LETTERA
Carissimi,
questa lettera è, alla lettera,
una lettera. Essere una lettera, solamente una lettera, è pur sempre
una cosa complicata, non ci si immagina quanto possa essere
complicata, una lettera. Dentro quel suo involucro pallido e anonimo,
ogni lettera è unica. Le lettere sono diverse una dall’altra.
Questa, per esempio, è una lettera dall’aspetto delicato (altre,
invece, sono rozze, di grana grossa) e un po’ fragile. Ha gli
spigoli avvizziti, non belli tesi come quando la busta e i fogli
vennero comprati in cartoleria. Tutto ciò ci dice - dovrebbe
garantirci - che si tratta di una lettera partita. Nessuna
meraviglia, tutte le lettere devono partire. Devono anche arrivare,
quando una lettera non arriva ci se ne preoccupa, si può entrare in
terribile ansia e fare cose strane. Deve arrivare a destinazione, una
lettera: è il suo destino (scusate il bisticcio) ed è giusto, è
destino di ciascuno di noi - non solo delle lettere - arrivare a
destinazione. Ma a un certo punto questa lettera si è smarrita,
l’hanno dovuta accompagnare a domicilio. Anzi, hanno dovuto proprio
portarla a mano. Quelli che così l’hanno compiaciuta - tanto da
farle raggiungere, sia pure per vie traverse, la sua propria
destinazione, e dunque farle adempiere al suo naturale destino -
erano però anche gente sospettosa. Prima di farla arrivare a
destinazione hanno titubato. Non hanno osato aprirla. Però si sono
insistentemente, sfacciatamente, chiesti cosa contenesse: “Chissà
che dice, qua dentro”, e l’hanno palpata, con mano rabbiosa. Non
è che facessero qualcosa di indebito. Una lettera infatti dovrebbe
sempre avere un contenuto, dire qualcosa, una lettera senza contenuto
credo non sia concepibile. Bisogna, dunque, accertarsene.
L’operazione può essere inquietante. Un tale aprì una lettera e,
trovandola vuota, svenne, era indirizzata proprio a lui (ci sono tipi
che aprono lettere destinate ad altri e ovviamente costoro sono meno
sensibili, o sensibili in modo molto diverso, rispetto ai contenuti).
Ricevere una lettera destinata a noi e vederla tutta bianca mette
addosso paura, angoscia. Non si sa cosa voglia, perché sia partita,
perché sia arrivata. Non solo il nero, anche il bianco, come colore,
ha qualcosa di enigmatico.
Una lettera
bianca e vuota può significare tante cose, persino le più
divaricate e repugnanti tra di loro. Più o meno consapevolmente,
nessuno ama trovarsi di fronte ad un evento così, che lo costringe a
sforzarsi, a mettere in campo l’immaginazione, e chi ama una tale
fatica (l’immaginazione, checché se ne dica, è un esercizio
faticoso)? Però una lettera può essere bianca e non avere contenuto
o nessun contenuto apparente, solo perché è e vuole essere
innanzitutto se stessa, una lettera nella sua forma pura e perfetta,
una bianchezza che così diviene, già di per sé, il contenuto. Un
contenuto di questo tipo sarà leggero e forse anche svagato. Chi
l’apre la richiuda, quella lettera potrebbe prendere vento e
sfarfallare via, leggera come è, non vi pare?
Una volta
una lettera arrossì, un evento davvero straordinario anche se non
del tutto eccezionale. Accadde perché, abbracciata al vento, era
caduta nel fuoco. Arrossì e sparì via, senza rivelare nulla delle
cose che conteneva. Si dimostrò una lettera molto riservata, e
questo piace molto, nelle lettere. La persona che l’attendeva però
pianse, era certa che dentro ci fossero cose importanti per lui: era,
forse, un presuntuoso. Sempre, di norma, le lettere mute, o sparite,
o anche rubate, immaginiamo contengano cose importanti, assolutamente
importanti; non solo per noi ma per tutti, oggettivamente, e non ci
piace essere, in questo, contraddetti. Quel tale ne era tanto più
sicuro in quanto, diceva, la lettera era diretta a lui e lui di sé
pensava (come abbiamo detto) di essere tale da meritare solo cose
importanti. “Ma come possono essere importanti, se sono sparite nel
nulla così? Avrebbero pure dovuto lasciare una traccia, un
segnale!”, qualcuno si affrettò a insinuargli. Questo qualcuno era
stato, fino a quel momento, amico di colui che piangeva e si
disperava; anzi, “il suo migliore amico”, come gli ripeteva
spesso (e faceva sapere anche agli altri). Ora l’antica amicizia
si ruppe. Si spezzò, proprio, irreparabilmente: per chi non lo
sappia, mentre le lettere, se cadono nel fuoco, arrossiscono, le
amicizie possono solo spezzarsi, inutile chiedere perché, è così.
