giovedì 30 agosto 2012


Angiolo Bandinelli

Twittare un nuovo Sillabo?

30-08-2012
Un po’ sarcasticamente, Giuliano Ferrara ci invita a collaborare con lui su twitter (account: ferrarasillabo) per rinfrescare, aggiornare e adattare il Sillabo promulgato da Pio IX, nel 1864, a condanna degli “errori del secolo”. Impossibile resistere all’invito/ingiunzione, aderisco. Quel documento - 82 proposizioni, poi ridotte a 80 - intendeva in qualche modo sintetizzare e rendere accessibile l’enciclica “Mirari vos” promulgata nel 1832 da papa Gregorio XVI, che aveva “alluso” a una “moltitudine sterminata di libri, giornali, scritti fuori controllo”, “qualcosa di molto simile a un web dell’Ottocento”. Il Sillabo di Pio IX (“Syllabus”, nel latino originale) condensò e limò, insomma fu il twitter - circa 140 caratteri a proposizione, assicura il direttore - con cui la chiesa cattolica si confrontò con la modernità e ne sfidò riti e miti. Il documento è stato punto di riferimento del mondo cattolico “per un centinaio di anni, fino al Concilio ecumenico Vaticano II”; ma, secondo Ferrara, la sua “eco apostolica e culturale, icastica, semplificatrice, asciutta, univoca, si sente ancora oggi, che lo si sappia o no”.
Lessi il Sillabo molti anni fa, nella edizione Parenti del 1957 con introduzione e note di Ernesto Rossi. Posseggo la rara edizione, al momento non l’ho sottomano. Parenti pubblicò testi anticlericali, venne per questo, se ricordo bene, strangolato, dovette chiudere l’attività. Ma come mai l’anticlericale e laicista Ernesto Rossi editava il testo cardine del clericalismo? Semplicemente perché era un testo famoso ma introvabile, forse lo stesso mondo cattolico provava disagio a farlo circolare.



Rossi riportò alla luce le poco conosciute proposizioni. Per il grande giornalista del “Mondo”, quell’elenco era la dimostrazione di quanto la Chiesa fosse reazionaria, lontana dal mondo moderno e dai suoi valori e problemi. Ferrara è di tutt’altro parere, a suo avviso il Sillabo è “un possente e modernissimo documento”. Che sia possente è - almeno stilisticamente - accettabile, ma perché dovremmo pensare che sia anche modernissimo? La ragione è, secondo il direttore, che resta un valido argine contro “le più inquietanti scemenze contemporanee, più o meno quello che dicono gli intellettuali laici e progressisti medi, i conservatori di serie minore, la media degli insegnanti che si sentono soldati dello Stato e della sua scuola unica senza contenuti, dei redattori di Famiglia Cristiana, dei politici tiepidi, di quegli arrabbiati, delle star tv, dei filosofi con il baffo di Nietszche e la prosopopea di Heidegger, dei clericali e degli anticlericali, insomma le solite sciocchezze cui diamo la caccia da molti anni”…” Ammiratore senza riserve di una figura eccezionale come Ernesto Rossi, che dedicò pagine di fuoco anche a denunciare le responsabilità di Pio XII - di omissione, quanto meno - nei confronti delle persecuzioni naziste contro gli ebrei, stento ad accettare le bordate di Ferrara. Dell’anticlericalismo alla Rossi mi sento figlio, seppur inadeguato. Ad una rilettura più attenta, mi sembra però di poter dire che la sua figura non può rientrare in alcuna delle caselle sciorinate da Ferrara: Rossi non si sarebbe definito un intellettuale progressista, e certo non fu un filosofo con il baffo di Nietszche.

Riprendo in mano la lista dei responsabili delle “scemenze contemporanee” messe alla gogna dal caustico direttore, e mi vien fatto di scoprire che quei responsabili li detesto anche io, più o meno tutti.
Ma soprattutto, di colpo, mi viene in mente che il Sillabo parla un linguaggio che non sarebbe spiaciuto a Flaubert, il creatore - quanto meno - di monsieur Homais, immortale personaggio di “Madame Bovary”, e poi di Bouvard e Pecuchet (1881); meglio, di quel “Dizionario dei luoghi comuni” che fa da corollario al romanzo dei due copisti. Il papa antirisorgimentale e lo scrittore sperimentale hanno lo stesso bersaglio: la borghesia progressista del loro tempo, i suoi pregiudizi e il suo millantato credito, le sue superbie e le sue ipocrisie. La proposizione iniziale, condannata dal Sillabo - “La ragione, senza tener verun conto di Dio, è l'unica arbitra del vero e del falso, del bene e del male, è legge a se stessa, e con le naturali sue forze basta a procacciare il bene degli uomini e dei popoli” - sarebbe piaciuta allo scrittore che in Homais condensò il prototipo del filisteo progressista capace di ogni “bêtise” in nome di uno scientismo elevato a religione, o a idolatria. E la proposizione n. 6, “La fede di Cristo urta la ragione; e la rivelazione divina non solo non giova a nulla, ma nuoce altresì al perfezionamento dell'uomo”, sarebbe stata perfetta sulle labbra di un borghese del tempo, ma assieme ad uno dei paragrafetti accolti da Flaubert nel suo Dizionario: “Crocifisso. Fa bella figura nell’alcova e sulla ghigliottina”. Forse nessun’altra epoca fu acida verso se stessa, si giudicò e venne giudicata con pari astio quanto l’ottocento borghese, laico e progressista. Un giudizio così estremo e impietoso da vedere affiancati nel pronunciarlo - ciascuno a suo modo - il papa antirisorgimentale e lo scrittore sperimentale. E ora twittiamo.
*da “Il Foglio”

giovedì 23 agosto 2012




LE FESTE, I SANTI, IL DESTINO DELL'UOMO

Via e-mail, faccio a mia cognata (vive nel Minnesota) gli auguri per Ferragosto, “che per gli italiani - le spiego - è una delle grandi festività dell'anno”; a stretto giro di e-mail, lei mi risponde: “Ah, il quindici agosto! Se non sbaglio, è la festa dell'Assunta”. Viene da famiglia inglese cattolica. Con la coda tra le gambe, replico: “Non ricordavo nemmeno più che fosse una festività religiosa, e credo che qui nessuno se ne ricordi, ormai: comunque, per Ferragosto - mi dilungo - le città italiane si svuotano, non troveresti un negozio aperto, tutti si riversano o al mare o ai monti. E' la festa del cocomero - il vostro watermelon - e dell'insalata caprese, che ti piaceva quando eri in Italia”, ecc. Nel vuoto ferragostano, piccato dall'osservazione sulla festività dell'Assunta, rimugino. Trovo poco, l'Assunta è una presenza debole del mio residuo immaginario religioso. Mi viene in mente la colonna dell'Immacolata Concezione a Piazza di Spagna, a Roma, alla quale il papa offre tradizionalmente, l'8 dicembre, una corona di fiori, perigliosamente issata da un vigile del fuoco fino alla statua in cima alla colonna, e per un po' faccio confusione tra la due raffigurazioni di Maria. Facendo zapping in TV, scopro poi che c'è il Palio dell'Assunta, che si corre il 16 di agosto, con la consueta strage di cavalli... E, sì, torna in mente anche la preghiera dell'Annunciazione dell'angelo (almeno quella dipinta dal Beato Angelico). Poco altro.

