“L’olfatto
è il più superfluo e ingrato dei nostri sensi”, secondo Immanuel
Kant. Sentenza orrenda, che da sola può squalificare un pensiero.
Abolendo l’olfatto, condannandolo, facendolo essere il senso
dell’inferiore, si annulla, si vorrebbe annullare, di colpo, la
sensualità e la corporeità. Si annulla, dunque, il fondamento della
“persona”. Quasi un omicidio, una castrazione. E’ il peggio del
razionalismo illuminista, l'epoca della moda dei profumi: servivano per nascondere i cattivi odori; ci si lavava poco..
martedì 30 ottobre 2012
domenica 28 ottobre 2012
Geoffrey Hill
In memory of Jane Fraser
When snow like sheep lay in the fold
And wind went
begging at each door,
And the far
hills were blue with cold,
And a cloud
shroud lay on the moor,
She kept the
siege. And every day
We watched
her brooding over death
Like a strong
bird above its prey.
The room
filled with the kettle’s breath.
Damp curtains
glued against the pane
Sealed time
away. Her body froze
As if to
freeze us all, and chain
Creation to a
stunned repose.
She died
before the world could stir.
In March the
ice unloosed the brook
And water
ruffled the sun’s hair.
Dead cones
upon the alder shook.
Geoffrey Hill
In memoria di Jane Fraser
Quando la neve pareva
gregge agli stazzi,
e il vento elemosinava
porta a porta,
e le colline lassù erano
paonazze di freddo,
e un sudario di nubi
copriva la brughiera,
lei sostenne l’assedio.
E la vedemmo
giorno su giorno
rimuginare sulla morte
come un forte uccello
sopra la sua preda.
Il fiato della teiera
riempiva la stanza.
Umide tende appiccicate al
vetro
tenevano fuori il tempo.
Il suo corpo gelava
come a gelare noi tutti, e
incatenare
il Creato a una stordita
quiete.
Morì prima che il mondo
si destasse.
In marzo il ghiaccio
liberò il ruscello
e l’acqua arruffò i
capelli del sole.
Pigne morte tremolavano
sull’ontano.
(traduzione di Angiolo Bandinelli)
sabato 27 ottobre 2012
mercoledì 24 ottobre 2012
C'E'
FAMIGLIA E FAMIGLIA
(da
“Il Foglio”)
Un tale
- non ne farò il nome - si era rivolto al Tribunale civile di Roma
avanzando la richiesta di disconoscimento di paternità rispetto ad
una bambina che lui aveva riconosciuto, alla nascita, come figlia
propria, per adottarla poi all'atto del matrimonio con la madre. “No,
non è mia figlia - ha sostenuto nella richiesta - quando l'ho
riconosciuta ho dichiarato il falso”. Contro le sue aspettative, il
tribunale ha sentenziato che “l'autore del riconoscimento
effettuato in mala fede non è legittimato a impugnarlo
successivamente per difetto di veridicità”. Quel riconoscimento,
pur così inficiato, non può essere revocato, anche dopo aver
acquisito “la piena consapevolezza della sua falsità”. E' una
sentenza di enorme significato, anche - se non soprattutto - per le
motivazioni. I giudici osservano che nella nostra società “sempre
meno rilievo assume il dato formale del
rapporto familiare legato sul legame meramente biologico”. La
sentenza non intende affatto negare o sminuire il ruolo centrale
della famiglia nella società, non è una sentenza - per dire -
“progressista”, prona ad uno sfrenato individualismo. Anzi: “La
famiglia assume sempre di più la connotazione della prima comunità
nella quale effettivamente si svolge e si sviluppa la personalità
del singolo e si fonda la sua identità”, il che “impone di
considerare irretrattabile il riconoscimento”, anche se questo era
un falso. Vi saranno molti che si stracceranno le vesti per questa
sentenza che prende posizione, senza troppe disquisizioni filosofiche
o antropologiche, a proposito del dilemma natura-cultura. Per molti
dei temi cosiddetti “etici”, notoriamente, è proprio sul primato
della natura che si fonda gran parte delle resistenze all'adeguamento
dei valori della società. Tesi centrale di queste resistenze è -
per restare nell'ambito della nostra questione - che fondamento della
società è la “famiglia naturale”, con enfasi sullo
strettissimo, indissolubile legame che va mantenuto tra i due
termini. La sentenza invece li separa, pone tra di essi un vero e
proprio fossato: da una parte vi è la consanguineità biologica
fondata sull'accoppiamento sessuale, dall'altra vi è la comunità
dei conviventi. Questa si costruisce sul consenso e sui sentimenti e
in tale modalità diventa “famiglia” e può/deve essere
riconosciuta come pilastro della società su cui poggia e si realizza
“la personalità del singolo” e, addirittura, “si fonda la sua
identità”.