E quando si spezzano non si riattaccano più, è difficilissimo farle
riattaccare. Le terrecotte, e anche le porcellane, possono essere
riattaccate, magari con difficoltà e mostrando per sempre la
cicatrice della crepatura, il cretto che il mercante cercherà invano
di negare, di nascondere, quanto meno di minimizzare. Le amicizie non
si riattaccano più, le loro rotture sono irreconciliabili, ed è per
questo che i mercanti non trattano la merce delle amicizie: sono
troppo fragili e rendono poco, in confronto con gli investimenti
fatti per farle nascere e crescere. Si capisce che le amicizie siano
rare, e siano rare anche le lettere tra amici. Se ne parla spesso,
vengono decantate, ma sfido chiunque a produrre, esibire la lettera
di un amico, di un vero amico che abbia scritto a quello lì, a quel
tale, una vera lettera. Forse succedeva un tempo, ma io ho sempre
dubitato che si trattasse di lettere tra veri amici, io le ho lette
sempre come false, piene di ipocrisia e di vanità. Ho sempre odiato
gli epistolari, monumenti alla propria narcisistica importanza.
Comunque,
una amicizia in frantumi è orribile da vedere. I lembi dove c’è
stata la rottura sono taglientissimi. E’ strano come un’amicizia,
quando è così spezzata, divenga tanto pericolosa; molti dicono che
è capace di fare molto male, evitano di averci a che fare, una
amicizia spezzata è sempre anche evitata. Invece una lettera, per
quanto stracciata o appallottolata, per quanto respinta al mittente,
è ancora accarezzata, palpata, fors’anche amata. Questa è una
differenza molto importante. Alcuni fingono di non vederla o magari
non se ne accorgono proprio, e questi sbagliano, sono particolarmente
da compiangere.
Una lettera
rotta non arriva più. Lascia dietro di sé curiosità, e persino un
po’ di nostalgia. Vi sono persone che, senza confessarselo, in
fondo al cuore sono sicure che una lettera non arrivata è più
importante di una lettera invece arrivata e che se ne stia, dopo
letta, abbandonata sul bordo del tavolo o sul bracciolo della
poltrona: ridotte a questo punto, sono poche le lettere da
considerare ancora importanti, mentre la mente può vagare
nell’immaginazione, almanaccare su quanto importante sia l’altra
lettera, quella che si aspettava e non è arrivata, magari (senza che
noi lo sospettiamo, la cosa potrebbe deluderci) perché non è
nemmeno partita. Questa lettera immaginaria, su cui noi
fantastichiamo inutilmente, pensiamo fosse scritta a caratteri d’oro,
oppure pesanti come il piombo. L’aspettiamo ancora, la desideriamo,
pur sapendo benissimo, in fondo al cuore, che non arriverà. Noi
l’aspetteremo sempre.
Non vi
accade mai, per caso, di ricordare di aver visto per la strada, o
altrove, un frammento di lettera, un pezzetto di lettera, leggero e
frusciante, abbandonato per terra? Vi ricorderete allora anche di
aver avuto la irresistibile tentazione di chinarvi e raccoglierlo. E’
uno di quei comportamenti che più ci fanno provare sensi di colpa: e
non c’è nulla come il senso di colpa che affratelli, faccia
sentire tutti partecipi della stessa condizione (ciascuno - ciascuno
che abbia provato sensi di colpa - teme che l’altro possa rivelare
qualcosa che certamente, come ci dice un presentimento interno, lui
sa di noi - qualcosa di disdicevole - esattamente come noi sappiamo
che faremmo, se fossimo al suo posto). Anche voi avrete provato una
volta la tentazione di raccogliere il frammento di lettera in cui vi
siete imbattuti. Magari per un senso di gelosia - nella curiosità
c’è un pizzico di gelosia - per quello che vediamo destinato non a
noi; a uno sconosciuto, persino. Vi sarete, però, trattenuti.