Mia cognata - ricordo - ha scarsa stima del cattolicesimo all'italiana, e non è certo la sola: l'Italia è spesso rappresentata come il paese dalla religiosità formale, non sentita intimamente, esteriore quanto ipocrita, e così via. Si colloca all'estremo della negatività cattolica come vista da un occhio protestante. Adesso sono sparite, o stanno sparendo, le manifestazioni della pietas popolare - come la festa dell'Assunta - che erano legate strettamente a quella immagine della cattolicità italiana. Dovremmo esser lieti di questa sorta di pulizia dalla parte più esteriore della pratica religiosa. Nemmeno la chiesa fa troppe recriminazioni, salvo quando si parla di ridurre o abolire le festività religiose infrasettimanali. Fu però la chiesa stessa, nell'atmosfera del secondo Concilio Vaticano, a spazzar via una serie di culti folkloristici che celebravano figure di santi improbabili o vicende sulla cui realtà storica nessuno avrebbe scommesso un centesimo (e penso a quei prepuzi rinsecchiti del Gesù circonciso che sembra fossero oggetto di culto in vetuste parrocchie). Si è riusciti a salvare e mantenere, oltre alla sindone, la venerazione per San Gennaro a Napoli, di altri possibili non so. Comunque, la chiesa non ama la sociologia: le inchieste sullo spessore reale della religiosità italiana, sul significato dell'attaccamento verso i grandi momenti liturgici o le cerimonie religiose più solenni, la lasciano diffidente, ostile. Sicuramente si preoccupa per la diminuzione dei matrimoni religiosi a favore di quelli civili, ma credo che poi si tenga stretta alla constatazione che l'usanza del battesimo non vede analoghe consistenti flessioni. Lo stesso ritengo possa dirsi per le cerimonie funebri: da un po' la chiesa ha anche aperto alla cremazione, privandola dell'aura massonico-anticlericale che la circondava, orgogliosamente, un tempo. La chiesa considera il calo delle presenze alle cerimonie religiose come una colpa del singolo, o come effetto della scristianizzazione della società opera del relativismo eterodiretto, dell'individualismo culturale, ecc. Il vero dramma è invece, a mio avviso, altro. E' nel fatto che la società (tanto più la società globalizzata) non ha più bisogno della chiesa per interpretare il mondo e le sue proprie faccende. Le cerimonie religiose erano tappe visibili di una lettura provvidenzialista delle vicende terrene, il culto dei santi e le varie ricorrenze celebravano in modo spettacolare (teatrale, direi) l'indissolubile legame tra la chiesa e l'uomo nella sua quotidianità terrena. Le mitologie del Paradiso, dell'Inferno e del Purgatorio riguardavano sì il destino del singolo, ma erano soprattutto lo sfondo necessario ad una lettura organica del destino della società.

Il mondo protestante ha poco o nulla bisogno di miti e celebrazioni, ma è sbagliato pensare che tale atteggiamento sia il segno di un gran progresso della ragione, della laicità sui falsi riti e le credenze popolari. Il folklore, il mito, le credenze, usciti dalla porta rientrano dalla finestra: Halloween è un segmento del primitivo culto dei morti, la caccia alle streghe dilagò sia in territori cattolici che in quelli protestanti, certi riti fondamentalisti sono penosi. Il laicista aborre sempre, a prescindere, da raffigurazioni, riti e miti, pretende di poter raccomandare un mondo del tutto secolarizzato. Il laico, piuttosto che attendersi la Grande Vittoria della Ragione - evento un po' miracolistico, anch'esso dogmatico - lavora pazientemente per tanti piccoli compromessi positivi. Si dà da fare, più che per l'abbandono della festa dell'Assunta, per l'abolizione del Concordato. 

