giovedì 27 settembre 2012



SPULCIATURE IN TEMA DI TEODICEA
dal “Foglio”

Sabato scorso, in una lettera al direttore, un lettore ha ripreso e rimodulato la questione da me introdotta nella mia ultima colonnina: se nel mondo sia arrivato prima il Male oppure il Bene. Ad avviso del cortese interlocutore, la questione era stata ben presa in considerazione dalla Bibbia, là dove essa - ovviamente, siamo nel Libro della Genesi - si richiama “al peccato originale come male ancestrale”: il peccato originale, la colpa di Adamo ed Eva, viene lì assunto come il momento in cui il male si installa nel mondo. Confesso che il riferimento mi era sfuggito quando, anni fa, buttavo giù il taccuino di cui ho raccolto e utilizzato, per la mia colonnina, qualche pagina. Dovrei sentirmi soddisfatto, credo che il richiamo del lettore intenda darmi ragione: il male arriva prima del bene e solo “la Grazia divina lo annulla aprendo la strada al bene”. Però, no, la spiegazione biblica non mi convince del tutto. Anzi, a me sembra che ci immerga in una palude di contraddizioni. Perché da una parte si può osservare che il peccato originale interviene assai dopo che il mondo è nato, come creazione divina e dunque del tutto e necessariamente buono: Adamo ed Eva arrivano nel Paradiso terrestre una settimana dopo l'inizio della creazione e, per intenderci, si tratta di una settimana biblica, insomma epocale. In secondo luogo: davvero si può addossare sull'uomo e la donna l'intera responsabilità di aver inquinato l'opera di Dio? Suvvia, un po' di pietà. Aggiungo qualche rilievo (sempre con un buon pizzico di ironia): il serpente che offre ad Eva la mela fatale dovrà essere anche esso opera di Dio, se non vogliamo pensare, manicheisticamente, che sia opera di un creatore malvagio, autosufficiente e parallelo a Dio. Secondo una tesi della dottrina cattolica, in verità questo creatore del Male c'è, ed è Satana, altrimenti noto come Lucifero, il bellissimo angelo ribellatosi a dio per un atto di orgoglio e da dio scacciato dai cieli. Ma questa narrazione sembra non sia ben documentata, le fonti scarseggiano. Comunque, dovremmo ancora ammettere che il male discende nel mondo dopo il bene, il bene della creazione divina che non può conoscere imperfezioni di sorta anche se uno degli angeli celestialmente concepiti può peccare, essere scacciato dal suo ruolo e farsi, lui, promotore del Male.


Niente da fare, l'esempio del peccato originale non ce la fa a sciogliere i miei dubbi, aizza quanto meno la mia ironia. Ma che importa? Diciamocelo francamente, tutta questa faccenda resta oscura, incerta, con bei margini di equivoco. Ed è giusto che sia così. Se avessimo una nozione certa dell'origine del male (il male in quanto colpa) non lo temeremmo. Ne avremmo circoscritto il mistero, lo avremmo portato alla misura e nelle possibilità della nostra intelligenza, potremmo quindi scansarlo. Il male, per poter operare, deve esserci sconosciuto, deve poterci aggredire quando non siamo preparati perché non lo abbiamo sentito avvicinarsi: ritengo che di questo siano consapevoli anche i moralisti religiosi, quando avvertono che il demonio ci tenta nel momento in cui siamo disattenti, quando abbiamo abbassato la guardia e così consentiamo che le tentazioni, cioè il male, ci infettino. Gesù viene messo a dura prova da Satana dopo che si è sottoposto ad un digiuno di ben quaranta giorni e quaranta notti, una pratica ascetica che non può non averne debilitato le facoltà, rese meno forti le barriere dell'attenzione, ecc. Ma infine, va bene, ammettiamo pure che il male sia opera dell'uomo e della donna, i quali hanno abusato e sciupato la libertà di scelta loro concessa da Dio; dovremo allora attribuire ai due infelici anche il male non morale, quello che è insito nel mondo in quanto tale? La morte, la malattia, le cose che nascono storte e quelle che ci lasciano troppo presto, ecc., dipendono e sono responsabilità dell'uomo e/o della sua compagna? A me pare una conclusione sgradevole.


sabato 22 settembre 2012


                                          SULL'ABISSO - 2


L'erotismo è desiderio, la pornografia è negazione di desiderio.

L'aforisma, struttura linguistica ed espressiva dell'apocalittico; ma, oggi, l'apocalittico si riduce a un mediocre cesellare di sciocchezze in società, di mediocri battute.

