lunedì 31 dicembre 2012


ROBERT LOWELL
(Boston, 1917-1977)

traduzione di Angiolo Bandinelli

IL FRATELLO DI LEI, MORTO


Il Leone di S. Marco sullo scudo invetriato
della finestra s'accende, mentre la notte
incanta chiglie oscillanti ai suoi terrori
                                   e oscura
i tuoi occhi lontani, arsi dal vento -
ahi!,
il tuo ritratto, nella ritorta cornice d'alpacca,
specchia il tramonto come un drago. Resta
luce quanto basta a vederti, tra la patina.
                                   Donare
la vita t'ha più stretto agli amici;
sì, ti ha portato a casa. Quel che finisce è bene:
Achille, morto, è più grande che vivo;

ti ho in mente come avrei voluto vivessi,
un ibernante drago. Troppo breve l'estate,
quando andavamo ai picnic coi binocoli
e le Guide in legature rinsecchite, lassù al Forte
sullo scabro Sheepscot ( gli aironi, e sui pendii
le cicute) a scrutare gli uccelli. Quell'idillio
ti riporto, Fratello. O fu anche altro?
Ricordi le cavalcate, quando di sprone
sventrasti
quella biscia di un metro, tra i ginepri?
Babbo la spiaccicò alla neviera, sulla porta.

Poi tu crescesti; ti abbandonai a te stesso.
Dimenticheremo il ventitré d'agosto
- mamma e le cameriere in auto a Stowe
e le lievi tendine giù tirate, basse
che alcuno ci vedesse; né afferrasse
la tua parola sibilante, falsa
come Cressida. Espìino le nostre morti:
le dita, sulla tua dragona, vivono
e Speranza, che con la grazia offusca
la mia chiarezza, s'ancorerà alle strette
della tua faccia.
La Packard di mio marito! Il viale
stride...

II

Il ghiaccio fonde, la marea ne trascina
i blocchi contro le lance che sciabordano
sotto gli incrociatori - la flotta di mio fratello.
Il gas esce dai becchi del fornello, appanna
il volto sulla bottiglia che racchiude
la "Strega d'Acqua", il canotto
che mio fratello incagliò e abbandonò
                                 a rodersi
il cuore presso il Faro di Boston.
Fratello,
io t'ho serbato, lì, nella neviera
della mia mente -
si scioglie il ghiaccio...le nostre dita si serrano
sopra la barra. Sbandiamo nella schiuma,

le nostre vele - lo spinnaker, la randa -
dicono i colori d'arcobaleno; ma s'afflosciano
se cade il vento, e la boa si allontana...
Il suo bastone ticchetta alla soglia del mulino,
sfrega un cerino, un altro, un altro ancora -
oscuro il Signore, ed è Santo il Suo nome;
per le mie mani, nelle Sue! I fornelli
cantano come teiera, il nickel specchia
la tua squadriglia al Pontile Stigio.
Fratello,
la rada! Gli incrociatori silurati in fiamme,

i riflettori delle lance guizzano
tutto intorno ai bersagli. Tu sei nero. Gridi
con la destra spezzata chiusa a coppa. Sì,
il tuo fischio
tra lo scroscio dell'acqua: presto, il ghiaccio
si scioglie!

Il vento muore nelle vele. Fu una corsa
a fil di vento - ma la nostra vela
è ora parte di morte. Fratello,
una città del New England è morte e incesto
e vidi tutto. Dissi:
la vita, io la posseggo. Fratello, il cuore mio
corre verso spazi marini - noi siamo senza fiato.

Da "Poems, 1938-1949


lunedì 24 dicembre 2012



LETTERA


Carissimi,
questa lettera è, alla lettera, una lettera. Essere una lettera, solamente una lettera, è pur sempre una cosa complicata, non ci si immagina quanto possa essere complicata, una lettera. Dentro quel suo involucro pallido e anonimo, ogni lettera è unica. Le lettere sono diverse una dall’altra. Questa, per esempio, è una lettera dall’aspetto delicato (altre, invece, sono rozze, di grana grossa) e un po’ fragile. Ha gli spigoli avvizziti, non belli tesi come quando la busta e i fogli vennero comprati in cartoleria. Tutto ciò ci dice - dovrebbe garantirci - che si tratta di una lettera partita. Nessuna meraviglia, tutte le lettere devono partire. Devono anche arrivare, quando una lettera non arriva ci se ne preoccupa, si può entrare in terribile ansia e fare cose strane. Deve arrivare a destinazione, una lettera: è il suo destino (scusate il bisticcio) ed è giusto, è destino di ciascuno di noi - non solo delle lettere - arrivare a destinazione. Ma a un certo punto questa lettera si è smarrita, l’hanno dovuta accompagnare a domicilio. Anzi, hanno dovuto proprio portarla a mano. Quelli che così l’hanno compiaciuta - tanto da farle raggiungere, sia pure per vie traverse, la sua propria destinazione, e dunque farle adempiere al suo naturale destino - erano però anche gente sospettosa. Prima di farla arrivare a destinazione hanno titubato. Non hanno osato aprirla. Però si sono insistentemente, sfacciatamente, chiesti cosa contenesse: “Chissà che dice, qua dentro”, e l’hanno palpata, con mano rabbiosa. Non è che facessero qualcosa di indebito. Una lettera infatti dovrebbe sempre avere un contenuto, dire qualcosa, una lettera senza contenuto credo non sia concepibile. Bisogna, dunque, accertarsene. L’operazione può essere inquietante. Un tale aprì una lettera e, trovandola vuota, svenne, era indirizzata proprio a lui (ci sono tipi che aprono lettere destinate ad altri e ovviamente costoro sono meno sensibili, o sensibili in modo molto diverso, rispetto ai contenuti). Ricevere una lettera destinata a noi e vederla tutta bianca mette addosso paura, angoscia. Non si sa cosa voglia, perché sia partita, perché sia arrivata. Non solo il nero, anche il bianco, come colore, ha qualcosa di enigmatico.

