiustato. Si fa la prova riempiendola d’acqua, che non dovrebbe uscire né filtrare.



giovedì 8 novembre 2012



W IL WESTERN
(da “Il Foglio”)

Una parola è come un brillante dalle lucenti sfaccettature: a leggerla controluce, oltre a quello corrente e d'uso, rivela molti altri significati meno visibili e riconoscibili, spesso inaspettati e sorprendenti, persino lontani tra loro. Attraversando i secoli, logorandosi nell'uso, confrontandosi con il contesto, ci sono parole che hanno dato origine ad altre dal significato anche opposto alla radice originaria. Seguire queste avventure semantiche è un piacere raffinato, si fanno straordinarie scoperte, è un percorso attraverso - come dire - paesaggi mentali diversi e inconsueti. Ringraziamo la filologia che ce lo permette.

Senza far ricorso ad un aiuto così impegnativo, mi è venuto di fare queste considerazioni scorrendo, sul numero di ottobre della rivista “L'indice dei libri del mese”, il box che Bruno Bongiovanni dedica al termine “western”. Il box di Bongiovanni è una rubrica fissa - titolo: “Babele: Osservatorio sulla proliferazione semantica” - dedicata ogni numero ad una parola, un termine, di cui ci fa seguire le vicende storiche e i risvolti culturali. La parola, il termine che ha dato la stura alle mie considerazioni era “western”, cioè “occidentale”. Di “ceppo germanico”, ci spiega Bongiovanni, lo si trova già in Shakespeare e in Milton con significati “intrecciati” e “diversi”. In America, “western” è ciò che è “coming from the west”. “Vi è chi lo osserva dall'Est, da quell'area atlantica ospitante le 13 colonie che (…) danno vita agli Stati Uniti”: e costui scorge “spazi enormi” con “pionieri, avventurieri, rangers, cercatori d'oro e di altre ricchezze, mandriani, coltivatori, uomini d'affari, gente in grado di trasformare il deserto in giardino, combattenti contro le tribù indiane, outlaws, sceriffi, eroi...”. Bongiovanni vuole soprattutto evidenziare l'approdo finale della parola, il suo indicare, ormai stabilmente ed esclusivamente, quel notissimo genere di film, nato ai primi del novecento, che narra avventure o vicende accadute nel “west”, raccontate dapprima da cinematografari americani, poi anche da seguaci e imitatori: in prima fila gli italiani, creatori dello “spaghetti western”, appunto.

Lo stesso Bongiovanni ricorda che il termine era stato impiegato con altre accezioni: “l'impero occidentale sorto nel 395 d.C.” o - infine - “la parte d'Europa alleata degli USA nel corso della guerra fredda...”, ecc. Non fa menzione però (ma si capisce, è uno storico e la metafisica non è nel suo mirino) di un altro significato che a me pare fondamentale e anche stuzzicante : nella corrente (e corriva) geografia culturale europea, l'”occidente” è l'ambito, la dimensione specifica - addirittura - di un modo di essere dello spirito umano. Il termine, che nell'accezione andrà scritto con la maiuscola, definisce e ritaglia quell'ambito geografico e storico che ha come suo centro l'Europa, con qualche frangia anche al di là dell'Atlantico, ma subito salta al significato geografico ad un altro, di genitura filosofica e metafisica. In questa versione, nell'ultimo secolo all'incirca, ha goduto di pessima fama. L'”Occidente” è stato denunciato come la sede, la sorgente di tutti i mali che affliggono i nostri tempi: la scristianizzazione, il relativismo, l'individualismo, la tecnica, la “crisi dei valori”... Per queste sue negatività è destinato al tramonto, anzi - con termine usato solo in questo contesto altamente specialistico - all'Untergang”. In un suo recente saggio - “Cosa resta dell'Occidente” - Gian Enrico Rusconi rielabora puntualmente le tesi di quanti hanno indagato sul tema: in tutte, “Occidente” è termine metastorico e metafisico, maledetto come modello negativo e da ripudiare, a causa del quale sono inevitabili diagnosi ultrapessimistiche sul destino dell'intera civiltà.