Il Quarto Evangelo, quello di Giovanni, è l'aforisma più bello mai scritto.

Forse, la società di oggi, immersa nel degrado, è già nelle spire dell'apocalisse.

L'attesa! Dunque, l'uomo è immortale?

L'uomo accumula segni/ali sperando, con la loro sequenza ordinata, di de/scrivere il mondo: spera insomma di esaurire il catalogo, di raggiungere la/il fine dell'enumerazione, che in tal modo diventerà spiegazione.

Pensava che non ci fosse nulla da dire circa la sua vita; e dunque, circa la vita in sé.

Il dolore è irreversibile.

Il gioviale, che sembra riposare su una distaccata affabilità e partecipazione simpatetica, esprime oscuramente, a rovescio, una follia.
Odi et amo”, dice Catullo. E va bene, ma non al 50 e 50%. Tutti possiamo, prima o poi, amare; odiare – odiare davvero – è difficilissimo, arrivi a scambiare per odio un volgare rancore, un po' di repulsione.

Non rendete noiosa la prudenza, né l'audacia – invece – stupida.

Grottesco: abbiamo paura dei mostri che noi stessi abbiamo creato.

La società letteraria è la Piazza Affari della letteratura.

Il poeta sia sempre un po' ingenuo, il romanziere deve essere sempre un po' sospettoso.

La poesia e la filosofia, per loro intrinseca natura sono inutili, perfettamente inutili. Ma indispensabili. Massima iattura, la loro mancanza: ma nessuno se ne accorge, occorre sempre inseguire l'utile.

Un buon aforisma è elaborato, ma deve apparire come se venisse giù di getto: come la lava che erompe dal vulcano.

Si scrivono troppi aforismi: tutti tentativi – falliti – di raggiungere l'aforisma perfetto, quello che racchiuda tutti gli aforismi possibili.

L'anoressia sta al postmoderno come l'isteria alla società religiosa.

Quando risuona la parola "apocalisse" c'è sempre un imbecille che esulta e protende (o pretende di protendere) un tremendo dito accusatore: ma si tratterà, al più, di un esteta solitario.

Intorno al tempo si organizzava, con sontuosa strategia, la rovina, alla Piranesi. Il degrado è invece figlio e conseguenza della distruzione del tempo, dello "spessore" del tempo.

Oggi si può avere un'antropologia, non un'etica.

Vae solis”: chi è solo, se cade non ha nessuno che lo aiuti; ma anche “beata solitudo, sola beatitudo”. Alla fin fine, come si anche dice, “aiutati che Dio ti aiuta”. E se hai Dio, di chi altro hai bisogno?

Bisogna temere i brevi incontri. Non vi succede mai nulla, perché tutto è già successo.

La vicinanza è un abisso.

In principio era il verbo”: è un aforisma incompiuto: manca la seconda metà, la fine....

Il risparmio è solo quello che si fa sul necessario. Sul superfluo si esercita, semmai, un ghiribizzo di autocompiacimento..





giovedì 20 settembre 2012



TACCUINO LAICO
da "Il Foglio", 20 settemre 2012

Il male prima del bene? - Disse: “E' evidente che il ‘primum’ è il male. Se non vi fosse, come ‘primum’, il male, non si comprenderebbe lo sforzo necessario, sempre necessario, per proporre il bene. Il bene lotta con il male per vincerlo, soggiogarlo: dunque, viene dopo il male, ecc. Chi cerca, vuole e vuol far vincere il bene deve fare una fatica immensa, precaria, sempre a rischio. Dunque, l'etica deve occuparsi, in primo luogo, del male, non del bene. Senza il male, che bisogno vi sarebbe dell’etica? Eppoi immaginatevi che, essendo primo - ontologicamente - il bene, si dovesse desumere che il male nasce dal bene. Inconcepibile, no? E’ vero che, accettando il primato ontologico del male, occorre superare la contraddizione di un dio che crea prima il male. Prima del bene? Che dio cattivo, malvagio, sarebbe. A complicare il tutto, varrà pure osservare che immaginare un male che è male in sé e per sé sarebbe anche un errore logico, perché il male non può essere male se non rispetto e in contrapposizione ad un bene. Il male è tale perché nega il bene…”. “Oddio. Come sei contraddittorio. Contraddittorio con te stesso, dico.” “Appunto. Il male, sai…”