lunedì 13 agosto 2012


Angiolo Bandinelli
 
GENTE DI MEZZ’AGOSTO
 
 STAMPA ALTERNATIVA
 
Gennaio 1990
 


SOMMARIO
 
Gente di mezz’agosto
 
Temporali
Acque impure
Ragazzo
I giorni delle Falkland
 
Càpita, in città
Non tornerà
Strade sconosciute
 
Una città senza vizio


Gente di mezz’agosto
 
 
In agosto, come a un carnevale atteso e
volentieri evocato, si sciolgono tutti i
vincoli. Si parte senza un arrivederci: il
fratello, l’amico scopre la solitudine nel
telefono del fratello e dell’amico — squilla
lontano senza che nessuno risponda. Si
lasciano dietro spoglie odiate che si
vorrebbe non più ritrovare, al ritorno.
Allora la città si scopre crudele. Le vie e le
piazze inanimate, i negozi chiusi sono
quinte e scenari a una corruzione
sgomenta, a una perfidia che non si cela
più. Gli alberi del viale, fino alla curva in
fondo, sono immoti (a Parigi, un tempo, i
marroni lucidi degli ippocastani
rimbalzavano con un tonfo sui tettucci
delle automobili in sosta). Una fine polvere
bianca si è deposta, in un brevissimo
attimo di immobilità dell’aria, sulle foglie
del nespolo e le muta in fragile pietra.
In fondo al cortile, nel cono d’ombra
dell’angolo dove non luccicano i panni al
sole, le ortensie ancora espongono i globi
rinsecchiti dei loro fiori, vegetali fuochi
d’artificio esplosi in un fazzoletto di cielo e
restati inerti e sospesi nell’aria. Ma i cortili
anche questo — sono deserti e
allontanandoti, a ogni passo, nel silenzio, ti
perseguita l’attesa dell’orrore: il vuoto è
gonfio di mostri.
Occhi di vecchi percorrono queste strade.
Abbandonati in città, i vecchi frequentano
ora le case. Il resto dell’anno se ne stanno
chiusi in qualche camera in ombra,
raramente li vedi e pensi a loro, alla loro
stessa esistenza; adesso invece, ad agosto,
escono pianamente, danno una strana vita
alle finestre e alle stanze. Si espongono
come timorosi, se restassero al chiuso, di
essere in compagnia del silenzio, che
odiano. Così forse si inebriano di un
presente non assaporato fino ad oggi, fatto
non di sorprese ma di godute ripetizioni. I
loro gesti sono vaghi, usuali.
Oppure occhieggiano da dietro finestre
scure che aprono cautamente, per spiare il
frammento di vita dei cui passi risuona la
strada, quando si allontanano e non si sa
perché: chi può essere a passare di qui,
proprio oggi? Oppure ancora fanno festa, e
siedono sul terrazzino, al balcone, a
guardare fuori tra gli oleandri e i glicini,
troppo folti ormai, attorti alle sbarre di
ferro della ringhiera. Sono un uomo e una
donna; qualche volta, invece, due donne.
Siedono uno di fronte all’altra, col gomito
appoggiato alla balaustra, per pomeriggi
interi, fin quando l’ombra e il fresco danno
loro un brivido che li fa rientrare in case
che li accolgono come estranei, perché
visibilmente non sono più di loro: e infatti
li vedi muoversi con difficoltà e diffidenza
tra il vuoto e il pieno di mobili che hanno
altre misure e fanno ingombro ai loro passi.
Qualche volta, ma di rado, camminano per
i marciapiedi deserti, sotto gli alberi,
nell’ombra degli spigoli; si trascinano lungo
i muri, e vanno verso mete che forse sono
lontanissime, irraggiungibili, irreali. Sembra
che camminino da una vita, straziante
metafora di sé stessi.
Aspettano a lungo, che una voce si esalti
nel vuoto, per sollevare le palpebre
abbassate e captarne le modulazioni, nella
muta cavità di agosto. Le loro parole,
fragili foglie secche, si strappano al vento
del silenzio. Bisogna raccoglierle con
dolcezza, senza parere; bisbigliano infatti,
apprensivi che nessuno voglia ascoltarli.
Quando tacciono, la sospensione toglie il
fiato.
Sono vestiti di panni leggeri, logori, troppo
larghi, o di pesanti lane che trattengono il
calore. Se sono un uomo e una donna li
immagini presi in lontane e incomprensibili
recriminazioni di cui custodiscono l’inutile
segreto; se invece sono due donne, ti
stupisce che possano serbare ancora, nel
loro tempo così scarnificato, l’abbondanza,
la superfluità delle amicizie. Forse si
frequentano solo perché si odiano, e si
spiano a vicenda. Le donne sono inaridite,
da quando l’umida fonte del desiderio si è
prosciugata; gli uomini sono invece
sovrabbondanti di liquidi, flaccidi e
inebetiti.
Qualcuna vive in uno scantinato obliquo
insieme al gatto grigio e a un figlio che il
deserto, l’aridità dei sentimenti condannano
a restare anche lui, solo, in città. Ha
lasciato la grazia su un sagrato d’altri
tempi, quando in paese sposò per venire a
vivere dove le vane speranze di lui la
condannavano. Non si è mai allontanata da
queste stanze seminterrate, le sono restate,
sul comò, fotografie di volti incavati. Fa
scorrere la quotidianità della vita, contenta
di poterne raccogliere ancora qualcosa: chi
viene a trovarla, e scende i ripidi gradini
per portarle un lavoretto da fare, per lei
personifica la grazia di dio che non
abbandona chi lo sollecita con le sue
giaculatorie.
Gli occhi dei vecchi che d’agosto restano
nella città sono straordinariamente avidi.
Le pupille perforano la pelle, sono pungenti
denti di vampiro: cercano forza e sangue,
rabbrividisci a passare sotto le loro finestre
perché ne avverti, sulla tua testa, il respiro
affannoso. La vista è l’ultimo, tra i sensi
dei vecchi, in cui resti una oscura forza
misteriosa. Non gli sfugge nulla di quanto
accade, e forse accade solamente nei loro
occhi sospettosi.
Senza alcuna benevolenza e magari con
odio vedono passare i mostri, anche
stasera. Sono loro, tutti e quattro,
camminano affiancati occupando l’intero
marciapiede, come se non potessero
concepire altro ordine per vivere assieme e
riconoscersi, per non perdersi nel vuoto
opprimente che li accompagna, segno
dell’orrore rispecchiato negli occhi di chi,
quando passano, li osserva senza parere. Il
più giovane dei quattro spinge la carrozzina
dove siede, raggomitolata, la vecchia, con
gli occhi sbarrati e la mano sul bracciolo.
Tranne lei, che gli anni hanno consumato,
sono tutti enormemente grassi; il giovane,
la donna di mezza età, l’uomo più anziano.
Si somigliano, dovrebbero essere fratelli,
figli della vecchia, della sua misteriosa
condanna a partorire ebeti. Sono l’estrema
rappresentazione dell’abisso. Guardano il
mondo, che non si sazia di scrutarli tra le
dita poi vergognandosene, con occhi da
rana o da bambino infelice dietro lenti
tonde, spesse, enormi, che dilatano la
pupilla e la restituiscono cieca. La loro
grassezza è deforme. La carne chiara
ballonzola e trema a ogni passo, le gambe
fanno fatica a sostenere il peso, le ciabatte
lise e sformate strisciano sul marciapiede.
Escono dalla loro casa, una vecchia
palazzina fuori squadra, dimenticata dalla
speculazione che ha abbattuto tutto
intorno, e vanno lentamente, a fatica, verso
il bar restato ancora aperto. Lì siedono alle
sedie di ferro, le donne a gambe larghe nei
grembiali di cotone a fiori. La vecchia
orina, e l’acqua viene fuori dagli stracci,
senza che gli altri se ne curino, di sotto la
carrozzina. Accanto, si è accucciato il
cagnetto bastardo, bianco e nero, legato ad
uno spago. Tengono tutti e quattro le
bocche perpetuamente aperte, con la
mascella pendente in un selvaggio stupore;
non conoscono la leggerezza del sorriso,
hanno lo sguardo spento come quello del
loro cane randagio, che adesso si morde
furiosamente le pulci tra la pelliccia rasa.
Nella sera, che cala con irriflesse tristezze,
popolano l’agosto della città con la loro
presenza, e le danno un nuovo emblema,
un oscuro turpe senso, che non si riesce a
decifrare.
 


Temporali
 
 
Acque impure
 
Quest’anno il temporale ha anticipato
ferragosto. Di solito, le altre estati, il cielo
si illividiva lentamente, nei ritardi di un
solleone appena declinante: sul rosso
attonito si libravano liquami sulfurei e ne
colava il putrido di un’improvvisa
consunzione, mentre in basso — dove la
terra si rattrappisce su un profilo sfumato
di polvere, dove i pioppi sembrano candele
incinerite e i dossi, calvi per l’aratura,
sfrigolano spaccandosi — i colori si
stemperavano in tappeti lisi e morbidi. Le
taccole, uccelli dell’avarizia e della perpetua
fame, si sollevavano in lenti e lunghi voli
verso un invisibile limite, più in là,
posandosi su un ramo nudo o sulla prima
macchia delle roverelle, tutta sfrangiata.
Queste piogge, queste cadute immani di
acque, placavano arsure che ci apparivano
altrimenti immedicabili: la terra
riacquistava plasticità, si prestava di nuovo
all’orma, al dito che tracciava il rivolo fino
alla gora. Segnavano un’ora di festa per i
ragazzi, che dell’acqua fanno il loro primo
gioco, e per le genti di paese, per le quali
così cominciava la nuova stagione, la prima
delle stagioni di un anno di probi e antichi
lavori. Al culmine del solleone gli occhi già
si sollevavano a scrutare, impazienti.
L’anticipazione di quest’anno ha invece
precluso le attese. Ma forse non saremmo
stati egualmente preparati: non siamo più
legati, nelle periferie cittadine, alle
memorie, reali o fantastiche, infantili o
familiari, della campagna. L’occhio non
aveva scorto il mutamento nei grevi e
immoti azzurri che si infiltrano tra i
palazzoni, nulla aveva destato timori
sospettosi o preveggenti. Nulla aveva messo
in allarme la donna per i suoi panni stesi,
svettanti sulle terrazze. Viveva la
estraneazione della città come un
supplemento di punizione, inflittole da
chissà quale potere che non esaudiva i suoi
desideri né compiva le sue stesse promesse.
Si sentiva perversa, come chi si sente in
prigione. E, a un tratto, un rombo
solamente e l’acqua è venuta giù impura,
imperfetta, senza sapori, sollevando per le
strade fanghiglie immonde. Si vedeva gente
balbettare, sorpresa a raccogliere sulle
labbra e dentro gli occhi le gocce fuggenti.
Ci fu chi inciampò scivolando e chi alzò le
braccia in un gesto di rabbia, comica
perché nessuno raccoglieva l’imprecazione,
sbeffeggiato da ragazzi usciti con la fionda
a colpire persiane accidiose e crepitanti: si
lasciò schizzare dall’acqua grigiastra con un
senso di colpa, di umiliazione, ipocrita
come un bambino e rassegnato come un
vecchio.
Avrei potuto ritirarmi dietro semplici echi.
Non ho potuto o voluto: anzi, sono stato
tratto a uscire e ad offrirmi al lucore che
gocciava dai cieli, e di cui mi accorgevo
ora, quando rompeva la sequenza delle
promesse e scacciava gli inganni.
 