Lo avrete notato anche voi, l'occidente del “western” ci parla in positivo. I suoi paesaggi ci dipingono orizzonti superbi, libertà sconfinate, una selvaggia, indomita bellezza; i suoi personaggi, lineari e quasi sempre privi di psicologia, sono eroi di una lotta nella quale il bene finisce sempre per trionfare. Per l'americano, il west - l'occidente - è il miraggio, l'ambiente eletto del suo sogno esistenziale e anche civile. Per l'europeo, l'occidente evoca invece tristezza, sconfitta, angoscia. L'occidente a cui lui si rivolge è un paesaggio ideale caro ai filosofi, a filosofi di un particolare filone, forse però esaurito o almeno in via di estinzione. Ma davvero, come costoro ci predicano, dobbiamo investire questo termine di tante responsabilità, attribuirgli un valore assoluto, metastorico? Scherzando e ironizzandoci un po', potremmo, o meglio dovremmo ricordare che l'occidente è tale - sempre e solo - in relazione ad un oriente, e può a sua volta diventare o essere visto come l'oriente di un occidente ancora più lontano, più - per capirci - ad ovest. In quest'ottica, relativizzato e storicizzato, non dovrebbe fare più paura come non fa paura - anzi - all'americano. E per intanto, tra Buffalo Bill e Schopenhauer, voi chi scegliereste?


sabato 3 novembre 2012


U N  F L A I A N O  A  O S T I A


Guardala lì: sempre sul palcoscenico, lei. E guarda lì come l'applaudono, appena si china a baciare sulla guancia un fotografo e poi avanza, verso la spiaggia e il mare - che mare, scoppiettante di luci e di riflessi!... Guardala lì. Ma chi crede di essere, dico io: anzi, chi è, che alla fin fine di lei si sa solo quello che ci ha raccontato sullo schermo, mica con le parole, mica col copione, ma col corpo, e in primo luogo con quel volto straordinario - un po’ spigoloso, con gli occhi troppo scuri dentro l'ombretto straripante - il volto a forma di cuore di una che in amore prende lei l'iniziativa. Dio, che donna. Per lei ci vorrebbe il cazzo di Saturno. Un cazzo infaticabile, divino, per soddisfarla, placarla finalmente…

Commendatore. Commendatore, ne facciamo una storia?” “Una storia? Che storia?"

Una storia, un film, con quella là. Ascolti, commendatore. Io già la vedo, la scena, una scena favolosa…Chiuda gli occhi, commendatore, e mi segua: un campo lungo, e siamo lassù sull'Olimpo, e sull'Olimpo c’è Saturno, il padre di tutti gli dei...” “Saturno? Mi piace. Saturno o Maciste vanno sempre, è roba forte. Ma quella? Come c’entra, in questa storia?" “Scelga lei la parte, commendatore: Deianira, Leda, Medea, Europa - chissà quale va bene, mi piacerebbe chiederlo a Flaiano, si vedrà". "Per carità, niente operazioni filologiche! Per carità! As-so-lu-ta-men-te niente operazioni filologiche. Eh, mi raccomando". “Stia tranquillo, commendatore”. Niente filologia, dice lui. Ma chi è lui? Il produttore, vabbè - però anche per fare un polpettone su Maciste uno deve imbarcarsi in situazioni storiche, e non fa nulla se credibili o meno, poi della filologia me ne sbatto anch’io, lo so che contano solo i primi piani e i campi lunghi, le zumate e i tagli, i tempi e il montaggio, questo conta e su questo tu ci inzuppi il pane, sono i tuoi ferri del mestiere. “Niente paura, commendatore, lasci fare a me”.

Dunque, sì. Ma adesso guardala lì che rientra, guardala, è davvero unica. E io ne sono geloso, è mia - spiritualmente, si intende! - per come l'ho catturata e plasmata, l’ho fatta quella che è. Lei però di me se ne frega. Succede, con queste stronze, che alla fine non riesci a giostrarci più, non capiscono più quello che gli chiedi. Ma adesso vedremo, con questa storia la incastro e me la riprendo, sicuro. Intanto guardala, come affascina 'sta folla, 'st'ammucchiata di gente beota che fa mistico semicerchio mentre lei si infila le scarpe sui piedi bagnati e resta lì, scosciata. E fa pure cenno - zitti tutti! - vuole parlare, e quelli lì, attorno, con gli occhi torvi, figurarsi. Che ci avrà mai da dire. Guardala: accetta golosamente il saluto, gli occhi strabuzzati: non ha bisogno di emozionarsi, lei è superiore a tutto e a tutti ma gli piace follemente l'ossequio, il clamore un po' stupefatto dell'applauso. Anche l'invidia: che del resto fa bene, lo sanno tutti, può essere dolce…

