sabato 30 giugno 2012




                                                (dai) TACCUINI RADICALI



In spray su un muro romano: "Quando al posto del sole/sorgerà la celtica/sara la gloria"

***
L’economia come puro "scambio", fine a se stesso, nemmeno finalizzato - secondo gli schemi dell'economia classica - al profitto, ridotto a variabile dipendente dello scambio. Scambio - non mercato - che tende solo alla autoriproduzione, in equilibrio mobile e instabile. Purezza asettica dello scambio, logica ferrea e senza smagliature. Assenza completa, in questa economia, del senso di colpa, come poteva esservi, nell’economia classica, per il profitto, sterco di Mammona. Tutto ciò esclude il risarcimento della contemplazione, del distacco, che nella vecchia economia serviva come forma di fuga, di distacco dalle miserie del reale. II fine della contemplazione era 1'estetica. La fine della contemplazione è la fine dell’estetica?
***
L’antropologa Ida Magli denuncia Schengen, 1'apertura delle frontiere europee per uomini e merci. La misura tenderebbe a distruggere le “identità": le quali - sostiene - si fondano sul rapporto coi luoghi, la lingua, eccet e r a.

Incredibile ottusità della scienza. Questa reazione di rigetto si ha nel tempo storico in cui cade, muore, anche il concetto di "folklore" grazie al quale per secoli gli europei hanno potuto elevare barriere tra se e gli "altri" (e nell’ambito del quale nasce anche il concetto di identità come radicamento nei luoghi, nella lingua, ecc.) per far posto al concetto di "sottosviluppo", o di sviluppo diseguale: il contadino africano che lavora con la sua zappa di legno è solo un povero, uno che vive in area di sottosviluppo economico, e la sua zappa di legno non e più raro oggetto da museo antropologico o del folklore ma, semmai, da museo della tecnologia. E intanto le treccine africane, la pittura sul volto, il "piercing", ecc., diventano parte del nuovo folklore, quello delle sub -aree cultural! che si vengono formando nell'Occidente, dentro il suo cuore più moderno, proprio grazie alle nuove mescolanze e ibridazioni. nate a seguito dello sviluppo e della caduta delle barriere culturali.
Fisiognomica dell"incontro nella società mobile, multimediale, multietnica: sempre più chiaramente, 1' identità è un rapporto...
***
Esce un libro su la "Nuova Repubblica" e i suoi uomini. Sottotitolo:"uomini e retroscena della N.R." La politica chiede per sé il riconoscimento di attivita primaria, la politologia ne detta e ridetta, accanitamente, le leggi, o presunte tali. Ma, per la gente, il "retroscena" conta più della scena. Per la gente, sono i retroscena a dare forme e contenuti al fare politico: e non perché la complessità dell'agire non supponga, sempre, una complessità di comportamenti alcuni del quali sono parte degli arcana imperi, con tutto quel che ciò significa, ma proprio perché si pensa che il più e il più importante della politica si debba svolgere lì dietro, cioè in una condizione di necessaria oscurità e alterità, anche morale, di comportamenti che costituiscono, nella loro diversità strutturale, la vera essenza, la verità intrinseca della politica. La politica non è quella che appare o che viene fatta apparire ma quest'altra, dove le norme e regole valide per 1'azione che scorre in superficie o sulla scena non valgono più, mentre diventano determinanti quelle ascondite, non qualificabili e classificabili, dietro e sotto la scena...

giovedì 28 giugno 2012



                                      EVVIVA LA TELEVISIONE

                                       (da "Il Foglio", 28/6/2012)


Io vedo. Domenica sera, simpatici amici mi hanno offerto una buona cena, poi hanno acceso la TV sulla partita Italia-Inghilterra. Da sportivi giudiziosamente nazionalisti, temevamo lo scontro con i maestri del più bel gioco del mondo. E' finita come è finita ed ovviamente siamo stati tutti contenti. Ma a tratti, durante la partita, mi sono un po' distratto, la mia attenzione si appuntava non già sui ventidue che rincorrevano il pallone ma sulla cornice, sul linguaggio in sé del “mezzo”, della TV. Con rapide zummate, il cameraman ci invitava a sorridenti divagazioni, inquadrando ora il volto del giocatore teso nello sforzo e colto al “ralenti” nel momento della massima tensione, ora quello della giovane e bella spettatrice, con la mobile maschera della gioia o della delusione che la rendeva attraente e, perché no?, desiderabile; oppure coglieva i giocatori inglesi allacciati in trepida solidarietà mentre il compagno stava per scoccare il calcio di rigore, o i due giocatori avversari che si stringevano la mano dopo uno scontro duro ma, come si dice, leale. Infine, ecco la panoramica degli spettatori con le braccia agitate ritmicamente in aria: una danza - che so? - di fenicotteri. Erano flash di annotazione psicologica, di reportage sociale. In questi momenti ho capito che si può amare la TV, mi sono reso conto che il suo freddo occhio ha anche tocchi di umanità trasmessi, con tocco leggero, ad una platea di milioni di persone di ogni lingua, colore e religione: una esperienza impossibile senza la TV. Siete d'accordo, immagino. Ma perché allora - mi chiedo - la TV viene bersagliata da ogni tipo di critiche, accusata di volgarità e banalità, fatta oggetto di sarcasmo, aggredita da tentativi accaniti di censura? Davanti alle nuove sempre più mobili tecnologie la TV è uno strumento invecchiato, ma esprime sempre qualcosa di essenziale al nostro tempo. Il mondo, prima della TV, non era certamente più bello, tanto meno più buono, ne sono sicuro.

Quando il piccolo schermo si accese per la prima volta in Italia, arrivò se non la condanna almeno la messa in guardia di Pio XII, severo contro i pericoli che lo strumento poteva portare con sé. Non si capiva se quella diffidenza esprimesse preoccupazione per la salute morale delle masse o perché, viceversa, il nuovo mezzo avrebbe prodotto una irreparabile massificazione. La sociologia del tempo, l'analisi di McLuhan, ci assicurarono che il pericolo era, appunto, la possibilità di una massificazione generale: la TV impigriva, omogeneizzava, livellava i cervelli, attutiva le sensibilità. Se non dell'annullamento, costituiva l'inizio di una grande modificazione della “natura” umana, con una sua regressione a una stupidità primordiale. Per altri invece si stava realizzando il torbido mito di una umanità pronta a diventare schiava della sua stessa intelligenza o di una potenza mentale sovrumana, non più controllabile. C'era solo da scegliere tra il ritorno all'età della pietra e l'esplosione di una mostruosa new age superomistica. Il dilemma non si è ancora sciolto.

Narciso muore affogando nell'acqua che gli riflette il suo volto. Lo specchio è sempre stato considerato uno strumento del peccato, dell'amore per il sé. Dall'epoca della fotografia sonnecchia, in ambienti di potere, la paura dell'immagine creata dall'uomo, la si vede come una sorta di pretesa al dominio, al controllo, alla falsificazione della natura, un assalto al potere divino, che l'immagine vuole controllarla lui. Attenzione a non farcela scippare: l'immagine forse ci rivela l'essenza. Alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma è in corso una bella mostra di Warhol: “Warhol. Headlines”. Brilla un suo slogan: “Io non penso, vedo”, e nelle sale trionfa l'insostenibile leggerezza e volatilità dell'immaginario, sottratto alla durezza e grevità dell'Essere parmenideo.