 
 
Ragazzo
 
In un giardino, ora, un rosaio a cespuglio,
con un solo stelo e una sola rosa, carnicina.
Gli altri sono stati recisi, a diverse altezze.
La rosa è troppo turgida e aperta.
Rosai, rose come queste, in altre stagioni.
Un’infanzia piena di tensioni, di brividi. Il
ragazzo placa le sue amarezze, dimentica le
sue angosce in pomeriggi estivi irrorati da
simili piogge. La tensione si carica,
fisiologicamente, in un nulla denso e
gonfio. Il ragazzo si sente derelitto. La sua
solitudine si misura in pochi metri d’un
cerchio labile, ma sono metri che appaiono
chilometri, tra la città e la gente. La
solitudine è uno spessore raggiunto per
caso, o forse già un’identità. La si fugge:
quando arriva, la solitudine sgomenta. Per
anni non la si conosce, forse non la si
riconosce.
E poi, venti anni, forse trenta, di lavoro,
di varie fatiche, per sottrarsi ad essa.
Scavare, come talpe, percorsi lungo i quali
distrarre il quotidiano, allontanare
l’aggressione dell’essere ancora ragazzo,
quella sua solitudine fatta di pena; che è
propria e sola del ragazzo. Come allora, il
rosaio è umido; in un pomeriggio come
quello, e come questo, tutta la pena del
mondo, la pioggia estiva premonitrice di
sconfitta, l’umidità segno d’infelicità però
desiderata, misteriosamente. La pioggia, e
la sua vertigine labirintica.
Bisogna soffermarsi, provare a capire il
momento: ci si vergogna quasi, non si ha il
coraggio di farlo più. Le vacanze! Sono per
il sole, gridano. E non ci si ferma, anche se
lo si vorrebbe. Ma poi, esattamente,
accorgersi di uno straordinario errore. La
solitudine, vaga felicità ricercata e goduta.
Quella solitudine, quasi una ebbrezza. E
persino la colpa di questo godimento, il
sottile brivido di provarlo, di immergervisi
dentro come, appunto, una colpa. Le colpe,
interstizi, fessure dapprima invisibili e
insignificanti.
La pioggia d’estate, uno stato innaturale.
Ipocrisia di una educazione spoglia e
povera di sorprese; e sorprese e sgomenti
rivelano la complessità del mondo. Il
ragazzo impara a liberarsi e si fa uomo
passando attraverso paurosi silenzi e
solitudini. Deve però temerli, e ne ha
paura perché nessuno gli ha detto nulla,
nessuno lo ha preavvertito né ammonito.
Nessuno gli rivolge una parola di aiuto. La
paura sarà compagna della sua liberazione,
per anni forse.
La lontananza che torna, con la chiarezza
attesa a lungo, persino ormai non più
aspettata. Dunque, quella fu felicità, dono
di grazia! Gli altri chiusi nelle loro parole,
il ragazzo, nel giardino, che scopre il
silenzio. La melanconia. La goccia che cade
a terra, un momento lievemente ipnotico.
L’abbandono della terra che assorbe
l’acqua, foglie lavate, un senso di
sfacimento complice della lontananza,
dell’allontanamento. Lo favorisce, senza
violenza.
L’ozio, fecondo dei turbamenti, delle
dedizioni assolute, stagione di vacanze
giovanili e solo giovanili, pause angustiate
nel pensiero del futuro ancora lontano,
inerzia in cui muore l’inattività e si
solidifica, fino al privilegio.
 
* * *
Di notte il rombo del temporale fa
sollevare la testa dal cuscino, e tendere
l’orecchio del dormiveglia. Si rompono
tensioni accumulate, il ragazzo torna a
guardare il cielo con curiosità, dopo averlo
dimenticato per settimane e mesi
nell’insopportabile monotonia dell’azzurro
polveroso.
Tra le case, nella immaginata curvatura
dello spazio, il buio è un golfo senza
sponde. Quando il lampo dirama,
zigzagante inseguirsi di strie che sembrano
irrompere, da odi repressi, in furie
incalzanti o rabbiose perversioni, la
perfetta cupola si frammenta in spazi
discontinui e irregolari. Il lampo dura un
attimo, ma il ragazzo sgomento teme che
questo sia l’istantaneo palesarsi di una
volontà intesa a distruggere l’universo.
Subito dopo, un altro lampo infuoca lo
zenit per precipitarsi dirocciando in cascata
fino all’orizzonte, dietro le ultime case
d’improvviso rivelatesi come spettri,
immagini malamente cancellate dalla
memoria. Al secondo segue un terzo e poi
un altro ancora, e il cielo si dilata in
lontananze spettrali, eccitate dallo
scoppiettio luminoso. Ma i temporali
notturni, solitari, il ragazzo li ama: il suo
timore è perfino piacevole, e forse
desiderato e beneficamente atteso. Il cuore
batte veloce, la solitudine è ricca e piena,
pronta al sorriso incantato.
L’aria, gonfia di umidità elettrica,
rinfresca. E infatti arriva la pioggia, con
quella sua misteriosa gaiezza che non si può
spiegare ma ogni volta ti prende. Subito,
con lei, gli oggetti tornano a vibrare e a
vivere. Nel buio tuttavia le foglie rilucono
a una a una, al sommesso bagliore del
vicino lampione, con la loro superficie
fattasi tersa; i sassi, frustati dal lampo,
esplodono in momentanee, labili gemme,
topazi e oscuri diamanti; il selciato riflette
spigoli, superfici e accidenti, mentre le
pozze, a ogni goccia che vi cade, spezzano
e smorzano i colori tremolanti. In alto le
pareti delle case, sulle cui distese superfici
la pozzolana è ancora tiepida per il calore
diurno, si ingrommano di fioriture, di
disegni vaghi, di macchie sempre più cupe
e fitte saldate infine in una velatura sulla
quale dai cornicioni, dalle grondaie, dai
tetti spiovono gocce spesse e cupe. I lunghi
tubi di zinco vibrano accaniti.
Una falena traccia mostruosi ghirigori
d’ombra sull’asfalto, un gatto attraversa
saltellando la strada. Il temporale è ora
precipitato, è una compagine densa di
acque, che vengono giù monotone. Il loro
allineamento è regolato da leggi che al
ragazzo appaiono mirabili: vorrebbe
scostarne il sipario, tornare a inseguire i
raggi policromi dei lampi; ma i tuoni
lentamente si allontanano verso un
orizzonte fitto di barbagli arrossati.
L’acqua è dovunque, una ricca coltre sotto
la quale le cose più minute, apparse così
magicamente nella notte, si dilatano e
proliferano infinite altre presenze.
All’occhio che le ha indovinate e
finalmente anche scorte, esse ricominciano
a vivere d’una trama di vita che la troppo
asciutta estate aveva interrotto, strappato,
messo in forse.
 