Allora, dove ero rimasto? Ah, ecco: c’è Saturno lassù sull'Olimpo. Il ciak apre su di lui sul trono, circondato da gente, gli dei, i coppieri con ali e tutto. Uno stacco, e subito il primo piano di lei: lì, seduta sulla roccia, ad aspettare. Che aspetta? Ma è ovvio, e da qui parte la mia storia: aspetta il dio, un dio che verrà a sedurla, a chiavarla. Sta lì ad aspettare lui, il dio abbiamo detto… Ma no, no, che dico, così non va, troppo facile. Mica lo so veramente che racconta 'sta storia, come va a finire. Però, sicuro, noi la faremo meglio di “Ben Hur”, quell’americanata di Wyler. Sarà il meglio di tutti gli Ulisse e i Maciste e i pepli dello schermo. Bello realizzarla come la vedrebbe Flaiano, e non come pretenderà - figurarsi - ‘sto produttore, tutti ‘sti mediocri. Comunque, intorno, mare di sfondo, tanto mare. Questo mare, naturalmente, niente Caraibi. Buongiorno Ostia: vivranno di nuovo, giuro, tutti i tuoi miti. Sono i miei fantasmi. Bella spiaggia, Ostia. Un tempo. Che nostalgia. Da ragazzino ci venivo in macchina con gli zii, loro erano ricchi e mia madre invidiosa diceva che erano dei profittatori. Allora chiunque fosse ricco era un profittatore, per gente come noi senza un soldo in tasca. Col fascismo nacque l'invidia piccoloborghese, io la sentivo palpabile, in famiglia. Io però a Ostia ci venivo in macchina, mi ci portavano questi zii, ricchi e un po’ pietosi verso di noi. Che mia madre odiava, per invidia. Andai. Loro mi portavano con sé al mare, a Ostia, perché loro ce l’avevano, la macchina. Tornavamo la sera, la notte anche - c'era una strada lunga e dritta che a me, nella luce dei fari, sembrava enormemente lunga - tornavamo con nel naso l'odore dell'erba fresca che entrava dal finestrino. Mi addormentavo, felice e triste di essere un po' ricco anch'io. Ostia nasceva col fascismo, così.

Che c'entra questo, col cinema? Ma per me il cinema è solo nel ricordo di quegli anni. L'unico cinema che per me conti, è l'ossessione di quegli anni. Arrivare qui, a Ostia, a quel mare di allora, era meraviglioso, altro che Fregene, Fellini e “La dolce vita”. L'odore acre della salsedine ti bruciava il naso e le gambe cominciavano a pizzicare dieci chilometri prima. E gli stabilimenti, il Battistini, il Duilio, il mitico Plinius! E le mille esistenze, i minuscoli crostacei, granchi d’ogni dimensione, lumache di mare, che brulicavano oppure si spappolavano e l'odore di marcio putrefatto si mescolava con lo sfrigolare della schiuma salata, delle alghe ammucchiate. E gli insetti. A milioni, sulla superficie della sabbia come sull'acqua di uno stagno, veloci e affannati, lasciavano le loro impronte parallele, si infilavano in buche appena scavate e d'improvviso, zac!, ti spruzzavano addosso, negli occhi, granelli di sabbia. Iridescenti, come proiettili, una mitragliata. Io mi sentivo come il gigante... E il primo sguardare le donne, seminude, brune, sudate, senza sapere cosa dovessi fare, cosa fare con loro, di loro, e il dolore dello smarrimento adolescenziale: misteriose, bellissime e irraggiungibili, sempre.