Utopie. E' morto Ray Bradbury, maestro dell'Utopia. Nel suo capolavoro, “Farenheit 451”, Bradbury tratteggia un mondo insieme schematico e complesso, chiuso e autoreferenziale: un mondo massicciamente totalizzante dal quale sono espunti i libri, ritenuti portatori di idee che non collimano con le credenze modellate dalla tecnologia e dal potere che la controlla. La letteratura del XX secolo aveva conosciuto altre utopie: “Il Mondo nuovo” di Huxley, “L'uomo è forte” di Corrado Alvaro, “Noi” di Zamjatin, la “Fattoria degli animali” e “1984” di Orwell. Accomuna queste opere una identico pessimismo. Ma è bene fare qualche distinguo: sia Alvaro che Orwell ce l'avevano con il comunismo, lo stalinismo, il totalitarismo. Non se la prendevano, se non in subordine, con la tecnologia. Sono d'accordo con Alvaro o Orwell, non condivido invece il dito puntato sulla tecnologia. Per coerenza, non si può prendersela con la tecnologia perché massifica e, nello stesso momento, denunciare il relativismo soggettivistico che caratterizzerebbe il nostro tempo, come fanno pensatori dell'assoluto e antiscientisti, fideisti, creazionisti, moralisti e fondamentalisti. Vedo questi critici piuttosto vicini a quei totalitarismi che Orwell e Alvaro denunciavano: non a caso, Heidegger ebbe forti simpatie per il nazismo.




domenica 24 giugno 2012





R I M B A U D

TRE SONETTI

traduzione: Angiolo Bandinelli
(con suggerimenti di Piero Welby)


Ð





Il dormiente nella valle


E’ un verde squarcio, dove un ruscello canta
follemente intrecciando all'erba argentei
sbrendoli; dove il sole giù dal fiero monte
riluce, e la valletta tutta ne sbarbaglia.

Un soldatino - bocca aperta e testa nuda,
la nuca fradicia - nel crescione fresco e blù
pallido dorme, steso sotto la nuvola,
sul letto verde d’una luce che vien giù.

I piedi fra i giaggioli, dorme. Sorridente
nel sonno - un sorridente bimbo infermo:
Natura, cullalo tu, scaldalo: trema.

Le sue narici non fremono ai profumi. Dorme
quïeto al sole, la mano sopra il petto:
rossi, due squarci sotto il fianco destro...

Ï

Al Cabaret-Vert
Alle cinque di sera

Dopo otto giorni, le scarpe logorate
per strade e sassi, giunsi a Charleroi.
Al Cabaret-Vert chiesi pane, burro
e prosciutto - non proprio freddo freddo.

Rilassato, le gambe sotto il tavolo
verde, rimirando i soggetti assai naif
della tappezzeria. E che soddisfazione
quando allegra, gran tette ed occhi accesi

- un bacio lei non l’avrebbe sconvolta -
la ragazza arrivò, tartine e burro
sopra un piatto bordò, con il prosciutto

tiepido, roseo, bianco ed un che d'aglio,
e riempì un gran boccale, con la ricca
schiuma che un tardivo sole indorò.

Ï

Venere Anadiomene


Come da una bara di putrido zinco, una testa
di donna - i capelli scuri impomatati - emerge
lenta e stupida da una vecchia bagnarola,
con certi sbreghi assai mal rappezzati;

poi, il collo grasso e grigio, due scapole puntute,
tozza la schiena a fosse e montarozzi,
reni rigonfi e propensi a strabordare,
il lardo sottopelle in molli strati;

la schiena a chiazze rosse - tutto un lezzo
alquanto repellente - e l’occhio nota
stranezze che una lente ci vorrebbe, a scrutare…

Sui reni, incise a motto: Clara Venus;
- e il corpaccione s’alza e protende un deretano
oscenamente bello d’un’ulcera sull’ano.



ÏÏ
Ï



Le dormeur du val

C’est un trou de verdure où chante une rivière
Accrochant follement aux herbes des haillons
D’argent ; où le soleil, de la montagne fière,
Luit: c’est un petit val qui mousse de rayons.

Un soldat jeune, bouche ouverte, tête nue,
Et la nuque baignant dans le frais cresson bleu,
Dort ; il est étendu dans l’herbe, sous la nue,
Pale dans son lit vert où la lumière pleut.

Les pieds dans les glaîeuls, il dort. Souriant comme
Sourirait un enfant malade, il fait un somme :
Nature, berce-le chaudement : il a froid.

Les parfums ne font pas frissonner sa narine ;
Il dort dans le soleil, la main sur sa poitrine
Tranquille. Il a deux trous rouges au côté droit.

Octobre 70

Ï


Au Cabaret-Vert

Cinq heures du soir


Depuis huit jours, j’avais déchiré mes bottines
Aux cailloux des chemins. J’entrai a Charleroi.
- Au Cabaret-vert: je demandai des tartines
De beurre et du jambon qui fût à moitié froid.

Bienheureux, j’allongeai les jambes sous la table
Verte: je contemplai les sujets très naïfs
De la tapisserie. - Et ce fut adorable,
Quand la fille aux tétons énormes, aux yeux vifs,

- celle-là, ce n’est pas un baiser qui l’épeure! -
Rieuse, m’apporta des tartines de beurre,
Du jambon tiède, dans un plat colorié,

Du jambon rose et blanc parfumé d’une gousse
D’ail, - et m’emplit la chope immense, avec sa mousse
Que dorait un rayon de soleil arrieré.


Ï


Venus Anadyomene


Comme d’un cercueil vert en fer blanc, une tête
De femme à cheveux bruns fortement pommadés
D’une vieille baignoire émerge, lente et bête,
Avec des déficits assez mal ravaudés ;

Puis le col gras et gris, les larges omoplates
Qui saillent ; le dos court qui rentre et qui ressort;
Puis les rondeurs des reins semblent prendre l’essor ;
La graisse sous la peau paraît en feuilles plates ;

L’échine est un peu rouge, et le tout sent un goût

Horrible étrangement ; on remarque surtout

Des singularités qu’il faut voir à la loupe...

Les reins portent deux mots gravés : Clara Venus ;
- et tout ce corps remue et tend sa large croupe
belle hideusement d’un ulcère à l’anus.

giovedì 21 giugno 2012


                                                             B O Z Z E T T O

...l’elegante signora bionda e alta con marito biondo ed alto, lui lievemente trasandato nei suoi pantaloni color topo chiari, calze di lana (in autunno), scarpe scamosciate, maniche della camicia di flanella rimboccate, 45 anni. Lei, probabilmente americana, volto lungo ma non celtico, capelli lisci corti un po’ alla maschietta, occhiali piccoli a mezzaluna da lettura con stringa e pinzette metalliche per tenerli al collo, orecchini di perle, mani ben curate, pelle chiara, muove le dita con garbo sfogliando il volume di Eco in traduzione e paperback, si guarda attorno di sopra gli occhiali, non fa nessun movimento esagerato, sa curvare il gesto con lunga, disinvolta abitudine. Indossa una bella gonna in lana verde loden fino alle caviglie, ma con generosi spacchi laterali, di ottima fattura. Scarpini neri alti chiusi alla caviglia, gambe non belle ma non brutte, perfettamente inguainate in quella calze chiare, un po’ lattescenti, che indossa questo particolare tipo di signora 35-37enne elegante e update. Potrebbe aver divorziato da un primo marito per sentirsi ora soddisfatta nelle sue esteriori certezze, così compatte ben stabili da darle la sensazione perfetta di una interiorità impassibile e di lunga durata. Potrebbe, forse, leggere difilato, in un anno, 200 libri di Eco o di Graham Greene o di un Rushdie, con eguale serena inconsapevolezza, e dunque tranquillità. Invecchiando, potrebbe lentamente deformarsi in una discendente di solidi borghesi nordeuropei, forse olandesi, con una lieve tendenza a una pelle rossastra arida e coperta di efelidi, oltreché percorsa da ataviche venuzze; ma potrebbe in quel momento anche essere giunta ad amministrare un notevole patrimonio, ereditato dal marito. Lui, forse un diplomatico di seconda classe o un amministrativo di finanza bancaria di Philadelphia (Pa) o, presentemente, a Colonia: ma la giacca, poggiata accanto alui, è di flanella, quasi nera, con bottoni d’oro smorto, quasi un blazer (europeo, più che americano?)...