 
 
I giorni delle Falkland
 
Temporale d’estate: porta la stagione molto
più che non torride giornate di asfalto
liquefatto. I giornali, la radio e la
televisione martellano sulla guerra delle
Falkland — no! Las Malvinas son
argentinas… — annunciano da Buenos Aires
che l’attacco finale a Puerto Argentino è
cominciato questa sera (questa mattina,
questo pomeriggio, o già domattina?).
Silenzio, invece, da Londra.
Stamani, per il cielo, nuvoloni grossi ma
leggeri e chiari. Si sono dapprima infiltrati
come cunei isolati e inoffensivi
nell’orizzonte, per poi saldarsi e avvolgere
il cielo della loro afa. Ma ancora verso le
dieci, difficile pronosticare tempesta.
L’azzurro, digradando senza stacchi e
perturbamenti, si mescola nel grigio perla
delle nuvole; e il caldo che dà impazienza
avrebbe voluto essere null’altro che l’afa di
una giornata romana, votata ai suoi antichi
scirocchi e alle mitologie delle sue voglie.
Chi non le conosce, chi non le canta?
Verso mezzogiorno, o forse l’una, sul ponte
di ferro che chiamano “il ponte del
somaro” (un relitto di archeologia
industriale dalla parte dove l’orizzonte è
ancora aperto, dove la campagna è teatrale
quinta, ritaglio o inattesa dimenticanza) si
sollevano d’improvviso buffi di polvere rosa
e grigia opalescente che, come per una
estranea disperazione, precipitano nel fiume
terroso. Questa sì, è premonizione di
temporale, annuncio certo di
rimescolamenti d’aria e di vampe, di
ribollimenti e di placamenti, di schiume e
di liquidi tremolii, di piogge infine. I
giornali sottobraccio recano le loro notizie.
Buttati via dopo pranzo, lasciati per terra a
frusciare sotto le zampe della gatta, a
crocchiare. Poi, abbandonato sul letto del
figlio uscito, un sonno lungo dove nessuno
venga a cercare tracce di coscienza.
Alle tre, il gran battere della porta-finestra
lasciata aperta risveglia nella paura. I panni
stesi sono già stati ritirati per timore della
pioggia; l’orizzonte si è fatto cupo, il grigio
sale di tonalità, da un color piombo a uno
splendente e stridulo bianco-latte affocato
di presagi elettrici.
Chiuso in un posto di lavoro, chi può
vedere se fuori piove? L’atmosfera non
sembra mutare, si può ancora sperare che
la pioggia non arrivi. Nel cortile già in
ombra, in vasi enormi, straordinarie foglie
oblunghe cresciute in una dismisura che è
misura dell’oblio che le circonda, rivestite
di peluria.
D’estate la pioggia, l’acqua, è soprattutto la
minaccia dell’acqua. Un giovane arriva, per
lavorare, in bicicletta: un modello
antiquato, nero con filature giallo oro e,
legato alla canna, un ombrello di stoffa
grossa ed elegante, il manico pesante di
ciliegio setoso, lievemente violaceo. Ma
verso le cinque sull’asfalto cadono le prime
gocce. Sono gocce monumentali, immense,
polverose più della polvere su cui cadono
con la forza di pietre, o di monete d’un
inatteso miracolo celeste. Sfrigolano e si
spengono lasciando una traccia inerte. Sono
così rade che ce ne vuole prima che l’una
copra la traccia lasciata dall’altra. Non c’è
bisogno di evitarle perché,
straordinariamente, non bagnano. Si può
impunemente camminare almeno fino alla
terza o quarta fermata d’autobus, prima di
organizzarsi mentalmente e cercare di
ripararsi. Passa uno con un cartoccio di
olive, il cartoccio è umido. Un altro
ragazzo esce dalla gelateria appena
inaugurata con in mano un enorme cono
pieno di pistacchio verde, che già scola da
una parte. Al negozio di scarpe, in vetrina,
un paio di mocassini neri.
L’autobus finalmente, all’ultima fermata
prima che la strada cominci a salire,
un’erta a forma di serpente, sinuosa. Le
gocce sono rade, adesso, lasciano sulla pelle
un’impressione di freddo. L’autobus si
arrampica, svolta sui tornanti, prende
d’abbrivo l’ultima grande curva davanti
alla Villa, ancora aperta, passa sotto le
arcate e gira infine a sinistra. Una fermata
buona, ma per distrazione si può perderla.
Allora l’autobus si getta giù per una ripida
scesa, deviazione inesplorata, solamente in
fondo alla quale c’è un’altra fermata:
bisogna ora tornare indietro a piedi,
risalendo la strada: vie dritte, semideserte,
un cinema vuoto e abbandonato,
pasticcerie, una libreria, negozi di mode,
tutto logorato dalla stagione. Poi, le
palazzine cedono il posto a villette con
intorno brevi giardini. Una enorme
bougainvillea si arrampica sulla facciata, la
stringe del suo violetto.
D’un tratto, la pioggia arriva. È un
rovescio immediato, inaspettato. L’acqua
schizza sul selciato e lo fa subito scivoloso.
Nel correre, gli occhiali cadono dal
taschino e la guaina di pelle è infradiciata,
molle. Bisogna girare l’ultimo angolo, con
negozi. Le vetrine sono al riparo sotto
impalcature di fresche assi, dietro fitte reti
verdi. Qualcuno lavora. Si cammina sotto,
scontrandosi nei passanti che ti vengono
incontro dall’altro senso.
L’asfalto è ormai definitivamente
impregnato, l’aria è tutto un odore di
fango. Gli alberi, lungo i marciapiedi che
incrociano con la via principale, hanno la
pagina superiore delle foglie lucida… Sono
foglie nuove, ben disegnate, non ancora
ispessite nel culmine della crescita. Sotto
gli alberi, dove non è arrivata l’acqua con
la sua forza, chiazze d’asfalto più chiare.
Figure oblunghe si riflettono a testa in giù,
sulle luminose superfici. Le finestre delle
case sono chiuse, frastornate. Gente si
infila nei portoni allegramente fradicia,
vengono scambiate parole di meraviglia. Si
va avanti, strisciando contro i muri,
lasciando alle spalle queste testimonianze di
menzogne. Nulla c’è, davvero, che si possa
odiare.
I pomeriggi d’estate, del temporale estivo,
la gente al lavoro pare straordinariamente
assente, incapace di cogliere le minute
trasformazioni dell’aria, così dense di
minacce, di pericolo vero. Ancora
solitudine di questa forzata differenza,
sporcata e avvilita. I libri ammassati in un
angolo, sfogliati e derelitti, incombenti con
le loro urgenze. E l’intero pomeriggio si
svolge lungo percorsi di odori, più ricchi e
vari man mano che cambia il peso e la
forza stessa del sole. Le ombre acide. E
infine, al primo buio, il lungo serpeggiare,
all’orizzonte, del lampo fulvo. La notte è
tutta ferita, concede allo strazio.
Dalla finestra semiaperta, sotto l’ala della
persiana sollevata, scrutare il cielo, dove si
rivela quando il lampo lo apre e lo
sconvolge. Colori densi, di rubino e di
ametista, pallori di rosa improvvisi nel buio
color vino.
Temporale d’estate, che rivela l’estate più
di giorni di afa e di calori. Tornare a casa
leggeri, dopo una scoperta che ha
ricomposto il passato in continuità col
presente, e fa del tempo più sontuosa
spoglia. Una storia che finalmente può
raccontarsi intera, saziarsi di sé stessa.
Tornare a casa, vedere finalmente che l’aria
s’è rinfrescata, il cielo si è liberato, si è
fatto lucente, pronto a ricominciare,
sempre, ancora, con le sue promesse. Un
temporale d’estate.
 