Qualcuno
che ha ceduto alla tentazione ha cercato anche di decifrare quel che
era scritto sul frammento. Ma le parole, o i mozziconi di parole, su
questi frammenti sono tracciati, inspiegabilmente, in diagonale, di
traverso oppure dall’alto verso il basso o viceversa, e quindi sono
illeggibili, incomprensibili. Ci abbandoniamo alle più vaghe
congetture, chissà cosa daremmo per riuscire nell’impresa.
Rigiriamo il frammento di carta, lo mettiamo controluce, lo stendiamo
per bene sul palmo della mano. Niente, i geroglifici non si sciolgono
in parole, restano muti e maligni, per sempre. Qualche volta, allora,
ci prende un po’ di imbarazzo (che è la copia minima del senso di
colpa). Trasaliamo, ci vergogniamo sospettando che qualcuno ci stia
osservando. Essere colti in flagrante con un frammento di lettera in
mano, mentre cerchiamo di leggerlo, ci è intollerabile. E’ molto
peggio che essere sorpresi mentre stiamo leggendo una vera lettera,
completa della firma e tutto: questo potrebbero ben farlo tutti, anzi
lo hanno già fatto tutti, con un piacere soddisfatto e un po’
facile. Ma i frammenti! Imbarazzatissimi, gettiamo via il triangolino
di carta, oppure fingiamo di essere intenti ad altro. Spesso, la
notte dopo, restiamo un po’ di tempo, nel buio, a occhi aperti nel
rimorso mentre l’oscurità della stanza sembra infittirsi di altri
occhi, estranei, che ci spiano. La mente è occupata ossessivamente
dagli sparsi indizi di parole strappate al frammento; quelli si
dilatano, si moltiplicano, si disperdono e svolazzano da ogni parte.
L’alba arriva come una fastidiosa salvezza. Il lampeggiare di
bianco che dall’angolo lontano della stanza ci ossessionava
(sembrava il frammento più grosso della lettera, che ci stesse
aspettando per chissà quale rendiconto) è invece un filo di luce
che filtra dalla finestra e macchia un mobile, un giornale gettato in
terra. Quando ce ne rendiamo conto, tiriamo un sospirone, ma è
comunque tardi.
Una lettera
arriva sempre da lontano. Lo presumiamo, necessariamente: non
sappiamo quasi mai da dove, ma sicuramente arriva da lontano. Lo
desideriamo ardentemente, non sapremmo che farcene di una lettera che
sia partita da vicino, da dietro casa. Ci sentiremmo defraudati,
violentati. Anche una lettera che abbiamo letto e poi stracciato in
minutissimi pezzi, in un accesso di rabbia, anche questa arrivava di
lontano. La cosa stupefacente - non c’è nessuno che non l’abbia
sperimentata - è che appena l’abbiamo strappata, appena l’abbiamo
gettata via, paonazzi per la stizza, e i pezzi hanno volteggiato a
terra come foglie in autunno, sentiamo che quella lettera non era
veramente stata inviata da quella tal persona che conosciamo bene,
con la quale avevamo da tempo uno scambio di corrispondenza: no,
quella era una lettera misteriosissima, partita da chissà dove,
scritta e firmata da chissà chi, da un tempo e un luogo estranei.
Probabilmente non era nemmeno destinata a noi. Poiché l’abbiamo
rifiutata e anche stracciata, e poiché ci sentiamo per questo in
colpa, ecco che cerchiamo di liberarcene, negandola. Guardiamo
stupiti i frammenti, le striscioline bianche infilate e nascoste nei
posti più incredibili. Non riusciamo a credere che sia la stessa
lettera di prima. E’ proprio un’altra lettera. E’ stata scritta
chissà quando e da chi, i caratteri sono illeggibili, impossibile
ricostruire cosa vi fosse scritto.