martedì 19 giugno 2012



F I L O S O F I A  D E L  P O R N O


Ci può essere una filosofia della pornografia - del porno - come sostiene il professor Simone Regazzoni? Per aver studiato lo scabroso tema, addirittura in versione pop, Regazzoni ha pagato un pesante scotto, perché è stato prontamente dismesso dall'Università Cattolica dove insegnava. Se non in una filosofia, vorremo avventurarci in una antropologia, pur sempre ambiziosa anche se questa scienza è ormai in declino? Oppure gli dedicheremo una più modesta inchiesta sociologica, che tanto non si nega a nessuno? Il rischio è sempre lì, cadere in scontatissimi luoghi comuni, tipo la mercificazione o la reificazione del corpo - impantananti categorie che non significano forse nulla - magari solo per soddisfare i moralisti, una genia sempre portata a fustigare, dimenticando che il fustigare è una pratica del porno. Insomma, sarà possibile dare un'occhiata alla pornografia, al porno, pregiudizialmente evitando le definizioni a partire da quelle in negativo, ipocritamente doverose? Difficile, difficilissima impresa. Martha C. Nussbaum ha recentemente pubblicato un saggio, “From disgust to humanity” (nel 2011 in versione italiana presso “Il Saggiatore”, con il titolo “Disgusto e umanità”) dove analizza la “politica del disgusto” che suo avviso accompagna sempre, nelle nostre società, l'omosessualità. Ma via!: se vogliamo occuparci di “disgusto” dovremo convenire che questa forma di repulsione bolla e respinge, molto più che l'omosessualità, la pratica pornografica.

E comunque, a denti stretti, dovremo però convenire che il porno ha una lunga e probabilmente ininterrotta storia, tra l'erudito e il feuilleton, quanto meno dai graffiti pompeiani alle odierne scritte delle latrine ferroviarie. Il porno insomma è antico, forse si tratta di una oscura e incontrollabile pulsione, sempre in agguato nei meandri della psiche (ahimè, cercavo un punto di vista obiettivo ed eccoci finiti negli abissi della patologie dell'inconscio). Le tecnologie contemporanee ne hanno però dilatato a dismisura confini e possessi: secondo una recente, affidabile ricerca, “le immagini di sesso esplicito, per lungo tempo vendute e consumate in maniera più o meno sotterranea e illegale, nel corso del decennio hanno invaso gli schermi domestici. Dal 1988 al 2005 i titoli a luci rosse negli Usa sono passati da circa 1200 a più di 13.500 l’ anno (la Hollywood 'ufficiale' ne produce circa 400). Secondo i dati più attendibili, nel 2006 erano attivi almeno 4 milioni di siti porno: il 12% di tutta la distribuzione online (oggi saranno molti di più, visto che ne nascono circa 270 al giorno)”. Anche se ritengo si debba fare distinzione tra sesso esplicito e porno - con conseguente ridimensionamento delle cifre - l'occhio, che del porno è strumento e fruitore non unico ma privilegiato, avrà di che sentirsi soddisfatto.

In una succosa panoramica giornalistica, Emiliano Morreale ci guida ai confini di un underground insospettato, ma che sta venendo esplicitamente in superficie con suoi contenuti e linguaggi, da poco saliti anche all'attenzione dei “cultural studiesforse sull'onda della rivoluzione femminista. In Italia, a Gorizia, da qualche anno si tengono convegni internazionali sul tema (titoli tipo “Economies, Politics, Discoursivities of Contemporary Pornographic Audiovisual”) ed è da poco uscito un ponderoso volume,”Il porno espanso. Dal cinema ai nuovi media”, a cura di Enrico Biasin, Giovanna Maina e Federico Zecca (edizioni Mimesis), séguito più o meno ideale di “Pornosofia”, il testo incriminato di Simone Regazzoni. Il libro di Biasin e compagni, di cui si occupa Morreale, ricapitola lo sviluppo della pornografia nel secolo scorso, dalla fase dei filmini mostrati nei bordelli o spediti per posta all’esplosione con titoli come “Mona, the Virgin Nymph” (1970) e il celeberrimo “Gola profonda” di Linda Lovelace (1972). Negli anni Ottanta poi, quando le sale cinematografiche, anche a luci rosse, cominciano a chiudere, l’avvento del video moltiplica la produzione. I DVD sono sospinti dai “pornomani”, in quanto rendono più comodo trovare in modo rapido scene specifiche del film. Pare addirittura che questo segmento di pubblico sia stato fondamentale per avviare la tv via cavo, i servizi telefonici a pagamento o la banda larga. Sono dati da capogiro, ma penso abbiano un fondamento di credibilità: davanti alla stazione Termini di Roma ci sono file di bancarellari che vendono quasi solo DVD porno nuovi e usati (“si fanno anche cambi”), migliaia di titoli più o meno “hot” e “dark”.

Alla fine, anche il DVD è divenuto obsoleto. Chiunque sia in possesso di un modestissimo computer può comodamente intrattenersi in questo genere di spettacolo, basta clicchi su un qualsiasi motore di ricerca la parola “porno” e visionerà il più ampio campionario di pratiche sessuali, un repertorio dove ogni fantasia, ogni immaginazione viene superata dalla cliccata successiva. Una proliferazione incredibile. “La vera mutazione però - continua il recensore - è qualitativa, e non riguarda i singoli prodotti, ma la struttura del sistema. Il cinema, la televisione, la moda hanno un 'doppio' osceno sotterraneo e rimosso, che sempre più viene a galla al tempo di Internet”. Stando a Regazzoni, il porno è “la nuova forma di totalitarismo”. Forse intendeva dire “globalizzazione”, e se è vero che un ragazzino su tre riceve e invia messaggi erotici via Internet, ci siamo vicini. Comunque, direi che Regazzoni ha più ragione di James Hillman, per il quale la nostra epoca è ossessionata dai piaceri della gola: ma suvvia...

L'articolo-recensione che ha solleticato e acceso (oddio!) la mia curiosità aveva però un “occhiello” sbagliato, nel quale si parlava non di porno ma di eros: “Se l'eros viene studiato”. Giro e rigiro i siti e alla fine, sollevato, concludo che il porno non ha nulla, o assai poco a che fare con l'eros. Mi pare che tra i due atteggiamenti vi sia un abisso. L'eros ha avuto una quantità di interpreti, letterari o artistici, dal Platone dello splendido “Simposio” al biblico “Cantico dei Cantici”, da “Les liaison dangereuses” di Choderlos de Laclos a “Lolita” di Nabokov (anche tenendo conto della sua complessità non riesco invece a far entrare in classifica “Portnoy's Complaint” di Philip Roth). Pur condannato dalla etica cristiana, eros ha dato luogo a interpretazioni mistiche, molti hanno trovato un rapporto, anche stretto, tra eros e misticismo. Alcuni aspetti della santità - specialmente femminile - rinviano senz'altro a una problematica erotica.