Càpita, in città
 
 
Non tornerà
 
Esce sul terrazzino, dà un’occhiata alle
piante. Le foglie sono ingobbite e pendono,
la terra nei vasi è arida. Da quanti giorni
non li innaffia? Bisogna rimediare, oggi
potrebbe finalmente dedicare qualche
minuto all’incombenza: l’afa impedisce di
lavorare, si è aggirato attorno al tavolo, ai
fogli sparsi, senza nemmeno riuscire a
sedersi alla sedia.
Si gratta sul braccio vicino al polso, sulla
spalla, dove una mosca, o una zanzara, lo
ha punto e la pelle è arrossata: gira per
casa in pantaloncini colorati e in sandali (di
plastica), a petto nudo. Lascia scorrere
acqua dentro una brocca di terracotta
bianca e azzurra, un vaso da fiori mai
usato. È il primo recipiente che ha trovato.
Resta, sorpreso, a guardare l’acqua che
salendo porta a galla e fa turbinare,
schiumando, cicche e altro seccume
indistinguibile. Da quanto tempo non viene
usato, questo vaso!
La cucina è in disordine, la gatta si
distende sulla sedia di paglia che la peluria
grigia e bianca ha coperto d’un morbido
velluto. Dentro il lavabo, piatti e pentole,
migliaia di piatti e pentole sporchi, e
cucchiai e forchette sporche, e bicchieri
sporchi. Non ha fatto i piatti da quando lei
è partita. Non si pente. L’acqua tracima dal
vaso, si ingorga nello scarico del lavandino
vorticando. Tornerà mai?
La gozzoviglia del sole arde le cose, le
liquefà e le dissolve definitivamente: lo ha
colto impreparato. I giorni si sono
consumati. Forse, domani tutto cambierà.
Stanotte è restato sveglio fino all’alba,
accarezzato da un venticello venuto su a
refoli dal cuore della notte pallida, percorsa
da aloni luminosi all’orizzonte, verso
occidente. Poi, l’alba ha sibilato nella gola
di un merlo, dentro gli ovattati giardini
delle case attorno, semideserte anche
quelle. Allora è riuscito a fare qualche
progetto. Deve scuotersi, vincere l’inerzia.
Non tornerà forse più.
Nelle ore del mattino, danzanti dietro le
cose che rinascono, ha anche cercato di
realizzarli, i suoi progetti. Ha aperto i
cassetti del comò, ha spalancato le ante
dell’armadio, ha tirato fuori diligentemente,
con grande cura, le cose di lei: vestiti,
biancheria, cianfrusaglie. Quello che ha
lasciato, da cui però non si riesce a capire
se seguendo un piano architettato o a caso,
se con il proposito di tornare o no. È una
fuga, o un’assenza calcolata, momentanea,
temporanea? Quest’abito nero. Ci ha
sempre tenuto, perché non lo ha preso con
sé? E perché invece ha ripulito
minutamente i cassetti, portando via le
scatolette piatte e colorate, i fazzolettini, le
creme, persino ninnoli fastidiosi dei quali
ha sempre detto che non sapeva cosa
farsene? E perché, allora, ha lasciato ben
visibile l’orologio d’argento, da taschino,
che è appartenuto al padre e che lei ha
sempre curato, caricandolo ogni sera, come
il padre aveva sempre fatto.
Ha cominciato a raccogliere questi
frammenti, in piccoli mucchi e pacchetti in
fila sul letto, facendo balzare via la gatta
che vi si era acciambellata, ha tirato fuori
una valigia, ha aperto anche questa sul
letto, per accatastarvi gli oggetti.
Ma intanto si è fatto tardi, il sole ha preso
ad avvampare, fuori, una musica lontana è
penetrata dalla finestra aperta, e
d’improvviso si è sentito svuotare dentro, e
ha lasciato perdere. I mucchietti di
biancheria sono ancora sparsi sul lenzuolo
sgualcito, la gatta è riuscita a dormire
indisturbata lì sopra per il resto della
giornata.
Adesso, tira su il vaso ricolmo dall’acquaio,
si dirige verso il terrazzino, lasciando che
l’acqua goccioli sul pavimento, schizzi sulle
ossa di pollo spolpate dalla gatta in un
angolo dove la bacinella di plastica gialla,
piena di segatura, puzza per l’orina e le
cacche rinsecchite che vi sono state deposte
per giorni. Prima le puliva sempre, invece.
Chiude la porta della cucina alle sue spalle,
fa un inchino cerimonioso, al fantasma che
lo ossessiona. Ora, però, non può più
imporgli il suo ordine. Potrebbe chiudere a
chiave la cucina, e non aprirla mai più, con
tutti gli avanzi, i piatti sporchi che
contiene, non succederebbe nulla, per
cucinare potrebbe benissimo arrangiarsi con
una macchinetta a spirito, sistemata in
camera da letto, o nel bagno.
In terrazza, centellina l’acqua tra i vasi, le
piante, per non dover fare un secondo
viaggio. L’acqua comincia tuttavia a filtrare
di sotto i vasi. Con un piede scalzo prova a
fermarla mentre scorre per poi cadere sulla
terrazza di sotto. Si sporge per vedere se lì
c’è qualcuno, o se sono anche loro partiti.
Non tornerà. Certo, ha provato un piacere
acre nel mettere disordine in casa. L’ha
violentata così, con questa violenza sulle
piccole cose. Anche prima. C’erano giorni
quando prima lui poi lei spostavano un
ninnolo — insignificante — nell’ossessione
di rimetterlo al suo posto, il posto violato
dall’altro. Un ciondolino di plastica, la
bottiglia, il centrino ricamato, la scodelletta
di paglia — e l’altro a sua volta, due ore
dopo, ripeteva l’operazione all’inverso,
sistemando in un altro posto lo stesso
oggettino insignificante. Si sono inseguiti,
tra i sarcasmi — oh, si conoscevano bene
di stanza in stanza, per tutta casa.
Adesso il ninnolo, il ciondolino di plastica,
la bottiglia, il centrino, la vaschetta di
paglia, è immoto, coperto di polvere, privo
di vita, ebete. Lui non ricorderebbe
nemmeno se occupa il posto che lui per
ultimo ha voluto dargli o quello su cui si è
riversata l’ostinazione di lei. Non tornerà.
 