Io sono
contrario a stracciare le lettere. Le lettere vanno conservate
accuratamente. “Ma le lettere conservate sono pericolose”, mi
dice un tale, sono come piante esotiche, proliferanti e carnivore,
di quelle che nei film dell’orrore mangiano gli uomini dopo averli
strangolati o dissanguati. Va bene, lo ammettiamo, le lettere
conservate sono insidiose per chi le conserva, ma perseguitano anche
chi le scrisse. Gli possono ricadere addosso, lo ricattano. Hanno la
straordinaria proprietà di balzare alla vista nei momenti più
impensati. Quando meno te l’aspetti ecco che una lettera
conservata, ma dimenticata, ti si apre dinanzi agli occhi,
scricchiolando lassù nello sforzo di aprirsi (chi è che l’apre,
con mani invisibili ma vendicative?). Tracciate in sbieco, ci sono
parole che ti fanno sanguinare l’anima. “Non ti dimenticherò
mai”, oppure: “Ti ho scoperto, con le tue bugie!”. E tu ti
chiedi chi sia mai la persona che non ti dimenticherà mai, o quali
bugie hai detto, e a chi, da esserti ora rinfacciate. Ma sei, ancora
una volta, falso, perché come sono andate certe cose lo sai
benissimo, e la coscienza ti rimorde da tempo. La lettera riesce solo
a farla sanguinare di nuovo.
O
meglio: quella persona tu l’hai dimenticata, hai voluto proprio
dimenticartene, e ora ti opprime il pensiero che lei, da chissà
quale parte del mondo, ancora ti ricordi, invece, e stia pensando a
te. Vorresti tranquillizzarti, ma sai benissimo che non è vero, sai
che lei sta ricordando - ricordando non te, ma quel suo
momento antico - con il dolore della nostalgia, che è uno dei dolori
più antichi e solenni. Hai fatto di tutto, tu, per dimenticarla, da
ipocrita, ma quella persona à meglio, molto meglio di te:
generosamente, elegantemente, sa ricordare, senza aver bisogno di
ricordare te.
E la bugia?
Quella - è davvero curioso - la ricordi benissimo. Come ricordiamo
le nostre bugie! E’ incredibile. Essendo bugie, dovrebbero essere
labili, perché costruite sul nulla, su ciò che non è, e dunque
pronte ad annegarsi nel gran lago stagnante del tempo, dove sono
sepolte le carcasse di tante cose, comprese tante verità: ah!, le
immagini ferrigne, dure, pesantissime, intrasportabili, che assieme
alle leggere bugie, stranamente, giacciono tranquille! Perché mai
vanno e giacciono assieme, ignorandosi a vicenda, verità e bugie? E
chi lo sa? Ma sì, le bugie hanno un’enorme capacità di farsi
ricordare. Hanno una pelle durissima, non si lasciano consumare né
digerire. Fanno male, sono spigolose.
Quel che è
peggio, le lettere conservate hanno sempre una frase del tizio che tu
vorresti non ti si parasse più davanti. Ecco perché io scrivo
pochissime lettere, ho paura che qualcuno, solo leggendole, arrivi a
detestarmi. Ci sono persone che addirittura non hanno mai scritto una
lettera. Altre, invece, ne hanno scritte moltissime. C’è da
giurare che non hanno mai scritto una cosa vera, una sola verità,
nelle tante, tantissime lettere scritte, affrancate e regolarmente
spedite. Una lettera, in fin dei conti, è fatta per nascondere la
verità. Quando uno comincia a scrivere una lettera, dentro è come
se gli si serrasse il cielo. Il suo spirito, umido e rugiadoso,
fertile e disponibile fino a un istante prima, appena lui comincia a
scrivere si dissecca e impallidisce. Invece di spaziare su prati
freschi e molli come dopo una pioggia di primavera, si ricopre di
polvere e ceneri vaganti, portate qua e là dal vento, aride e
sperdute, che non vedranno mai spuntare sotto di sé né una
immagine, né un ricordo, né un avvenimento degno di nota, di
menzione. E lì, il nostro scrittore di lettere si perde, felice in
definitiva di perdersi; imprecando addirittura se, per balzi e
strappi, si dovesse trovare a lasciare alle sue spalle una parola,
una riga, come uno di quei sassolini che Pollicino faceva cadere
dietro di sé, per fuggire all’Orco e ritrovare la via di casa.
Una
lettera, insomma, è davvero un mistero. Come questa lettera, ecco,
che giace davanti a voi, delicata e terribile, e vi sfida. Vi sfida
ad aprirla, a spezzarne la busta e insieme la trama, a penetrarvi
dentro, a violentarla oppure ad abbandonarvi nelle sue pieghe, nelle
sue fruscianti pagine.
Ma è solo
una lettera, infine, che diamine.
Angiolo Bandinelli
2001-2006