L'avvocato
della difesa insiste: “Il nostro ordinamento è stato per anni
centrato sul privilegio della verità, questa sentenza dice che c'è
altro: l'identità, la famiglia...”. Come dire, oggi si riconosce
forza e dignità di verità anche a quanto può contraddire la verità
“fattuale”: secondo la sentenza di cui sto parlando, la verità
si fonda sulla consapevolezza della verità come viene accertata
dall'istituzione. E l'avvocato arriva a concludere che il
riconoscimento di questa verità basata sul consenso comprende “tutte
le famiglie, visto che oggi ce ne sono tante legalmente riconosciute
che non hanno nulla di naturale”. Naturalmente, l'avvocato del
ricorrente non è d'accordo. Sostiene infatti, con “rispettosa
perplessità”, che “nella sentenza non c'è traccia di quello che
è avvenuto né delle prove del Dna, ma quando la verità emerge non
la si può insabbiare. Il contrasto tra 'favor veritatis' e 'favor
legitimitatis' si trascina da diversi anni”. Farà dunque ricorso
in appello.
Non
sono un esperto di diritto, ma a me pare che l'argomentazione
dell'avvocato del ricorrente non stia in piedi: nel caso in questione
non si tratta di smascherare (anche, se necessario, attraverso
l'analisi del Dna) la contraffazione di una prova fattuale compiuta
al fine di trarre vantaggi da una paternità mai veramente esistita;
qui si tratta di una persona che per motivi suoi ha inteso, anche
affermando il falso, riconoscere una sua paternità ed oggi - per
motivi suoi - vuole invece annullarla. Non è un padre “legale”
che scopre di non essere quello “naturale”, come succede in un
caso di adulterio quando la donna afferma che il figlio lo ha avuto
dal marito e non dall'amante e ad un certo punto il marito si rende
conto dell'imbroglio e vuole sottrarvisi.
Il
problema non è il rapporto o il legame con la natura, che nessuno -
neanche in questo caso - vuole negare, ma è l'uso che si fa del
termine “natura”. In questo ambito concettuale, appare un
autentico strappo l'intervento di monsignor Gmürr,
nel
recente Sinodo dei vescovi, a favore dei divorziati: “Conosco una
coppia: sono sposati da 50 anni e tutti e due hanno alle spalle brevi
esperienze matrimoniali. Questi 50 anni non contano nulla? E' solo
una realtà peccatrice?”. Il giovane vescovo (46 anni) ammonisce:
”Bisogna ripensare le relazioni del corpo della famiglia, del corpo
della Chiesa e anche del corpo umano, della sessualità”. Parlava
dall'interno di un Sinodo, sperabilmente senza sentirsi un Lutero:
non so quanto monsignor Gmürr
sia
ferrato in teologia, ma non può certo ignorare che le sue parole
erano un colpo mortale ad una tradizione teologica che si vuole
consolidata e senza incrinature.
lunedì 15 ottobre 2012
L'UOMO
E I SUOI FRATELLI
da
“Il Foglio”
Stavolta
non si scappa, bisogna arrendersi all'evidenza. Le attese e
convincenti prove sono state rese pubbliche nel corso del Congresso
Europeo di Scienza planetaria tenutosi nei giorni scorsi a Madrid. In
quella autorevolissima sede, un gruppo di astrofisici dell'Università
di Princeton, dell'Università dell'Arizona e del Centro spagnolo di
Astrobiologia ha dato conferma di quanto si vociferava da tempo: la
vita potrebbe non essere nata sulla Terra, nel nostro pianeta sarebbe
arrivata per opera di microorganismi che hanno viaggiato
nell'interspazio su frammenti di meteoriti provenienti da altri
pianeti. Tutto parte dalla scoperta che rocce, o frammenti di rocce,
possono viaggiare nel vuoto interstellare - contrariamente a quanto
si credeva fino a ieri - a relativamente bassa velocità, e possono
quindi essere catturate dalla forza gravitazionale di un pianeta
diverso da quello di partenza. Il ragionamento, fondato su complesse
teorie matematiche avviate nel 1925 da un ingegnere tedesco. è
tortuoso e non sarò io a renderlo più comprensibile. Ma gli
scienziati che lo hanno elaborato possono (quasi) garantire che un
trecento milioni di anni fa spore di vita sono state trasportate qua
e là per l'universo, sono approdate sulla Terra e qui, trovato un
ambiente favorevole, hanno iniziato a riprodursi, a moltiplicarsi e
ad evolvere. Ci sono ancora, avvertono gli scienziati, dei quesiti
irrisolti, non tutto è stato chiarito, ma l'approssimazione alla
certezza è buona. La teoria, il cui nome scientifico è
“litopanspermia”, è peraltro assai antica, può essere
rintracciata fin nella cultura classica greca. Di recente era stata
riproposta, anche autorevolmente, ma a partire da congetture e quindi
raccogliendo più scetticismo che consensi.