 
 
Strade sconosciute.
 
Il cane aprì gli occhi: erano pigri occhi del
cane quando invecchia. Anelava, steso nella
polvere dentro un baffo di sole. Il
cavalcavia attraversava su due campate
veloci il fascio dei binari. Ai due estremi,
le scarpate digradavano in riquadri regolari,
fazzoletti di terra dove anonimi coltivavano
insalate: la sera, quando la gente usciva
dagli uffici, acque defluivano nei canaletti
ben rincalzati, nessuno avrebbe saputo dire
da chi. Sul cavalcavia si muoveva sempre
gente frettolosa, nelle due direzioni.
Il cane si grattò dove una mosca si era
posata. Richiuse gli occhi, probabilmente si
addormentò. Sul cavalcavia ora c’era anche
un uomo che camminando guardava di
sotto, verso le scarpate e la ferrovia.
Indossava una giacchetta con le maniche
tirate su al gomito, la cravatta slacciata e il
nodo in mezzo al petto. Un vecchio, poco
prima, lo aveva invidiato perché gli
appariva spensierato, e lui era rimasto
male, sotto quello sguardo avvolto di
rughe. In realtà, non sapeva cosa fare.
Gettava occhiate leggere qua e là, non
aveva preferenze, si curvò fuori dalla
spalletta, sotto di lui sbucavano i binari e
si proiettavano avanti. Il cavalcavia era
lungo, e ne aveva percorso solo pochi passi.
Non valeva la pena scervellarsi per sapere
dove portasse, era la prima volta che lo
vedeva e lo attraversava. Faceva caldo
ancora, anche se l’estate era alla fine, e
nessuna delle persone che si affrettavano in
su e in giù lungo il cavalcavia pensava
pensieri che valessero la pena, tutto
sembrava inutile e, in fondo, disperato.
Forse per questo andavano tutti a un passo
più veloce del suo. Nell’incontrarsi si
ignoravano, e se si urtavano nel gomito
passavano oltre in uno sgarbato silenzio.
Aveva camminato tutto il giorno, non
aveva trovato una ragione per fermarsi:
questo faceva la solitudine di cui era
consapevole, uno dei tanti che
attraversavano il nastro di cemento gettato
sui fasci dei binari. Le gambe lo avevano
portato meccanicamente, e a un certo
punto aveva visto il cavalcavia, che
sembrava lunghissimo. Per un istante lo
prese il dubbio se attraversarlo, fare dietro
front o piegare a destra (o a sinistra) nel
vialone percorso dai tram e fiancheggiato
da alberi senza ombra. Le automobili
venivano via veloci ma, sembrava, senza
necessità, solo perché la strada era larga e
liscia. Là oltre c’era una parte della città
che non conosceva. Ma che c’è di
sconosciuto, in una città dove sei vissuto
da sempre?
Doveva andare avanti, e attraversarlo
tutto, questo cavalcavia. Anzi, chissà cosa
sarebbe successo se si fosse messo a
correre. Non sono un bambino però, si
disse. Cominciò a contare i pilastrini che
scandivano il parapetto. Se non ho
superato la metà, pensò, torno indietro. Lo
promise, come se la decisione dovesse
dargli una soddisfazione, finalmente.
Perse il conto. Si fermò e si voltò a
contare quelli che aveva già passato, ma si
imbrogliò ancora come quando, da
bambino, le cifre gli si confondevano sul
quaderno. Allora fu preso dalla paura. La
gente gli passava accanto in fretta, senza
guardare. Qualcuno gli poteva venire
addosso, tra quella che saliva nella
direzione opposta alla sua, e magari
buttarlo a terra. «Ce la farò?», si chiese.
L’altro capo del cavalcavia era
lontanissimo.
Ebbe paura di cadere, si immaginò per
terra, bocconi, con la faccia contro il
pavimento. La folla lo avrebbe calpestato.
C’era chi moriva così disteso per terra, la
testa fasciata in una sporca pezza di lana,
aveva letto su un giornale.
Allungò la mano per non cadere. Si afferrò
a qualcosa. Era un braccio di donna.
Quella strattonò, si scostò gridando: «Ma
che fai?». L’uomo rimase impietrito. La
donna si allontanò; quando fu qualche
passo più avanti si girò, lo scrutò un
istante borbottando «Che maniere», poi
scomparve tra altri volti e schiene. L’uomo
riprese a camminare. Il momento di panico
era passato. Si sentì rinfrancato, tirò oltre
il gomito le maniche della giacca, perché si
sentiva accaldato. E, davanti a sé, a pochi
passi, vide la donna, ferma. Sembrava
stesse aspettando: lui, forse? Quando le fu
vicino, lei gli si rivolse. Disse: «Come va,
ora? Stai meglio?».
«Abbastanza, grazie», rispose, «scusami di
prima». «Oh, di nulla», fece lei con
naturalezza. Aveva il volto largo, i capelli
fitti e neri dei meridionali. «Ma che brutta
faccia, davvero. Ti senti male?», continuò.
Lui balbettò ancora qualcosa: «No, sto
bene, adesso». Voleva convincere
innanzitutto sé stesso. Lei non riprendeva a
camminare, gli restava vicino.
Il cavalcavia sboccava su una strada in
discesa fiancheggiata da grossi palazzi
popolari, pieni di finestre e di balconate.
Al piano terra si aprivano colorati negozi,
un grande bar, una agenzia bancaria, un
rappresentante di automobili vistose. Le
vetrine luccicavano nel sole basso e non
lasciavano vedere niente, dentro. L’uomo
annotò, a voce alta: «Non ci sono mai
venuto, qui».
«No?» fece la ragazza, «E dove vivi? È
bellissimo, ci abito da tanti anni. I negozi
sono di lusso, con tutte le comodità».
«Dico per dire, così», aggiunse. Forse
voleva salutarlo, mandarlo via, ma esitò.
Chissà, aspettava che facesse lui la prima
mossa.
 


