TACCUINO
LAICO
da "Il Foglio", 20 settemre 2012
Il
male prima del bene? - Disse: “E' evidente
che il ‘primum’ è il male. Se non vi fosse, come ‘primum’,
il male, non si comprenderebbe lo sforzo necessario, sempre
necessario, per proporre il bene. Il bene lotta con il male per
vincerlo, soggiogarlo: dunque, viene dopo il male, ecc. Chi cerca,
vuole e vuol far vincere il bene deve fare una fatica immensa,
precaria, sempre a rischio. Dunque, l'etica deve occuparsi, in primo
luogo, del male, non del bene. Senza il male, che bisogno vi sarebbe
dell’etica? Eppoi immaginatevi che, essendo primo - ontologicamente
- il bene, si dovesse desumere che il male nasce dal bene.
Inconcepibile, no? E’ vero che, accettando il primato ontologico
del male, occorre superare la contraddizione di un dio che crea prima
il male. Prima del bene? Che dio cattivo, malvagio, sarebbe. A
complicare il tutto, varrà pure osservare che immaginare un male che
è male in sé e per sé sarebbe anche un errore logico, perché il
male non può essere male se non rispetto e in contrapposizione ad un
bene. Il male è tale perché nega il bene…”. “Oddio. Come sei
contraddittorio. Contraddittorio con te stesso, dico.” “Appunto.
Il male, sai…”
Una
brutta morte -
Da un mondo che si considera, o viene denunciato, come laicizzato,
l'immaginario della morte è sparito. Massima presunzione della
laicità o, per meglio dire, della laicizzazione trionfante: la
cancellazione del rapporto con la morte o, più esattamente, con
l'immaginario della morte. L'uomo non sa cosa sia il morire. Non deve
saperlo. Gli resta così una paura angosciosa, senza nome, che
esorcizza con l'inseguimento ossessivo della salute (salute, senza
salvezza), con la fuga dalla decadenza, dalla vecchiaia, ecc. Dalla
morte insomma: ma senza saperlo, senza esserne consapevole, perché
gli è proibito nominare la morte, dare una ragione alla morte,
razionalizzarla, renderla umana, dunque “religiosa”, degna di
pianto: soprattutto di com-pianto. Nessuna cerimonia funebre, o
pianto collettivo. Anzi. Gli è negato, all'uomo, il “compimento”
che i rituali del morire un tempo in qualche modo gli garantivano:
grazie ad essi, un tempo nessuno moriva con il senso del fallimento
personale. Ogni morte era resa giusta dal com-pianto sociale.
Il
tempo e il rito
- La cerimonia, il rito, è una struttura di arresto del tempo. Il
rito religioso (per il rito della "festa”, cfr. gli studi di
Vittorio Lanternari) rompe il tempo dell'utile e del lavoro per
inserirvi un elemento incommensurabile, a-temporale, ecc. Ma oggi,
nella necessità dello scambio perpetuo, il rito non è più
ammissibile. Post
scriptum:
Ma che sia lo scambio - lo scambio perpetuo - il “rito”?
La
società infaticabile -
Perché questa necessità dello scorrere continuo, senza soste, ecc?
Perché se il reticolo in movimento si arrestasse un solo istante
crollerebbe la società, che nella sua forma odierna non può
persistere se non in movimento. E non è la tecnica la responsabile
di questo mutamento esistenziale-epocale: è la società come
"struttura", che si autoconserva attraverso lo scambio, che
diventa esso stesso – appunto - rito, sacralità.
Consumo
e fede - Il soggetto - l’individuo - è
sforzo, progetto, “intenzione/in-tensione”. L’in-tensione è
anche lotta, separazione, distacco dal passato. La costruzione del
sé, del soggetto, dunque, pagato a duro prezzo: oggi, nella società
dei consumi, si pensi quanto può costare il rifiuto ad accettare il
consumo come base e fondamento dell’essere. Qui,
il dramma. E se poi manca la fede
(“sostanza di cose sperate”) nell’immortalità come “luogo”
del risarcimento delle sconfitte, se non della Sconfitta, il compito
può farsi impossibile. E’ pur vero che nelle nostre società dei
consumi si è riusciti a far convivere la spinta al consumo insieme
alla fede nell’immortalità, ma (in difetto di quel formidabile
linguaggio risarcitivo che è il rito) con conseguenza disastrose dal
punto di vista dei contenuti, dell’altezza dell’obiettivo, ecc..
Qui si innesta, senza scampo, l’altissima morale stoico-epicurea,
qui si innesta anche Shakespeare, con la sua lettura drammatica del
dialogo e dell’intera esistenza: nel dramma, il costituente
fondamentale è proprio lo “streben”, lo sforzo del soggetto a
costituirsi come alterità, rispetto all’altro. E Bruto, ecc., il
suicidio, ecc., visti come tentativi di recuperare, magari al
negativo, la pienezza dell’obiettivo, la costituzione del soggetto
come obiettivo: anche nella sconfitta.
Consumo
e valore - Il moralista odia il consumo, è
abituato a norme e valori certi che non accettano, non ammettono il
mutamento. I "valori" sembrano richiedere il persistere,
l'immutabilità. Che valore sarà mai, ciò che è soggetto a
cambiare, a mutare? Il valore, se tale è, deve essere stabile; solo
ciò che dura, che attraversa il mutamento e persiste, vuol dire che
"vale". L'oro venne scelto come unità di misura
universale, perché durava, perché non si "corrompeva" nel
tempo, “valeva” oltre il tempo, lo negava nella sua fondamentale
proprietà, quella di “corrompere”, e quindi di distruggere. Nel
verbo e nel sostantivo, corruzione, corrompersi, si infiltrava un
giudizio di (dis)valore, che l'umanità ha rispettato per millenni.
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