Una lettera bianca e vuota può significare tante cose, persino le più divaricate e repugnanti tra di loro. Più o meno consapevolmente, nessuno ama trovarsi di fronte ad un evento così, che lo costringe a sforzarsi, a mettere in campo l’immaginazione, e chi ama una tale fatica (l’immaginazione, checché se ne dica, è un esercizio faticoso)? Però una lettera può essere bianca e non avere contenuto o nessun contenuto apparente, solo perché è e vuole essere innanzitutto se stessa, una lettera nella sua forma pura e perfetta, una bianchezza che così diviene, già di per sé, il contenuto. Un contenuto di questo tipo sarà leggero e forse anche svagato. Chi l’apre la richiuda, quella lettera potrebbe prendere vento e sfarfallare via, leggera come è, non vi pare?

Una volta una lettera arrossì, un evento davvero straordinario anche se non del tutto eccezionale. Accadde perché, abbracciata al vento, era caduta nel fuoco. Arrossì e sparì via, senza rivelare nulla delle cose che conteneva. Si dimostrò una lettera molto riservata, e questo piace molto, nelle lettere. La persona che l’attendeva però pianse, era certa che dentro ci fossero cose importanti per lui: era, forse, un presuntuoso. Sempre, di norma, le lettere mute, o sparite, o anche rubate, immaginiamo contengano cose importanti, assolutamente importanti; non solo per noi ma per tutti, oggettivamente, e non ci piace essere, in questo, contraddetti. Quel tale ne era tanto più sicuro in quanto, diceva, la lettera era diretta a lui e lui di sé pensava (come abbiamo detto) di essere tale da meritare solo cose importanti. “Ma come possono essere importanti, se sono sparite nel nulla così? Avrebbero pure dovuto lasciare una traccia, un segnale!”, qualcuno si affrettò a insinuargli. Questo qualcuno era stato, fino a quel momento, amico di colui che piangeva e si disperava; anzi, “il suo migliore amico”, come gli ripeteva spesso (e faceva sapere anche agli altri). Ora l’antica amicizia si ruppe. Si spezzò, proprio, irreparabilmente: per chi non lo sappia, mentre le lettere, se cadono nel fuoco, arrossiscono, le amicizie possono solo spezzarsi, inutile chiedere perché, è così. E quando si spezzano non si riattaccano più, è difficilissimo farle riattaccare. Le terrecotte, e anche le porcellane, possono essere riattaccate, magari con difficoltà e mostrando per sempre la cicatrice della crepatura, il cretto che il mercante cercherà invano di negare, di nascondere, quanto meno di minimizzare. Le amicizie non si riattaccano più, le loro rotture sono irreconciliabili, ed è per questo che i mercanti non trattano la merce delle amicizie: sono troppo fragili e rendono poco, in confronto con gli investimenti fatti per farle nascere e crescere. Si capisce che le amicizie siano rare, e siano rare anche le lettere tra amici. Se ne parla spesso, vengono decantate, ma sfido chiunque a produrre, esibire la lettera di un amico, di un vero amico che abbia scritto a quello lì, a quel tale, una vera lettera. Forse succedeva un tempo, ma io ho sempre dubitato che si trattasse di lettere tra veri amici, io le ho lette sempre come false, piene di ipocrisia e di vanità. Ho sempre odiato gli epistolari, monumenti alla propria narcisistica importanza.