Voi
direte: ma perché questa teoria, quando definitivamente accertata,
può essere tanto rivoluzionaria? Ma, rispondo io, se è accaduto
così come oggi viene non più solo ipotizzato, si può anche
ragionevolmente pensare che alcune (o molte) di quelle spore vaganti
abbiano raggiunto altri pianeti ancora, nei quali le condizioni
ambientali erano analoghe a quelle della Terra, così da permettere
loro di sopravvivere e svilupparsi in forme - non potrebbe essere? -
analoghe, o addirittura identiche, a quelle presenti sul nostro.
Quelle spore, nate da un medesimo ceppo e con identiche
caratteristiche “organiche” avrebbero dato così origine - sia
pure a distanze enormi le une dalle altre - a strutture vitali
identiche o assai simili. E, proseguendo sul filo di un ragionamento
non impossibile, avrebbero potuto produrre non solo un “alieno”
ma una sorta di gemello dell'uomo. Perché no? Non saprei dire quante
possano essere, statisticamente, le possibilità perché questo sia
davvero accaduto, escluderlo a priori sarebbe però dogmatico,
fideistico. Se invece accettassimo - sia pure in via ipotetica - la
tesi, dovremmo concludere che l'uomo non può più essere considerato
il centro ideale, spirituale, dell'universo. E', o sarebbe, una delle
forme possibili di una vita diffusa, in moduli paralleli a quelli che
conosciamo, in svariati punti dello spazio. La scoperta si pone come
una ulteriore (definitiva?) conferma a livello sperimentale della
formidabile intuizione di Giordano Bruno, quella degli “infiniti
mondi”. Non solo sono infiniti i mondi, ma infinite sono anche le
possibilità della presenza di esseri dotati di una vita organica,
fors'anche psichica, analoga alla nostra.
Può il
fideista sfuggire a questo ragionamento, azzardato quanto si vuole ma
assolutamente - penso - lecito? Si può continuare a credere
nell'atto unico della creazione? Sarebbe come ammettere, se non
altro, che dio è uno sprecone colossale, che si muove come un
giocatore che affida ai dadi lo sviluppo successivo del suo gesto
iniziale. Ma intanto, mentre gli astrofisici intervengono nella
disputa sulla creazione dell'uomo, gli antropologi, o i
paleoantropologi, continuano ad almanaccare sulle vicende dell'uomo
primitivo. Già da parecchio tempo si stava facendo strada la tesi
che la linea evolutiva dell'umanità non sia unica ma si apra a
ventaglio su rami, specie, sottospecie e varietà più o meno
diversificate. La più nota, anche fuori della cerchia scientifica, è
la varietà “neandertalense”, assai diversa dall'”homo sapiens”
con il quale pure convisse a lungo, non sappiamo se mescolandosi ad
esso o no. Adesso, certi fossili scavati nel 2003 nell'isola di
Flores, in Indonesia, fanno pensare che siano vissute specie “umane”
non solo diverse, ma addirittura non collegate tra loro. Sembra
insomma che l'uomo che noi conosciamo, la specie cui apparteniamo,
sia solo una variante tra le tante autonomamente comparse e scomparse
sullo scenario terrestre. Gli antropologi cui si deve la scoperta
dell'”homo floresiensis” sostengono che la nuova specie sarebbe
piuttosto ben collegata ai bonobo e agli scimpanzè. Una vertigine di
ipotesi... Anche qui, la teoria della creazione unica se non proprio
dell'afflato divino sull'argilla di Adamo ed Eva non regge più:
dicono di crederci solo i fondamentalisti della “Bible Belt”. Ma
è il concetto stesso di creazione che viene profondamente intaccato.
mercoledì 10 ottobre 2012
MATTINO
Muto e strisciante
il risveglio
il sole recita il
giorno
sul palco
spettinato del cielo
paghi il biglietto
per lo spettacolo
iniziato
dentro la tazza
amara del caffè
musica possibile
schiuma
da una finestra
aperta
i fiori in corsivo
sul ciglio della
strada
ascoltano
sta in:
Cettina Caliò:
“Sulla cruda pelle”,
ed. Forme
Libere, 2012. 10,50 euro
domenica 7 ottobre 2012
mercoledì 3 ottobre 2012
martedì 2 ottobre 2012
Aspettando l’apocalisse
Sentii il tuono obliquo
oltre l’ultima nuvola gigante -
potrebbe, chi lo ascolta,
riderne o piangere, una vita intera -
rimulinò, riscintillò, risbarbagliò
non c’erano stelle filanti o un po’
di polverina dorata
sull’albero - ma nemmeno l’albero.
Fui un ribaldo immemore e beato: la parte
giusta della vita
stabilmente finita
divertito attendevo
(nulla da perdere, ormai)
lo scoppio del creato
a disgregare le torri del cielo,
bevendo vino caldo -
e lei
sgranocchiava castagne
estratte da un fumido focolare
(se tossiva era perché,
futile, volle cantare).
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