Lei, quella lì, dove l’abbiamo lasciata? Lei, lei, sempre lei. Ma certo ci deve essere lei con la sua parte da protagonista, lei ancora e sempre, fino in fondo, fino alla feccia: lei sarà il centro di questa storia. Che nasce da lei, diciamocelo, dal suo ventre, dalla sua fica. Bisogna farlo sentire, e magari presentire, con qualcosa che richiami per analogia, che so, i suoi occhi, il loro colore, o magari la curva del culo, lì, che si sovrappone a un'onda alta, grande, gigantesca in primo piano, prima che piombi giù, ritornata liquida, sfatta, intensamente ostile, in fondo; anche questo farò sentire, si dovrà sentire senza che si avverta, però, che l'ostilità è diretta contro di lei. Proprio no, lei deve uscirne pura e casta, desiderata e desiderabile castamente. “Sarà fantastica, commendatore. Pure adolescenziale”. "Possibile?" “Certo che sarà possibile, commendatore. Mi creda, adolescenziale”.

Facciamo così, invece: Saturno geme. Sì, Saturno geme. Geme, urla, perché qualcuno - invidioso, o geloso - si è vendicato. Sarà il Fato, saranno le Parche, e - zac - glie lo taglia, glie lo ha tagliato, il grande cazzo, e lo getta di lassù nel mare. Roba da Eschilo. O Sofocle, vedremo, lo chiedo a Flaiano…E cadendo, quel cazzo divino, immenso, piombato dal cielo, tagliato via da Saturno, dal padre degli dei, figurati!, e figurarsi quindi che cazzo immenso!, ecco, ecco, tutto a un tratto comincia a schizzare fuori sperma. Una colata, una fiumara di sperma, bianco, iridescente, magmatico, qualcosa tra la galantina di pollo e le vernici acriliche, una marea lattescente, una via lattea; una nuvolaglia ilare che quando esce, quando è eruttata dal cazzo immenso, sfiata, borbotta, sibila, schizza, si effonde, fluisce torbida e giallastra, però luminosa in fondo, è lo sperma di un dio, anzi di Saturno che è il padre di tutti gli dei, e quindi figurarsi come deve essere cristallino. E quanto, anche; perché se Saturno ha la zazzerona, barba e capelli fluenti e bianchi, la sua possanza è però ancora infinita, come quella di un giovanetto, di un poco più che adolescente, quasi vergine, alle sue prime eiaculazioni da uomo, represse e controllate, e infine gloriose e irrefrenabili, insomma una fontana divina che schizza nel cielo e lo macchia e lo corrompe, certo, ma lo corrompe perché lo feconda, lo feconda con ogni sua gocciolina, con ogni schizzo, sprazzo, stroscio; tutto viene fecondato da quella fontana, da quel fontanile divino, che eccita persino l'aria e la fa vibrare...

e allora, ecco che su questo mare accidioso, inerte, bruto, vuoto, in questo cielo immenso ma stupido, comincia a risuonare un incanto di suono. E' la musica! Il cielo, schiaffeggiato dall'immensa vernice celeste, comincia a vibrare di un vento nuovo e inaspettato, vergine, leggero, modulato: è la musica, il concento divino delle note che si aprono, si distendono, si allineano una dietro l'altra, in scale, in fraseggi, in motivetti, in cascatelle ridenti e consonanti.

Quel vuoto, la cavità dei cieli, deserta prima della prima eiaculazione, naturalmente non conosceva né i venti né tantomeno gli uccelli, lo sbattere delle ali degli uccelli, l'aria era immota, nemmeno un rumore, figurarsi i suoni e i canti. Devo far capire che siamo al tempo di prima della creazione. Devo farlo capire. Il prima assoluto, assolutamente il prima di tutte le cose. Chiederò al tecnico di crearmi il suono del silenzio e di farmi vedere il vuoto, la vuota assenza di movimento, di pulsazioni, di essenze se non di essere - per gli antichi mi pare che l'essere poteva esserci senza essenze e questa era anzi la condizione primigenia del mondo senza cose, dunque del caos che è essere senza essenze ed esistenze, essere vuoto, puro essere insomma - e il tecnico, il fonico dovranno rendermi bene, per i primi cinque minuti, la infinita sequenza prima del rombo della caduta del gran cazzo di Saturno che è l'inizio di tutte le cose, di tutti gli esseri. L'inizio è sordo, oscuro, un rumore indistinto. Poi, dal semplice al complesso, dal rumore bruto su su fino alla musica, che viene dopo. E' l'immenso, straordinario, imprevedibile ciak che apre l'universo…Fino a qui, perfetto. “A che pensa, commendatore? O dorme?”