Una brutta morte - Da un mondo che si considera, o viene denunciato, come laicizzato, l'immaginario della morte è sparito. Massima presunzione della laicità o, per meglio dire, della laicizzazione trionfante: la cancellazione del rapporto con la morte o, più esattamente, con l'immaginario della morte. L'uomo non sa cosa sia il morire. Non deve saperlo. Gli resta così una paura angosciosa, senza nome, che esorcizza con l'inseguimento ossessivo della salute (salute, senza salvezza), con la fuga dalla decadenza, dalla vecchiaia, ecc. Dalla morte insomma: ma senza saperlo, senza esserne consapevole, perché gli è proibito nominare la morte, dare una ragione alla morte, razionalizzarla, renderla umana, dunque “religiosa”, degna di pianto: soprattutto di com-pianto. Nessuna cerimonia funebre, o pianto collettivo. Anzi. Gli è negato, all'uomo, il “compimento” che i rituali del morire un tempo in qualche modo gli garantivano: grazie ad essi, un tempo nessuno moriva con il senso del fallimento personale. Ogni morte era resa giusta dal com-pianto sociale.

Il tempo e il rito - La cerimonia, il rito, è una struttura di arresto del tempo. Il rito religioso (per il rito della "festa”, cfr. gli studi di Vittorio Lanternari) rompe il tempo dell'utile e del lavoro per inserirvi un elemento incommensurabile, a-temporale, ecc. Ma oggi, nella necessità dello scambio perpetuo, il rito non è più ammissibile. Post scriptum: Ma che sia lo scambio - lo scambio perpetuo - il “rito”?


La società infaticabile - Perché questa necessità dello scorrere continuo, senza soste, ecc? Perché se il reticolo in movimento si arrestasse un solo istante crollerebbe la società, che nella sua forma odierna non può persistere se non in movimento. E non è la tecnica la responsabile di questo mutamento esistenziale-epocale: è la società come "struttura", che si autoconserva attraverso lo scambio, che diventa esso stesso – appunto - rito, sacralità.





Consumo e fede - Il soggetto - l’individuo - è sforzo, progetto, “intenzione/in-tensione”. L’in-tensione è anche lotta, separazione, distacco dal passato. La costruzione del sé, del soggetto, dunque, pagato a duro prezzo: oggi, nella società dei consumi, si pensi quanto può costare il rifiuto ad accettare il consumo come base e fondamento dell’essere. Qui, il dramma. E se poi manca la fede (“sostanza di cose sperate”) nell’immortalità come “luogo” del risarcimento delle sconfitte, se non della Sconfitta, il compito può farsi impossibile. E’ pur vero che nelle nostre società dei consumi si è riusciti a far convivere la spinta al consumo insieme alla fede nell’immortalità, ma (in difetto di quel formidabile linguaggio risarcitivo che è il rito) con conseguenza disastrose dal punto di vista dei contenuti, dell’altezza dell’obiettivo, ecc.. Qui si innesta, senza scampo, l’altissima morale stoico-epicurea, qui si innesta anche Shakespeare, con la sua lettura drammatica del dialogo e dell’intera esistenza: nel dramma, il costituente fondamentale è proprio lo “streben”, lo sforzo del soggetto a costituirsi come alterità, rispetto all’altro. E Bruto, ecc., il suicidio, ecc., visti come tentativi di recuperare, magari al negativo, la pienezza dell’obiettivo, la costituzione del soggetto come obiettivo: anche nella sconfitta.

Consumo e valore - Il moralista odia il consumo, è abituato a norme e valori certi che non accettano, non ammettono il mutamento. I "valori" sembrano richiedere il persistere, l'immutabilità. Che valore sarà mai, ciò che è soggetto a cambiare, a mutare? Il valore, se tale è, deve essere stabile; solo ciò che dura, che attraversa il mutamento e persiste, vuol dire che "vale". L'oro venne scelto come unità di misura universale, perché durava, perché non si "corrompeva" nel tempo, “valeva” oltre il tempo, lo negava nella sua fondamentale proprietà, quella di “corrompere”, e quindi di distruggere. Nel verbo e nel sostantivo, corruzione, corrompersi, si infiltrava un giudizio di (dis)valore, che l'umanità ha rispettato per millenni.





martedì 18 settembre 2012


SULL' ABISSO - 1


Cos'è l'aforisma? Per capirci: le piccole gag fanno il grande film



L'aforisma è un frammento che pretende alla totalità.

L'aforisma è sfacciato e narcisista; non puoi discuterci, puoi solo accettarlo.

L'aforisma pretende di essere la verità; invece è un assunto, buono solo se è un assurdo.