Ma il porno ha una specificità sua, tra le tante che ruotano attorno al sesso e alle sue pratiche? Se il sesso è piacere e il piacere può essere sublimato nell'eros, il porno non è piacere, ma solo immaginazione, immaginazione di un piacere altrui, forse invidiato e che si cerca di riprodurre. Artificialmente. La prima cosa che mi ha colpito, in qualunque spettacolino porno, è l'atteggiamento esibizionista dei partners. Con tutta evidenza i partecipanti (due o anche più, come vedremo) si mettono in posa così che lo spettatore, il “voyeur”, possa avere la vista più completa possibile dell'atto in corso. Le posizioni sono standard, c'è una esperienza condivisa di posture diciamo così ottimali per la loro capacità di captare l'attenzione ed eccitare i sensi. Io ritengo che il porno consista proprio in questa sua peculiare attenzione alla visibilità. Il porno è insomma essenzialmente spettacolo, c'è per essere visto ed è porno in quanto è visto. Intervistata da Regazzoni, una attrice di film porno definisce i suoi film come “puro esibizionismo”. Non tutto il sesso, e nemmeno il sesso estremo, è necessariamente porno: non credo, ovviamente, non credo si debbano classificare porno le statue dei templi indiani con visioni di accoppiamenti nello stile Kamasutra. Penso che vi siano atti sessuali complessi, vari e persino (ma uso il termine solo per comodità) devianti che possono essere praticati anche in esclusiva, solo per soddisfare propri sentimenti e desideri, perfino con una loro riservatezza: questi atti meritano mille definizioni, ma non li classificherei come porno.

Da questa prima ed essenziale caratteristica - la spettacolarità, diciamo così, teatrale - discende l'atteggiamento che i partners del porno hanno nei confronti l'uno dell'altro. Mentre eros esige un rapporto esclusivo, fino alla più gelosa passione (l'amante grida “tu sei mia e solo mia!”), il porno comporta l'indifferenza tra quanti vi sono coinvolti. L'attrice porno intervistata da Regazzoni è esplicita: “I film porno non sono video amatoriali in cui (…) sei libero di fare ciò che vuoi. Io devo essere sempre concentrata, tenere conto delle luci, delle indicazioni del regista, dell'espressione del mio volto, del modo in cui ansimo...”. Mentre i due partners dell'eros vivono quei momenti in perfetta, intollerante complicità - l'eros è compiuta donazione di sé - il porno può anche accettare la molteplicità dei partecipanti, tanto più indifferenti ai sentimenti di ciascuno degli altri: come si fa ad essere gelosi di un partner sessuale multiplo? E ancora: mentre nell'eros l'intesa è spontanea in quanto fondata sui sentimenti, nel porno vi è non una intesa ma un accordo contrattato, anche attraverso estranei, mediatori, procacciatori, affittuari, ecc, tutto un giro speciale, suppongo. L'incontro che si ha nel porno, l'incontro che viene mimato nelle scenette preparatorie all'atto sessuale, è falso, pura maniera, manierismo. E' tutto un deja vu, con varianti forzate: quello che nell'eros è profondità di partecipazione, qui è noia. L'eros può anche essere maliconico e disperato, il porno deve essere sempre “positivo”.

Perfino il tempo è, nel porno, meccanizzato. Nell'eros il tempo il tempo è scandito dai sentimenti, l'atto sessuale dovrebbe non finire mai, gli amanti sentono come dolorosa perdita la fuga del tempo e vorrebbero che il tempo si prolungasse all'infinito, nell'infinità del desiderio che li brucia, nell'angoscia della fine temuta e indesiderata - cosicché per loro si ha il miracolo che un minuto possa avere la durata di un'ora e un'ora quella di un istante - nel porno il tempo è quello misurato dall'orologio. Nel porno la durata dell'atto è calcolata nel suo tempo reale, viene scrupolosamente contrattata. Il porno non ammette l'attesa. Nel suo gioco sottile, l'eros è anche nei preliminari, può rinviare, ritardare, rallentare l'atto in sé. Addirittura la semplice ironica attesa fa parte della sua imprendibile bellezza: mia moglie era una fan di Frank Sinatra ma trovava erotica la voce di Dean Martin; eros può prescindere dall'atto in sé, può essere vivente nell'attesa e, ovviamente, nel desiderio.  Non siamo, secondo Delauze e Guattari, “macchine desideranti”, flussi di desideri? Il porno è invece tutto racchiuso nel suo compimento esplicito, semmai ritualizzato e ripetuto e soprattutto - ripeto - visibile.

Ancora. Eros dà piacere, c'è scambio di piacere, il porno è senza piacere: essendo mera rappresentazione, il partner non guarda l'altro con l'occhio del desiderio, della passione, del richiamo, perfino della gratitudine; guarda verso la cinepresa, deve solamente esibire. Il suo volto – ma lui non se ne rende conto, perché non se ne interroga - non ha espressioni, semplicemente si atteggia, fa moine, cercando di compiacere l'occhio del voyeur, per il quale viene montata l'operazione. Tra l'altro in forme banali, senza fantasia. La professionalità del porno è dilettantesca, comunque ignora - o vuole ignorare - i principi stessi dell'eros.

Eros e porno: ciascuna delle due pratiche sessuali ha una sua sfera espressiva e significante. Regazzoni sostiene piuttosto che “i due poli ideali della 'immaginazione pornografica' attuale sono la declinazione glamour, con le sue Madonna e Lady Gaga, e il suo opposto, la verosimiglianza bruta”. Anche il glamour, come la verosimiglianza, appartiene alla tipologia dello spettacolo. Non è casuale che la declinazione glamour prenda qui nome da due star dell'universo del pop musicale, legato alla diffusione mediatica di massa (io avrei inserito tra quei nomi anche quello di Elvis Priesley, un grande “partner” del sesso spinto e porno, anche se solo in forme allusive).

Anche “Pornosofia” cita la Nussbaum, dà importanza alla sua distinzione tra almeno sette significati di “oggettivizzazione”, “sette modi di trattare una persona come una cosa”: così siamo nell'ambito della fenomenologia, l'analisi delle “forme” neutre in cui una prassi (una qualsiasi prassi) si manifesta: le forme possono essere descritte evitando qualsiasi giudizio di valore. Ma arriveremo a definire il porno come una “forma culturale” che oggi arriva ad esprimersi “attraverso molteplici piattaforme tecnologiche (cinema, televisione, internet)”? Non c'è dubbio che attorno all'endiade eros-porno si possono costruire splendidi esercizi di dialettica culturale, a partire dalla famosa distinzione (forse democritea) tra il concetto di alto, “Ανω”, e basso, “Kατω”, con le coppie di significato valoriale, etico, che sono attribuite ai due termini. Eros sarebbe sublimazione, la forma “alta” del sesso, il porno la forma “bassa”, infima, una perdizione legata all'abisso, che nella persona per bene può suscitare persino - abbiamo visto - il disgusto. Non c'è persona per bene che in pubblico non dichiari di aborrire il porno e quanto ad esso si lega. Poi magari quella stessa persona perbene viene colta in fallo su una via consolare o alla periferia della città ma, si sa, l'inibizione sociale attorno alle faccende di sesso è molto forte. Un qualsiasi ragazzino impara presto a mentire quando il confessore gli chiede, “Ti tocchi? Quante volte?”