Una città senza vizio
 
 
Di rado scorgi, alzando gli occhi, lo
squarcio dell’ultima speranza. Vi sono
occasioni quando, dietro taciti accordi e
grazie a semplici artifici, uno vorrebbe per
qualche istante crearsi — e regalarsi —
l’abisso, il luogo dove il vizio imponga
come accettabile virtù la sua lucidità, la
salvezza di un civile abbandonarsi, dal
quale presagire, sorridendo, un qualcosa
della purezza celeste. Sono occasioni e
posti notturni, ovviamente. Dovresti poterli
raggiungere con leggerezza; rintanartici
tranquillo davanti a un bicchiere gradevole,
per lasciarti andare, con dolcezza,
all’incanto di una gozzoviglia, e del nulla.
A patto di crederci. I filosofi vi hanno
eretto sopra macigni; non ve ne era
bisogno, tale è una condizione che si
raggiunge e si attraversa assolutamente
permeabile, sotto la propria esclusiva
responsabilità, povera di nomi vincolanti.
Ora, nella città dove vivo, le notti sono
solamente abiette. Non offre risorse
definitive, su cui tu possa contare: tutto vi
appare posticcio. A volte vi scopri l’aspetto
della miseria, che è un passaporto di tutto
rispetto per il viaggio al quale vorresti
abbandonarti, la preziosa miseria. Bisogna
capirla e amarla, la miseria, quando si
presenta nella sua nudità, perché è una
compagna impareggiabile, di dialoghi e
confessioni. Ma essa non è, in questa città,
rispettata. In queste sordide notti, non è
raccolta e citata, dai passanti, nelle loro
conversazioni. Si affrettano via, a occhi
bassi. Sono così radicati, così abbarbicati al
loro suolo, che stupiscono che uno possa
cadere. Non ci credono (non vogliono
crederci), per salvarsene mescolano — loro!
al dolore l’ipotesi di una colpa, e
trovano la cosa insopportabile.
In poche strade (sempre le stesse, come se
il vizio non fosse mobile, per sua natura) le
luci sfavillano; ma quando ti avvicini (e
l’avvicinarsi è già il cedere a una
tentazione) hai davanti il più bieco degli
spettacoli: famiglie intere, ma anche coppie
stranamente imbarazzate o piccoli gruppi di
giovani, occupano lo spazio offerto alle
risorse dell’attesa, intenti a uno sperpero
che nulla spiegherebbe se non lo spettro di
una fame ancestrale. Sono insieme turpi e
parchi, gaudenti e sparagnini, violenti e
pavidi. I tavoli ai quali siedono, e anche le
sedie e i bicchieri, i piatti e le posate, le
stoviglie, tutto soffre di uscire da cucine e
retrobar dove piccoli sguatteri infilano uno
dietro l’altro colori e sapori incongrui,
ignari di golosità e di delicatezze (la
golosità è già un pericolo, un vizio contro il
quale il tempo di oggi si accanisce in
particolar modo, e con crudeltà). Perché
questi camerieri devono essere sempre
guitti? Fila dietro fila, i tavoli distendono
le loro amicizie consumate, non promettono
nulla di buono all’estraneo che voglia
irrompervi da vero, assoluto e libero
gaudente.
Dove il buio delle strade e dei vicoli si
addensa, motociclette parcheggiano fino al
mattino. Un bicchiere di carta pencola
sull’orlo del marciapiede. Il tepore monta
in alto, appanna i vetri di finestre dietro i
quali dorme già qualcuno. Una folata si
immerge invece nell’acqua del fiume. Tu ti
arresti a specchiartici, per far rinvenire i
tuoi sensi, e prepararli. Nulla come lo
scorrere, il semplice scorrere, fa bene. Ma
prepararli, a che cosa? Più in là, appena a
qualche metro, una donna corpulenta ha da
raccontare — lei, mentre tu, stupefatto, sei
così silenzioso — e animatamente gesticola.
Puoi anche, camminando così a caso,
raggiungere luoghi adatti a trionfi
immaginari, e immaginati, posti nei quali
una lunga ansia può trasformarsi persino in
un passatempo gradevole. Guai a
lasciarsene intrappolare, però: subiresti lo
smarrimento di ritrovarti inaspettatamente
sulla via di un ritorno inutile, e soprattutto
ingiustificato, visto che in realtà non hai
ancora conosciuto partenze. In questa città,
la fuga nella notte e lo stesso vizio non
lasciano tracce, non sono cose capitali.
Solo i violenti ne hanno, stranamente,
paura. Essi condannano. Vorrebbero
punire. Carte di un grande mazzo, fatto di
migliaia e migliaia di figure, si mescolano e
per quanto si intreccino non si incontrano
mai in una sequenza conclusiva. Perché il
vizioso non dovrebbe mai essere egoista.
Egli è labile, percorre tutte le strade
attorno al peccato, ma non si ferma mai a
lungo in una sola stazione. Osserva in
tranquillità quanti si agitano nei pressi, e
vorrebbe offrire loro un po’ delle sue
risorse. Anche lui è amaro e può odiare,
ovviamente; ma non gli è necessario, come
invece accade, sempre, a coloro che gridano
contro il vizio. Il vizioso accetta gli altri, i
quali pretendono di annullare la sua
presenza, il suo respiro vitale, persino. Per
questi il vizio è un nulla, e deve essere
cancellato dalle strade. Purtroppo, non lo
conoscono, non ne hanno la minima idea; e
questo rende tanto plateali quanto risibili le
loro rumorose proteste.
Pensieri così sono lontani dalla mia città.
Essa è torpidamente rilassata, non ha veri
vizi, non ne soffre e nemmeno ne prova la
sorda invidia che è in qualche modo la
porta da cui può entrare un minimo di
grandezza. Si deve essere indulgenti, con
lei, perché, come asseriscono, è una città
antica? E invece è una città giovane,
troppo giovane. Non ha sedimenti e non
può avere orrori. Consuma, non distrugge;
perché questo crimine si compia, occorre vi
sia predisposizione, la quale non si concilia
con la fatuità inespressiva. Occorre che il
luogo abbia una memoria segreta e forte,
un ricordo di sé, e questo è invece il vero
assente. Dunque, pietà per le sue miserabili
malefatte. Chi ha tentato di conquistarla,
ha voluto sempre essere sguaiato, e questo
ci accora. Egli ha approfittato della sua
incapacità a nutrire vizi: non direi
innocenza.
Da qualche tempo, ho pensato di
abbandonare le sue strade ormai sepolcrali
e cadenti, troppo mal illuminate, per
avviarmi verso le periferie più oscure.
Forse lì, ascoltando il respiro di quanti
sono costretti a rifugiarsi per paura nelle
case, spiandone le reazioni, i tic, le umili
disperazioni, potrò incontrare la grandezza
del vizio, che è tanto più grande quanto
più si ignora, e riesce a sopravvivere senza
scoprirsi in specchi quotidiani, nelle strida
della disperazione.