Vada, vada avanti, scriva, scriva. Intanto mi lasci ascoltare Mina a ‘sto juke-box. La sente? Sta cantando ‘Stessa spiaggia, stesso mare’, meravigliosa donna”.


E poi? Poi vedremo che suoni produrre per rendere il momento della nascita della musica e con lei di tutte le cose come essenze, "le quiddità" avrebbe detto il professore di filosofia al liceo; una musica che dovremo sforzarci di fare armonica, ben scandita in un ordine pitagoreo, misterico insomma, come dire Petrassi o Nono, boh!, vedremo poi. Dall'oboe al clarinetto più sublime, come nei film scientifici e i documentari sulla natura, quando si vedono le cose greche pecorecce e si sente sempre clarino, flauto, qualcosa di campestre, che va bene, benissimo. E - dimenticavo - le arpe, l'arpa che si vede in sovrapposizione con la mano della donna che sale e scende sulle corde e produce la musica, sale e scende come un'immensa sega che in fondo dobbiamo fare intuire, una sega immensa su quel cazzo pieno di sperma, da cui devono alla fine nascere tutte le cose.

Buono, bene, fin qui. Tutto bene. Mi sorprendo come tutto viene giù così semplice. Dove arriveremo? Questa storia alla fine è inquietante. E sì, può distruggermi, se va male, bisognerà sentire pure il Vicariato… Ma dove ero? Ah, ecco: ecco che quello sperma, piombando come una pioggia infinita sul mare, sulla lastra di piombo di questo mare di Ostia, vuoto dall'eternità, da sempre, dall'infinito vuoto del tempo, ecco insomma che quello sperma tutto a un tratto, piombando e sgocciolando, sbattendo in una miriade di gocce sul mare, su questo mare così piatto e vuoto, insignificante, lo scuote, lo sconvolge, lo fa ondeggiare, petillare, singhiozzare, zampillare e alla fine eccolo lì!, schiumeggia tutto. Insomma, quello sperma diventa la schiuma, la spuma del mare. Tutta la spuma del mare, quella di ieri e quella di oggi, quella di sempre, ogni spuma del mare in ogni tempo e in ogni latitudine, quella che da bambino raccoglievo nelle sinuosità del bagnasciuga o sotto le palafitte del molo, affogato di salsedine, smarrito da una delle meraviglie del mare, la spuma iridescente.

Formidabile intuizione. Difficile renderla, ma si deve vedere, si deve sentire. Gli spettatori, tutti, ad uno ad uno, nella sala, lì al chiuso e al buio della sala, dovranno sentire che quegli schizzi di spuma che vedranno, ossessivi, rotolare sullo schermo, panoramico e immenso, riempiendolo tutto da occidente a oriente, da cima a fondo - tutta quella spuma, quella vernice - sono lo sperma di Saturno. Dovranno fare un "oh!" di meraviglia e saltare indietro, dovranno gridare di ebbrezza e di schifo: eh, si, voglio proprio vedere come si comporteranno, sotto quella immensa pioggia tridimensionale che perforerà lo schermo e schizzerà fuori sulla platea e in galleria, umida, odorosa, di muschio, di antri, di salsedine, di scoglio, di pesce, di cernia, di cozze e di vongole, quella pioggia profumata e anche leggermente tiepida, di spuma, di schiuma, di sperma, dovrà far eccitare e gridare tutti gli spettatori, a uno a uno. Sarà un po' più difficile nella versione TV, con lo schermo piccolo non è la stessa cosa, ma perdio per una volta sarà la rivincita dello schermo grande, del cinema col suo specifico, che è il coinvolgimento, l'abbraccio dello spettatore, quel tanto di mistico, di uterino che ha il cinema e che la TV non ti darà mai; la vendetta del cinema, delle cose che hanno un peso e non sono evanescenti come quelle che si vedono in TV, e come sapevano quelli che da sempre hanno fatto cinema su questa spiaggia, questo arco di spiaggia di Ostia.