Cosa rende il porno così indispensabile, anche a prescindere dalla sua attuale diffusione tecnologica? Perché se pare indubbio che oggi il sesso sia qualitativamente scaduto e banalizzato, il porno va forte se non fortissimo. E allora le definizioni devono necessariamente intervenire, soprattutto al negativo. La buttiamo lì, da conformisti: forse il porno si sviluppa e si impone come impossibilità di ottenere l'eros, come gratificazione della (nella) solitudine dei sentimenti: l'attuale esplosione del fenomeno ci rimanda alla solitudine dell'uomo massa. Questa solitudine può provocare tic, manie, follie e perversioni. Di qui il porno. E non casualmente, penso, a qualsiasi pubblico di fruitori sia destinato il porno cortocircuita esperienze usuali, le ripete: di solito il porno si svolge in un ambiente di tipo familiare, ben riconoscibile, quasi sempre di basso livello, ed è accompagnato sovente dalla ripetizione del brutto. Nel porno mi sembra infine ci sia sempre uno dei soggetti sottomesso, tra i partner non c'è la parità che l'eros richiede, addirittura la sottomissione viene esibita, rappresentata. Violentare, sottomettere, è un piacere diffuso, ha origini ben note, legate alla frustrazione. In Sade la sottomissione di uno dei due (la donna) era una sfida, un gioco accettato e consenziente; nel porno anche questa forma di consapevolezza è assente. Così il porno mostra la donna “getting humiliated”, anche quando lei è la figura dominante, inguainata nella pelle nera e col frustino sadomaso in mano. Siamo nell'ambito del film “Psycho” di Hitchcock. La donna suscita sempre un senso di inquietudine; nel porno, per esorcizzarne la pericolosità viene degradata a puttana, anzi a “troia”, “slut”. Non siamo nemmeno in un universo sadiano. Sade era convinto e predicava una sorta di “religione”, una “religione naturale” se non già naturista, vicina a Rousseau e al mito del buon selvaggio: ”Liberiamoci delle falsità della cultura e riscopriamo la nostra vera identità, la nostra natura”. Che in quanto tale è o si proclama innocente, non ha colpa. Sade sosteneva impeccabili percorsi logici e ideologici, nel porno non c'è questa consapevolezza, i suoi partners non sanno nemmeno cosa stanno facendo, il loro sesso è non innocente ma non consapevole, manca di vissuto. Il porno è una voragine enorme, nella quale tutto può scomparire e ricomparire.

L'erotismo è desiderio: la pornografia è negazione di desiderio. La pornografia tende all'uccisione del desiderio: deve negarlo, non lo sopporta. L'erotismo non ha bisogno del "compimento" dell'atto sessuale, ha bisogno della distanza dall'atto, si spegne nel momento del compimento. Il compimento è altra cosa dall'erotismo: è sesso. Quando il sesso non è disponibile, allora interviene la pornografia. La pornografia come "indisponibilità" del sesso, magari a causa della proibizione? La pornografia è proibizione del sesso: l'erotismo non contempla, non comprende la proibizione. Se la proibizione interviene, l'erotismo la utilizza come parte del suo gioco. L'erotismo è dunque una partecipazione aristocratica: l'aristocratico vive, sociologicamente, nell'infrazione, o meglio nella inosservanza (a lui dovuta) della proibizione:l'aristocrazia vive ultra legem. E' il plebeo che vive dentro l'inspiegabilità della proibizione, deve superarla ma può farlo solo con la violenza, la negazione, lo strappo della proibizione. Nella pornografia c'è sempre qualcosa del plebeo che, nel negare l'ordine, la proibizione, deve farle violenza, in qualche modo degradarla, insultarla, infamarla: così, la pornografia giunge anche a violentare, a infamare il sesso, a dileggiarlo: cosa che l'erotismo non fa mai. La pornografia è antisessuale, è una minaccia che pende sul sesso.

venerdì 15 giugno 2012

Hamilton

CHE COSTITUZIONE, QUELLA AMERICANA!

La Costituzione che fondava gli Stati Uniti d'America, votata il 17 settembre 1789 dalla Convenzione riunita a Filadelfia, è un evento fondamentale nella storia dei sistemi politici moderni e non solo perché unificava i debiti pubblici dei 13 Stati contraenti, indebitati dallo sforzo bellico della guerra per l'Indipendenza: il principio federale, che sostituì l'inefficiente statuto confederale che era stato il fragile collant dei 13 Stati nati sul suolo della colonia britannica d'oltreatlantico,  rappresentò una originale sintesi del pensiero illuminista settecentesco, respingendo e rifiutando - più o meno consapevolmente - i principi che l'illuminismo veniva realizzando invece in Europa, in primo luogo nelle vicende della Rivoluzione francese e quel che ne seguì, tra Robespierre e Napoleone. Da questa parte dell'Atlantico, governi che via via rovesciavano monarchie secolari per introdurre repubbliche fortemente centralizzate, per realizzare il motto (o il mito) di quella francese, “une et indivisible”. In nome di questa centralizzazione, i governi della III Repubblica in particolare, lottarono contro i dialetti, le diversità religiose, i costumi e i valori regionali: un modello che venne seguito pari pari dall'Italia risorgimentale e post, fino ai nostri giorni, visto che ancora pochi decenni fa venivano combattute e represse le lingue locali storicamente radicate in isole estremamente minoritarie sparse per la penisola. Insomma, realizzavano Machiavelli e la sua visione della forza come mezzo assoluto per la realizzazione dello scopo.   Dall'altra parte dell'Atlantico, nasceva un sistema politico che affidava ad un centro federale poche, elementari competenze, Affari Esteri, Guerra e Finanze, con l'istituzione di un Tesoro Federale (affidato al grande Hamilton) a cui carico vennero posti i debiti pubblici contratti dai singoli Stati. Già in questo la Costituzione americana metteva in mora, sul piano della teoria istituzionale, l'architettura machiavelliana. Ma lo statuto del 1789 propugnava altri e più vasti principi. Nel combattere e ripudiare ogni unità totalizzante e distribuendo il potere tra centri diversi non omologabili tra loro e anzi in equilibrio perpetuamente instabile, assicurava ai cittadini la più ampia libertà di perseguire il proprio destino e persino l'obiettivo della propria “felicità” personale. E quella costituzione vige ancora oggi, se ne scorge la nitidissima filigrana nella competizione politica per l'elezione del Presidente federale, con i partiti divisi essenzialmente sul tema dei poteri del governo centrale rispetto ai valori degli Stati e dei singoli cittadini. Un conflitto serrato, che può consentire a figure estreme come la Palin di divenire bandiera istituzionale, non eversiva ma “legalitaria”. La Palin non è la Le Pen, per intenderci.   Molte volte abbiamo sentito le obiezioni degli antifederalisti europei, che respingono con orrore l'idea di uno “Stato Europeo”. L'ultima esternazione in tal senso è di Van Rompuy, Presidente del Consiglio Europeo. Sono obiezioni dettate da una povera o nulla riflessione storico-politica. Basterebbe che costoro ricordassero che al centro della federazione americana non c'è uno “Stato”, ma un “Governo”, il governo di “Stati”, ancora gelosi di non poche prerogative e poteri, anche in dialettica con il governo centrale. Questa dialettica garantisce, appunto, che a Washington non c'è uno “Stato” centralizzante e totalizzante. In Europa non lo si vuole capire. Eppure - ultima la Bonino - c'è chi si sforza di far capire che quel che occorre all'Europa - e le sarebbe sufficiente - è una “Federazione leggera” che assorba e spenda attorno al 5% del PIL europeo: risorse sostitutive e non aggiuntive rispetto alla spesa pubblica nazionale perché accompagnerebbero il trasferimento al centro federale di poche, essenziali funzioni di governo oggi svolte dagli Stati membri. Il modello americano, insomma. Assolutamente non temibile, rispettoso delle specificità nazionali, per chi ne coltivasse il culto: negli Stati Uniti, l'ispanico sta diventando lingua nazionale. Ma soprattutto – tengo a ricordarlo per gli spiriti religiosi –  quella Costituzione permeata insieme di deismo e di puritanesimo consente e richiede all'autorità pubblica di invocare Iddio a protezione delle faccende della nazione. E' una invocazione fatta propria da Presidenti di ogni chiesa, compresa la cattolica e, forse, persino, la mormone. In Europa, per secoli, abbiamo avuto la norma del “Cuius Regio, eius religio...”