Divenire è il desiderio dell’essere; l’essere è il fine del divenire.

La semplicità è la miglior ricchezza che si possa desiderare; ma è quasi sempre irraggiungibile.

L'ipocrita pensa che nessuna verità sia davvero innocente.

Il sublime, l'angoscia sono modi dell'irrelativo: perciò non hanno forma.

Rispetto alla legge dell'evoluzione l'uomo è uno spreco.

A che punto è ridotta la modernità: definiamo la coscienza per sottrazione.

La bellezza è sempre, nel suo fondo, oscura.

La bellezza è conservatrice: imita una memoria.

La memoria, come ossessione, fa le veci dell'interiorità.

Angoscia: l'ultimo rito magico dell'empatia. Non toglietecelo.

La morte è un racconto raccontato da altri.

Il sadismo è un'occhiata.

La libertà è profondità di destino, e dunque è esclusivamente una conquista, una realizzazione: o un'ermeneutica?

lunedì 10 settembre 2012


Charles Simic


The poet Charles Simic was born on May 9, 1938, in Belgrade, Yugoslavia, where he had a traumatic childhood during World War II. In 1954 he emigrated from Yugoslavia with his mother and brother to join his father in the United States.


The Elevator is Out of Order


Grandmothers and their caged birds
Must be trembling with fear

As you climb with heavy steps

Stopping at each floor to take a rest.

A monkey dressed in baby clothes
Who belonged to an opera singer
Once lived here and so did a doctor
Who peddled drugs to wealthy customers.

The one who let you feel her breasts
Vanished upstairs. The name is not familiar,
But the scratches of her nails are.
The bell rings, but no one comes to open.

Old man, with a face powdered white,
You caught peeking out of another door
As you were descending in a hurry,
Who did he expect to see if not you?



L’ASCENSORE S’E’ GUASTATO

Nonne, co’ l’ucelIetti loro in gabbia,
stanno, me pare, a tremà de paura
mentre che sali su cor passo greve
e a ‘gni piano te fermi a tirà er fiato.

Na scimmia vestita da pupetto,
già propietà d’un canterino d’opera,
qui ce viveva un tempo - e ‘n più un dottore
che spacciava la droga ai quattrinosi.

Quella che te lasciò palpà le tette
s’è squajata de sopra. Nun sai er nome,
ma i graffi de quell'unghie li conosci.
Er campanello sòna, chi viè a aprì?

Er vecchio, faccia bianca ‘ncipriata,
ch’hai sorpreso a smiccià da ‘n’artra porta
mentre che tu scennevi in fretta in fretta,
chi credeva de vède, si non te?



La traduzione che presentiamo è in “parlato” (quasi) romanesco. In italiano suona come segue:

L’ASCENSORE E’ GUASTO
Le nonne e i loro uccellini in gabbia/penso stiano tremando di paura/mentre tu sali su con passo greve/e ad ogni piano sosti e tiri il fiato.//Una scimmia vestita da bimbetto/già appartenuta a un cantante d’opera/visse qui, un tempo, ed un dottore pure,/che spacciava droghe a clienti danarosi.//Quella che ti lasciò palpar le tette/è scomparsa al piano di sopra. Il nome/non è familiare, i graffi delle sue unghie sì./Il campanello suona, nessuno viene ad aprire. //Il vecchio, faccia bianca di cipria,/che hai sorpreso a sbirciare da una porta/mentre stavi scendendo in tutta fretta,/chi pensava di vedere, se non te?



Simic was appointed the fifteenth Poet Laureate Consultant in Poetry in 2007. About the appointment, Librarian of Congress James H. Billington said, "The range of Charles Simic's imagination is evident in his stunning and unusual imagery. He handles language with the skill of a master craftsman, yet his poems are easily accessible, often meditative and surprising. He has given us a rich body of highly organized poetry with shades of darkness and flashes of ironic humor."



"I am especially touched and honored to be selected because I am an immigrant boy who didn't speak English until I was 15," responded Simic after being named Poet Laureate.
Simic was chosen to receive the Academy Fellowship in 1998, and elected a Chancellor of The Academy of American Poets in 2000. He has received numerous awards, including fellowships from the Guggenheim Foundation, the MacArthur Foundation, and the National Endowment for the Arts, and was elected to The American Academy of Arts and Letters in 1995.
Most recently, he was announced as the recipient of the 2007 Wallace Stevens Award by the Academy of American Poets. Simic is Emeritus Professor of the University of New Hampshire where he has taught since 1973.