Questa spiaggia, la conosco bene. Non c’è Fregene o Sperlonga che tenga. Dedicata al cinema da sempre, da quando è nata. Una predestinazione, un amore accorato per la gente del cinema, i suoi gusti pesanti, il dopopranzo sbracato, il cameratismo insopportabile, "annamo a magnà a Ostia", le spaghettate, il pesce fritto, un po' di turpe sesso, un'epopea tutta romana, sempre con Fellini tra i piedi e Sordi, lo “Sceicco Bianco”… Ma sì, lo “Sceicco Bianco”. La “Dolce Vita” no, per quella c’è Fregene, una lagna... e insomma il grande cazzo cade in mare proprio qui davanti, fischiando dal cielo come un meteorite, grande e grosso ed eretto come era, il cazzo di un Dio, di Saturno, figurarsi - bell'idea, ma come mi è venuta? - ed infine precipita in questo mare: con un tonfo immenso, tra le onde bluastre, cinerine, torbide, un po' di merda, da sempre. Chiederò al tecnico come fare onde mostruose, piene di orrore, che si separano e si squarciano per non dover toccare il grande cazzo di Saturno che cade fischiando dal cielo. Ma perdio che tonfo e che schiumeggiare ne faremo, di 'st’onde, con un volto e la voce, quasi umane, tutte squittii, rombi, turbolenze, grida, rantoli, sussurri e sciaguattii vicini e lontani, un inferno...o piuttosto un Caos. Ecco, sì, un Caos primigenio, una idea con la quale ti frego anche Federico, lui un'idea così non l'ha mai avuta… E ora può arrivare lei. Sì, ora. Ma dove è finita, lei? Ah, sì, guardala: ancora tutti zitti, sempre lì, non la mollano un secondo. Che ci avrà mai da dire, figurarsi… Attenta, divina stronza, attenta a quel che fai, a quel che dici. Perché io posso tutto e tu no. ..

Bene: abbiamo la schiuma, che è lo sperma, e a un tratto…a un tratto da quella spuma balza su, all'improvviso, Venere. E’ la nascita di Venere! Ci siamo, perfetta storia e perfetta lei: perché lei e solo lei ti può ridare l’Anadiomene, l’erotica Ciprigna o come diavolo diceva il professore di lettere e noi ce la sognavamo, quando venivamo da poveracci a fare il bagno su questa spiaggia miserabile e malinconica di Ostia. Sì, solo questa qui, bisogna riconoscerlo, può essere la divina Anadiomene, la Venere unica, l'archetipo: questa stronza quì che non riesce nemmeno a concepire che razza di corpo le ha dato la natura, e se lo dondola, lo porta in giro, lo sbatte in faccia, negli occhi e nel cervello di tutti noi. Lei appare. Il tecnico deve inventarsi qualcosa di inaudito, perché la gente se lo possa immaginare, possa capirlo, l'evento. Lei, nuda, stupefacente, che appare in mezzo a quel mare di spuma, e appare come è, assolutamente ignara che quello che le galleggia intorno è sperma che schizza dappertutto, e lei sulla sua conchiglietta lo sfiora appena, non ne è toccata - nemmeno uno schizzo, su quella pelle perlacea, d'aria, di sogno, nemmeno uno schizzo! - lei se ne sta lì inconsapevole, buona buona mentre la conchiglietta, leggera, fragile, docilissima, viene trasportata dalle onde, dai flutti, che se la sbattono come un fuscello. La creazione: questo mare di merda mica lo sa che quella è Venere, l'Anadiomene, la Callipigia stupenda, le onde non lo sanno mica che quella è la Donna, proprio Lei, la grande maga dell'universo. Poi alla fine, con il barlume di luce che la creazione ha infuso in loro, si accorgono di quanto stupefacentemente bella sia la cosa che è apparsa lì in mezzo, d'incanto: e questa stronza davvero sarà mirabile, perché nemmeno lei si rende conto di essere proprio Venere, la prima cosa, la prima incarnazione delle cose, di tutte le cose, della bellezza del mondo che sta appena nascendo in quel modo miracoloso, da uno schizzo di sperma di quel poveraccio di Saturno che sta ancora lassù a gemere sull'Olimpo.