mercoledì 13 giugno 2012

LA STRANA OCCASIONE (PERDUTA) DELL'EUROPA

di Angiolo Bandinelli   Tra i tanti, intensi dibattiti sulla possibilità di unire definitivamente l'Europa oppure  mandare in frantumi quel tanto che ce ne è adesso, piuttosto che invocare - a fondamento della sua unità - le lontane e dissolte “radici cristiane” sarebbe utile ricordare che c'è stato un periodo, anche recente, nel quale l'Europa è stata profondamente unita, se non politicamente di sicuro sul piano culturale. Tra la fine dell'ottocento e le prime due decadi e mezza del novecento gli artisti del continente si espressero in un linguaggio molto unitario, anche se declinato con pluralità di accenti: fu il linguaggio delle avanguardie, proliferanti da Parigi a Mosca, da Roma a Berlino in uno straordinario, e mai più ripetuto, dialogo. Districandosi tra mille sigle (futurismo o costruttivismo, astrattismo, cubismo, suprematismo...) quegli artisti avevano un progetto, forse un sogno, comune, l'affermazione dell'”uomo nuovo” che costruisse un mondo completamente diverso, basato su fondamenta garantite dall'arte, dalla cultura. Era una ambizione dai riflessi anche politici, clamorosi nel caso di Marinetti. Ce lo ricorda una mostra in corso al Museo dell'Ara Pacis, a Roma che offre una bella panoramica degli artisti dell'avanguardia russa. Ci sono buoni Chagall, Malevich, Kandinskij, Rodchenko, Tatlin ed altri, tutti interessanti. La mostra chiarisce una volta per tutte che il comunismo delle origini, quello leniniano, aveva molte assonanze con il fascismo del Mussolini rivoluzionario, ma che quello come questo erano del tutto incomparabili rispetto al nazismo hitleriano, per non parlare delle dittature militari proliferate in Polonia, in Ungheria o magari in Spagna.  Il leninismo e il mussolinismo volevano costruire una società attenta ai paradigmi della modernità promossa da quelle avanguardie, mentre il nazismo era rivolto al passato, si ripiegava sul mito del “suolo e sangue”, odiò da subito l'arte “degenerata”. Solo alla metà degli anni '30 prende piede in Europa una involuzione che vede Mussolini ripudiare l'architettura razionalista per tornare al moderatissimo Piacentini, e avvicinarsi sempre più ad Hitler. Agli inizi Mussolini (che non era certo un Beppe Grillo) incitava e incendiava le masse aizzandole contro un establishment arroccato sui suoi ideali del passato e non aveva capito cosa avesse portato di sconvolgente la guerra, sul piano sociologico, ma anche culturale e delle aspettative. Né il “liberalismo” giolittiano aveva le carte in regola in fatto di autentica democrazia, i Salvemini come i Gobetti lo detestavano e denunciarono.    In Russia, alcuni di questi avanguardisti inizialmente collaborarono anche attivamente con il regime sovietico, mentre dialogavano con l'arte dell'occidente, parigina o milanese, cercando di impastarla alla tradizione russa. Con la regressione degli anni '30, già manifestamente presaga della guerra tra le nazioni che di lì a poco avrebbe sconvolto il continente, il dialogo si interrompe e gli avanguardisti vengono messi da parte, quando non addirittura perseguitati, come nell'Unione Sovietica. La grande illusione era finita, il linguaggio nazionalista riprendeva il centro della scena. Sicuramente non fu un bene.   Qualche dubbio circa i risultati delle avanguardie però si insinua nella mente: la mostra romana (comunque piena di ammaestramenti) esibisce il modellino di una torre dalle ardite linee costruttiviste, un po' ispirata alla spirale borrominiana di S. Ivo alla Sapienza, che doveva essere nientemeno che il Monumento alla Terza Internazionale. Di certe confusioni di idee, diciamocelo pure, gli artisti sono a volte ingenuamente responsabili. Anche in tempi più recenti. Forse quelle avanguardie furono un colossale equivoco; è però abbastanza curioso il fatto che poi il mondo lo hanno davvero cambiato, plasmandone il volto, l'immagine, il “design”, come si dice.

martedì 5 giugno 2012






S A L I V A
un racconto sadiano

Il ventre piccolo, la pelle liscia e tesa a cerchio dell’ombelico. Una lingua sul limiti della forra umida e tenebrosa. Saliva agglutinata in tenue schiuma di bollicine brilla nella penombra. Attesa, l'esitazione può essere segno di una delicatezza, un recupero di natura: o, forse, illusione di una coatta complicità? La lingua pregusta la delizia, e chissà se l'assaporare è sorriso o dolore. Suvvia, scacciare i pensieri - tutto sta qui, rappreso.

Sopra granulosa, sotto liquida come la polpa di un frutto di mare quando le valve si aprono su un residuo di salmastro, avanza, sosta sorpresa, raccoglie un sapore acre, misto di salato e amaro ma anche - scopre - di viola e blu nel punto dove, sprofondando dentro un breve ripido pozzo, la pelle si attorce in annodamento cupo. L'ombelico, fastosa, turgida mezzaluna, sembra ripiegarsi nella vertigine musciata. Impressione sconosciuta e nuova, non immaginata. La lingua ne ritrae altri sapori, prova a decifrare il labirinto, perde contatto, si smarrisce in percorsi a tentoni su una pelle serrata, stretta in muscoli tenaci. Il ventre si scuote in disperata commozione, più giù la macchia di capelvenere fruscia al fresco di un semitono di luce.

L'esploratrice è inquieta, teme quelle fibrillazioni - non le aspettava?, la sconcertano - eccitata dal vellicamento dei grumi dove la pelle è più spessa, congiura e oppone studiate ritrosie all'imprevisto minaccioso sussultare, chiude i passaggi, accellera il serpeggiamento retrattile e gommoso, ha un istante di stanchezza, cede a cavità e distanze - papille irte di dorata pelugine, gore nascoste dentro coppe buie che vaporano tepore - trattenuta da esitazioni del gusto, da cupidità e da ritorni, ansiosa nel timore che ogni centimetro abbandonato sia per sempre perduto. E in improvvisa gaiezza scopre di godere nel provocare le resistenze, si recupera compiaciuta al desiderio, spinge di nuovo alla ostinazione pervicace che è ludibrio eccitante.

Il ventre è una cupola odorosa, tesa e traslucida, con intorno all'ombelico arricciato la spiaggia di peluria chiara, che poi digraderà in ruscellanti cascatelle giù fino al rigoglio di un boschetto intrecciato e folto, bruno o fulvo alla radice e quindi d'un nero bluastro e metallico nella ardita voluta finale, netto e preciso tra i solchi dell'inguine oltre i quali, d'una diversa consistenza e colore, le due vaste cosce, percorse dai brividi d'una muscolatura asciutta e satinata. Quindi il percorso si fa arido. La pelle si distende senza smagliature, senza percettibili pause, come pietra levigata. Confidenza nei corpi, nel corpo, nel proprio e nell'altrui corpo, fatto bello dalla frequentazione, dalla partecipazione - carezze come dono o come rapina, le carezze non sono tutte uguali, la mano va in giro, parte da sola all'avventura, palpando novità e delizie, o contatti conflittuali, enormi e aggressivi, violenti: alcuni di una violenza positiva, altri negativa. E anche ritrosie! Certo, ritrosie, come le perle della collana depositata nel buio (ma il velo di sudore le rende luminescenti). La mano si scioglie allora perplessa, a malincuore, dalla morbidezza della schiena, scivola lungo freddi fiordi e con un passaggio astuto incontra, turrite distanze immisurabili tra campiture d'aria, i seni. Li spreme con passione, fino alle areole e alle papille rosate, delicate o dure, grani dolci di spezie, di melassa brunita, gettoni d'una fortuna che non si pronuncia e rinvia sempre, con infingimenti di castità da adolescente, e anche prefigurazioni di una caduta clitoridea, senza fine. Giovane seno il cui nome è attesa. Come è petulante il dito che si insinua - petulante - nel tondeggiare dei groppi. Questi si stringono invitanti e restii: il dito esita lungo la interminabile curva lunata, misurandone lo spessore e poi l'intero, completo, volume negativo, l'incavo - incredulo che non finisca mai. Op là, salta da una parte all'altra - da un groppo all'altro - dimentica la strada, la cerca e la ripercorre sinuosamente, fingendo, attento a non lasciarsi sfuggire il minimo piacere dall'avventura - dalla caccia al tesoro - opulento dei tanti indizi che i polpastrelli sfiorano ad uno ad uno lentamente esercitandosi e provocando la memoria, le sue storie e narrazioni e rimbalzi e ascolti. Per saggiarne uno devi lasciare cadere, abbandonare l'altro - come è restia al sacrificio, la mano...

Le dita si specializzano, l'indice scorre leggero, esplorativo, giocoso, il medio scalza ostacoli prudenti, l'anulare è torbido, penetrativo, audace e spavaldo, il pollice esercita una assaporata crudità di sensazioni che mozza il fiato: l'artificio nel concordato silenzio è una tastiera antica, ripresa e sognata, dolorosamente insistente a volte. Un andare e tornare preparando smemoramenti e ricordanze, richiama ostilità e indimenticabili amicizie e complicità.

Il massimo del piacere, in questa reticenza. L'invito suadente alla ripetizione osa chiedere sfacciatamente scusa e spande alibi senza vergogna, senza pudore, e persino nutre un rifiuto irresponsabile. Si apre pericolosamente il dominio della trasgressione. Il corpo come trasgressione. Un sospetto di sevizia. La verità, lasciata cadere, palude di acque smorte, dalla coscienza dilaniata, con una ferita che lentamente incancrenisce in piaga infine purulenta e l'ordine scade a disordine, abbandonato alla condanna, a nefande pratiche senza pentimenti, e dunque gravido di minacce, di un egotismo spudorato, in caccia e infine in trionfo.

***

Gli occhi si chiudono, altre immagini vengono scrutate da altri sensi, un brusio colorato traboccante da epoche stupefatte della memoria - presagi rifratti ora presenti in una estasi precipitata dalla follia attirante, ma pervertita, del gusto. Per non vedere. Ma il sadismo non è un'occhiata?

La bocca risale il corpo inerte, ansiosamente va a cercare l'altra bocca. La incontra - quella è fredda, si ritrae, si muove in sfida tetra suggerendo ipotesi di duelli, smorfie, che scadono anche in lazzi e giochi birichini; o si fa riottosa e si chiude in labbra dure. Deve provare altre strategie, cerca di assecondare il capriccio dell'avversaria per meglio giocarla e coglierla a tradimento. Improvvisamente quella si illanguidisce, abbandona le difese alla chiostra dei denti, si schiude ironicamente, i denti sono in una fila non perfetta, disuguali, urtano sulla lingua estranea, scatti affilati di distanze e di accavallamenti, il lucore ambiguo della scheggia, della cesoia calcolante: il tocco è brutale, bisogna che le labbra si distorcano. La lingua incontra a tentoni i succhi, la saliva lasciva e sfuggente, da inghiottire godendone gli umori e le dolcezze in un furto alacre.

E infine il gioco si fa partecipato, la chiostra - ignota - dei denti si apre come una diga immensa mentre l'alito sale con un gorgogliare denso tra le labbra. Sono così affondate le une nella altre che lasciano cadere qualche goccia di saliva e un risucchio - un fruscio, un lappare di cane - ma poi subito tornano compattamente unite, saldate, non passa nemmeno un sottile spirare d'aria, sono inturgidite, dolgono, una stilla dolciastra tremola nella grotta delle due bocche. Si scuotono - l'inaspettato sapore si fonde con quello della saliva - ruotano palpeggiandosi, esplorano ogni minuta piega della polpa elastica, si deliziano della mucosa scivolosa e sfuggente, di una sensibilità scherzevole. Il gioco prosegue. Come un danzatore quando cerca di cogliere di sorpresa le forze dell'altro, per abbatterlo. Le lingue affondano, la spinta è dolorosa, sfiorano la pareti grondanti e torbide, una urta e avanza - l'altra sembra difendersi e difendere la cavità e le sue cupezze - schermaglia furente; labbra deformate, attente tuttavia a non separarsi, a non lasciare penetrare uno sbavo di lontananza. Si logorano in questo esercizio, e quando si separano una filatura di saliva ancora le unisce.

Si affrettano a succhiarla, ad assorbirla, inghiottirla con un movimento insieme disgustato e avido, gorgogliano all'unisono, una palpitazione alterna segna i ritmi della respirazione in affanno, in ritardo o in anticipo l'una sull'altra.

***

Alla stanchezza e alla caduta impercettibile del desiderio le bocche possono separarsi e allontanarsi nella rinuncia oscura e sfatta, che impone un ordine, senza amarezze ma perplesso. Riposano ansimando per un tempo che appare lunghissimo se misurato sulla rapidità e l'intensità del desiderio: così la lingua ritenta ed esplora adesso le labbra incurvate e distanti, in una piega densa di sensi. Sono momenti abbandonati, indifesi. Sadica, impaziente, una torna ad incalzare: scivola inebriata giù per le colline del corpo, ritenta la gola, il seno, di nuovo il ventre turgido, la peluria che si arriccia, vellica, solletica. Fa una immensa fatica a scostare il turgore e penetrare la
umidità d’abisso marino che le si presenta - la lingua spinge, penetra, al colpo le cosce vibrano e stringono la testa, carezzano i capelli disordinati, le guance accalorate, i muscoli contratti, ansiosi nell'attesa di un ben noto ma sempre nuovo: istanti di un tempo trattenuto nel gioco dei richiami reciproci, delle astuzie e degli abbandoni, nello spasimo di una attenzione non remissiva, esigente, intensa seppur timorosamente superficiale. La lingua provoca, affonda più avanti, incontra ora un amaro come di velluto, incapsulata in superfici mobili e retrattili, dense. Le coscie tolgono il respiro, la lingua si ritrae nel cavo profondo. Le mani tornano lungo forme tondeggianti. Distese e sovrane, offrono il brucare delle dita mentre indugiano, sollecitano e si sottraggono - fanno sprofondare l'arco del ventre - granuli duri e taglienti, come di cornee, danno un raspo sotto il polpastrello. Indizi disseminati lungo sentieri ignoti in salite e discese intorbidate da filamenti sottili, molli di sudore. C'è un silenzio di fuga. Di estraneità, Di pensieri che sfuggono in luccicanti scie. L'ascella, senza peluria, frigida come l'incavo dietro il collo della tartaruga, tra il guscio e la zampa, nei giorni di estate, al passaggio del dito si contrae per aprirsi subito dopo quando, spingendo, il polpastrello avverte il palpitare di una vena remota, o di una arteria indifesa.