Lei è nata. E da quell'universo bestia e stupido esce come un sospiro, un "oh!" di meraviglia, perché alla fine ci se ne accorge, le cose si accorgono di quel che è nato. Se ne accorgeranno a poco a poco: insensibilmente, le onde cominciano a placarsi, le vedi farsi più molli, gibbute e senza punte, rientrare nello schermo Vistavision, ritrarsi, e si deve sentire che provano anche loro meraviglia, stupore, timore, dinanzi alla cosa che è nata. Si deve sentire, anzi, che con la cosa, con la donna, nascono appunto la Meraviglia, lo Stupore, il Timore e il Tremore, dico io, e insomma tutti i sentimenti e gli ingredienti del sublime e del mistero. I sentimenti, sicuro. Tutto questo si deve sentire. E poi, ecco che andiamo lentamente verso la conclusione, con un campo lungo, una zummata, un bel retino. Perché Venere lentamente si allontana, verso un fuoco dello schermo. Si allontana, leggermente, senza rendersi conto che sta uscendo di scena. Lei non deve dare l'impressione di avvertire che stiamo lavorando in zumata, non glie lo diremo, perché lei dovrà essere sempre naturale, in primo piano, solo con un giro su se stessa di centottanta gradi, perché prima dovranno vederla da davanti, con quel ventre e quel petto superbo, poi di culo, quella montagna immaginifica che è il suo culo. Ma di lontano e col retino, perché dovranno sforzarsi e immaginarlo, più che vederlo, quell'immenso culo che si allontana e digrada alla fine, nella luce calante. E intorno il mare, questo mare ritornato innocente, leggero, aperto, finalmente azzurro, con pochi baffi di spuma in primo piano, perché ormai lo sperma lo ha fecondato e si ritira lasciando relitti e gusci di conchiglie - le prime conchiglie! - e l'acqua, davvero la madre di tutte le cose, dovrà essere la madre di tutte le cose - ed ecco cominciano a svolazzare rondini, gabbiani dalle grandi ali, che fischieranno, sibileranno, faranno i primi suoni viventi, i canti di un mondo che sta nascendo, e il primo delfino scatterà e si inarcherà e ricadrà tra due onde, e persino qualche petalo di fiore. Perché lontano, digradante nel cielo senza nemmeno una nuvola, ecco che si distingue appena, all'alba del mondo, il profilo di Citera, l'isola beata, terra di Venere e dunque prima terra del mondo, e man mano che Venere le si avvicina portata dal vento le rive e le montagne e le colline si rivestiranno di una peluria - come quella del pube di lei, esattamente, e delle ascelle di lei - e poi di erbe e fiori e alberelli che si rizzeranno su con una grazia erotica sottile, adombrando ancora una volta, per gli spettatori, il mito primigenio. “Commendatore!”

Commendatore! Ho finito. Ecco come faremo il film. Sulla nascita delle cose e del mondo. Alla Flaiano, proprio come la racconterebbe Flaiano. Quì a Ostia. Con Sofocle o chi diavolo fosse, e con questa stronza. Solo con lei”.