***

Per sottili, segrete e impensate vie la sevizia sul corpo altrui diviene appagamento del proprio, concepimento, forse, e compimento. Il seviziatore ama il corpo seviziato - da impotente? In questo amore, passione incompiuta e imperfetta, costui attribuisce a quell'altrui corpo una importanza straordinaria, su di esso scarica l'intero peso del proprio, forse del corpo in sé. Il seviziatore punisce quanti non accettano il corpo - colpisce non tanto il corpo che sevizia, quanto gli altri, coloro che non hanno voluto riconoscere quella importanza, l'importanza dell'offerta vuole mostrare ad altri (a tutti) quanto sia tremendo e incommensurabile l'errore, il tenere in non cale quel corpo, il corpo. La punizione degli altri si fa esaltazione del corpo seviziato, ma lui così afferma anche la dolcezza infinita, inafferrabile, del corpo, appropriazione profonda e intima che non vuole avere fine. Il seviziatore lotta e nega la memoria, la sevizia è eterna, vorrebbe esercitarsi su un corpo eterno, che non ha mai fine, che non muore mai, la sevizia è affermazione della vita eterna.

***

La saliva sale torbida, fugace, gocciolante, deliziosa e delicata. Tiepida, impastata, scivola, accompagnando sul polpastrello un relitto infimo, il sapore di una sigaretta di ieri, del fumo, di un frammento, carta o altro, appena dolciastro - ingoiarla distesi, impacciati, vergognosi quasi - ma nella gola scende calore, con un deposito estremo di orrore nel gorgoglio lontano.

***

Recupero dell'alterità, una dimensione corporea dimenticata, attraverso il gemito, lo strappo, un contatto faticoso e un abbraccio finale. L'incontro difficile del respiro, nella difesa di una solitudine protesa a riconoscere ogni parte di se stessi dall'assedio di una partecipazione avvertita come violenza, in definitiva, con un brivido tra i denti. Il volto si contrae, gli occhi inturgidiscono nelle palpebre serrate, le guance sono roventi, fili di capelli si intrecciano sulle orecchie dal profumo strano e dietro il collo torrido. Una goccia di sudore si disfa. Le gambe tengono stretto un enorme vuoto, incolmabile, spingono verso un affondo definitivo, troppo rapido. Penetrazione: c'è un attimo di stupore inevitabilmente osceno, di incredulità.

L'atto appartiene alle forme della sevizia, la figura della donna elemento sacrificale dell'umano, una parte nel doppio volto della figura, diversità ineliminabile che non si può non temere. L'uomo guarda nella convessità dello specchio che ha dovuto inventare per comprendere questo ineluttabile assurdo. Lo sa, la donna, del prezzo che paga, della scommessa che le viene gettata addosso? Ma le sue labbra tumefatte offrono un richiamo al quale non si può negarsi.

La memoria è nemica del godimento. Oppone diaframmi, incute mutilazioni, insinua demoni. La penetrazione sa di essere un equivoco giocato sulla reciproca reticenza, e dunque deve difendersi dall'ammonimento del passato, la memoria. Ma anche dal futuro che è, mai come adesso, sardonico, irreale. Penetrare un corpo che sempre più vistosamente si allontana, si fa estraneo, esistenza pura e semplice: il gioco sempre più labirintico, i due corpi cercano la più strenua sopraffazione. Lo spasmo passa in tremiti, in sconvolgimenti di ogni piano del tempo (del momento) nell'angoscia del finale assorbimento esausto. Le mani, che fino ad un istante fa erano prensili e tattili, ora si sono indurite come a trattenere il sé entro una presa definitiva, o forse nell'illusione di cogliere la complessità del nulla, del vuoto.

La penetrazione vuole essere assoluta, e sopratutto definitiva. Non accetta l'ipotesi dell'incompletezza. E' del tutto priva di ironia, se non nello sdoppiamento, perseguito con violenza, ma senza certezze. La penetrazione è diffidente, teme l'inganno del non appagamento, ha come complice e avversario il tempo. I corpi si distendono e si compongono, sfuggono però alla presa totale. Sorprendentemente.

E l'appagamento è stupore, sorpresa incredula. Il tempo è davvero finito, si resta ora in una dimensione dalla quale non c'è ripresa. Lo spazio, lo si regala o lo si getta via, indifferenti, l'altro corpo riposa, lontano e tranquillo, e ne restiamo amareggiati, perché l'insoddisfazione urge dentro di noi per quello che ci è sembrato mancante, o addirittura sprecato. L'istante torna alla memoria - immobile, appunto - restiamo perplessi della sua leggerezza, ormai, e indifferenza.

Assoluta assenza di gratitudine. Io ti ho dato il mio corpo. Che sciocca, ma il dono è il rovescio del furto: incomprensibile ma ineluttabile. Ma inconfessabile, lei a lui; e quando lei cede, è la sconfitta piena, irrimediabile, senza scampo. L'uomo non dona il suo corpo, non può fare altro che imporlo, anche quando l'indifferenza si fa forte del desiderio come fisiologica potenza, liscia e disponibile, ma senza nobiltà: succede, ed è un soggetto anche questo di sconcerto, di meraviglia. Come è possibile che questo accada, così. Ecco il riso grasso, la pornografia che si schiude, oscena anche quando ignara: l'amore, il sesso non può essere naturale, la naturalità è nel sesso la porta nella quale si infila la pornografia, come distacco, separatezza dalla coscienza. Erotismo vissuto senza coscienza. Immaginario che si scioglie dall'occasione, diventa consumo assoluto, senza tattica, non parliamo di strategia. Ecco, la pornografia è erotismo senza strategia e senza tattica. Per questo, nonostante tutto, è oscena, inaccettabile. Perché la pornografia non sia oscena deve tornare ad essere "detta", quindi anche goduta, appropriata da una coscienza. Allora si scioglie, svanisce, puoi parteciparla, farla tua, e anche donarla all'altro. Certo, capirà.

Lo sfinimento è sozzura, sgomento deserto, adesso. Il compiacimento, di ogni genere, è terminato, si riprendono fissità e indifferenze. Ma, poco fa? No, nulla che sia accaduto. Quello che è passato ci è indifferente, forse persino è bene essere irriverenti con noi stessi, tollerarlo con qualche fatica, con un lieve rimorso - occorre un amore forte e vorace per superare questi riflussi, queste cadute. I corpi giacciono ancora - l'attesa è rovesciata all'indietro, a un tempo appena trascorso eppure già dimenticato - si resta increduli, si vorrebbe recuperare istanti che ci paiono perduti, per sempre. E ora si insinua il senso di una ignobilità di fondo - e irrimediabile - che fa sospirare d'una rabbia sorda. Ci si domanda se anche l'altro, quel corpo che sta lì accanto, quel nient'altro che corpo che è divenuto, ridotto - costei - prova qualcosa o se è semplicemente inerte, smemorata e persino distratta, cosa che ci sarebbe insopportabile: intanto nascondiamo a noi stessi la fitta di una delusione, ci chiediamo se davvero quello che è successo fosse indispensabile. Formuliamo ipotesi. Ci guardiamo la mano, il braccio, tocchiamo la pelle. Sentiamo ora solo l'odore di noi stessi, e lo troviamo insipido. Temiamo di fare un controllo sull'altro corpo, è probabile che lo troveremmo ugualmente indifferente. Scopriamo la lontananza, che fino a un istante fa sembrava impossibile, e comunque ci era inaccettabile, sotto qualunque alibi si fosse presentata.


Roma, 1997/98