giovedì 1 novembre 2012



I CATTOLICI, TRA L'ETERNITA' E IL QUOTIDIANO (*)
di Angiolo Bandinelli

Il Sinodo che si è svolto in Vaticano con la partecipazione di duecentocinquanta vescovi, ma anche di teologi e invitati a vario titolo, si è concluso in - e tra - un ovattato silenzio. Il papa, in chiusura, ha indicato come suo risultato di fondo l'acquisita consapevolezza che la chiesa debba innanzitutto “rinnovare se stessa”; ma, dai sommari delle “indicazioni” sinodali finora divulgati, non sembra che esso porterà novità rilevanti. Aperture pur attese non si sono realizzate. I divorziati, a favore dei quali nel Sinodo si era levata qualche voce, non dovrebbero vedere cambiamenti nel loro status: non saranno più giudicati (solo?) come peccatori e verranno ammessi alla pratica comunitaria della carità attiva, ma niente accesso ai sacramenti: come dire che per loro è rimasto aperto quel Limbo che la teologia (dopo il Concilio Vaticano II?) aveva espunto dalla topografia ecclesiale.
Forse le aspettative erano troppe, o forse da bravi laici non riusciamo ad interpretare quel che avviene sotto la cupola michelangiolesca. Mi è capitato sotto gli occhi un solo intervento di un certo peso, quello di Eugenio Scalfari. Mi è parso interessante, magari per le ragioni per le quali il “Foglio” lo ha criticato: vale a dire la sua pretesa - il “Foglio” è stato persino sarcastico - “di fare il punto da par suo sull'oggi della chiesa nel mondo” sciorinando tutti i temi della critica illuminista-laico-protestante. Non è affar mio difendere la Chiesa, ma mi guardo bene dal seguire quell'andazzo. Prendo la Chiesa romana per quello che è e si è fatta in una storia comunque grandiosa, di cui sono impastati l'occidente e l'Europa. Scalfari deplora che dal Concilio di Trento al Vaticano I siano passati “quasi trecent'anni”, marcati da un autoritarismo romanocentrico con il potere assoluto, rafforzato peraltro anche dal Vaticano I, in mano al papa e alla Curia (anche se con la raffinata ma spesso dimenticata distinzione tra il Papa che parla “ex cathedra” e il papa che si pronuncia con altri, terreni strumenti). Io, semmai, osserverei che, se così è stato, il Concilio di Trento fu un evento formidabile, capace di tracciare un percorso sostanzialmente adeguato a sostenere una prospettiva di secoli (all'epoca, magari, io sarei stato un fuggiasco seguace non tanto di Calvino quanto di Soncini, ma questo è altro discorso). Non si comprende la Chiesa di Roma se non si afferra il senso del suo rapporto con il potere, un rapporto che nasce con la rivoluzione costantiniana e si costruisce nella necessità storica di riempire il vuoto creatosi in Occidente con il crollo dell'Impero. La richiesta di separazione della Chiesa dal potere nasce, mi pare, con la riforma luterana, che affiderà al potere laicizzato la gestione degli affari pubblici e mondani. Da quell'epoca nasce la teoria della distinzione tra “religiosità” (buona) e “chiesa” (cattiva) su cui si affannano da sempre gli anticattolici e oggi Scalfari.

Da laico, anche io cerco di pormi il problema del rapporto con il mondo cattolico. Ma credo che il modo da seguire sia quello del ricercarlo tra me come singolo e il cattolico come singolo. Per il resto, ritengo sia necessario il continuo confronto nelle sedi istituzionali, siano il parlamento o il governo: lo Stato italiano avrà rapporti con il Vaticano (e come potrebbe essere altrimenti?), ma le sue classi dirigenti e politiche dovranno liberamente (e istituzionalmente) fronteggiare le posizioni che Vaticano (o Chiesa) via via assumeranno. Per dire, non approvo quanto è accaduto in parlamento dove recentemente il dibattito sul divorzio breve è stato rinviato sine die, ma qui il mio dissenso - e anzi scontro - è non con il Vaticano, o la Chiesa, ma con la classe politica, con i parlamentari che, per ragioni che a me non interessano, hanno privato il paese di una discussione necessaria e urgente.

Postilla. A me può anche interessare, e molto, la vicenda del laicato cattolico. Vedo che i
i cattolici, o almeno un loro segmento, si sono messi in moto “verso la terza Repubblica”. Difficile sia una migrazione biblica. Un convegno sotto l'insegna di “Todi 2” aveva, giorni fa, ridimensionato certe aspettative nate con l'assemblea “Todi 1”, dove si era parlato di dar vita a un nuovo partito cattolico, o fortemente marcato dai valori cattolici. I cattolici che si muovono verso la “Terza Repubblica” (nome infausto, ricorda la “Troisième” francese, laicista quanto si poteva esserlo nel bel mezzo dell'età del progresso positivista) hanno fuso le loro acque con quelle di altri movimenti, associazioni e personalità di ispirazione laica. Ma siamo ben lontani da quella “terza forza” che venne perseguita alla fine degli anni cinquanta, se non sbaglio. Quelli volevano la “terza forza” per scontrarsi con le due non laiche ideologie dominanti, la comunista e la cattolica. Pensavano di rivitalizzare una grande tradizione, ne erano gli ultimi epigoni. Fallirono, come è noto.

* da “Il Foglio”