Comunque, una amicizia in frantumi è orribile da vedere. I lembi dove c’è stata la rottura sono taglientissimi. E’ strano come un’amicizia, quando è così spezzata, divenga tanto pericolosa; molti dicono che è capace di fare molto male, evitano di averci a che fare, una amicizia spezzata è sempre anche evitata. Invece una lettera, per quanto stracciata o appallottolata, per quanto respinta al mittente, è ancora accarezzata, palpata, fors’anche amata. Questa è una differenza molto importante. Alcuni fingono di non vederla o magari non se ne accorgono proprio, e questi sbagliano, sono particolarmente da compiangere.

Una lettera rotta non arriva più. Lascia dietro di sé curiosità, e persino un po’ di nostalgia. Vi sono persone che, senza confessarselo, in fondo al cuore sono sicure che una lettera non arrivata è più importante di una lettera invece arrivata e che se ne stia, dopo letta, abbandonata sul bordo del tavolo o sul bracciolo della poltrona: ridotte a questo punto, sono poche le lettere da considerare ancora importanti, mentre la mente può vagare nell’immaginazione, almanaccare su quanto importante sia l’altra lettera, quella che si aspettava e non è arrivata, magari (senza che noi lo sospettiamo, la cosa potrebbe deluderci) perché non è nemmeno partita. Questa lettera immaginaria, su cui noi fantastichiamo inutilmente, pensiamo fosse scritta a caratteri d’oro, oppure pesanti come il piombo. L’aspettiamo ancora, la desideriamo, pur sapendo benissimo, in fondo al cuore, che non arriverà. Noi l’aspetteremo sempre.

Non vi accade mai, per caso, di ricordare di aver visto per la strada, o altrove, un frammento di lettera, un pezzetto di lettera, leggero e frusciante, abbandonato per terra? Vi ricorderete allora anche di aver avuto la irresistibile tentazione di chinarvi e raccoglierlo. E’ uno di quei comportamenti che più ci fanno provare sensi di colpa: e non c’è nulla come il senso di colpa che affratelli, faccia sentire tutti partecipi della stessa condizione (ciascuno - ciascuno che abbia provato sensi di colpa - teme che l’altro possa rivelare qualcosa che certamente, come ci dice un presentimento interno, lui sa di noi - qualcosa di disdicevole - esattamente come noi sappiamo che faremmo, se fossimo al suo posto). Anche voi avrete provato una volta la tentazione di raccogliere il frammento di lettera in cui vi siete imbattuti. Magari per un senso di gelosia - nella curiosità c’è un pizzico di gelosia - per quello che vediamo destinato non a noi; a uno sconosciuto, persino. Vi sarete, però, trattenuti.

Qualcuno che ha ceduto alla tentazione ha cercato anche di decifrare quel che era scritto sul frammento. Ma le parole, o i mozziconi di parole, su questi frammenti sono tracciati, inspiegabilmente, in diagonale, di traverso oppure dall’alto verso il basso o viceversa, e quindi sono illeggibili, incomprensibili. Ci abbandoniamo alle più vaghe congetture, chissà cosa daremmo per riuscire nell’impresa. Rigiriamo il frammento di carta, lo mettiamo controluce, lo stendiamo per bene sul palmo della mano. Niente, i geroglifici non si sciolgono in parole, restano muti e maligni, per sempre. Qualche volta, allora, ci prende un po’ di imbarazzo (che è la copia minima del senso di colpa). Trasaliamo, ci vergogniamo sospettando che qualcuno ci stia osservando. Essere colti in flagrante con un frammento di lettera in mano, mentre cerchiamo di leggerlo, ci è intollerabile. E’ molto peggio che essere sorpresi mentre stiamo leggendo una vera lettera, completa della firma e tutto: questo potrebbero ben farlo tutti, anzi lo hanno già fatto tutti, con un piacere soddisfatto e un po’ facile. Ma i frammenti! Imbarazzatissimi, gettiamo via il triangolino di carta, oppure fingiamo di essere intenti ad altro. Spesso, la notte dopo, restiamo un po’ di tempo, nel buio, a occhi aperti nel rimorso mentre l’oscurità della stanza sembra infittirsi di altri occhi, estranei, che ci spiano. La mente è occupata ossessivamente dagli sparsi indizi di parole strappate al frammento; quelli si dilatano, si moltiplicano, si disperdono e svolazzano da ogni parte. L’alba arriva come una fastidiosa salvezza. Il lampeggiare di bianco che dall’angolo lontano della stanza ci ossessionava (sembrava il frammento più grosso della lettera, che ci stesse aspettando per chissà quale rendiconto) è invece un filo di luce che filtra dalla finestra e macchia un mobile, un giornale gettato in terra. Quando ce ne rendiamo conto, tiriamo un sospirone, ma è comunque tardi.

Una lettera arriva sempre da lontano. Lo presumiamo, necessariamente: non sappiamo quasi mai da dove, ma sicuramente arriva da lontano. Lo desideriamo ardentemente, non sapremmo che farcene di una lettera che sia partita da vicino, da dietro casa. Ci sentiremmo defraudati, violentati. Anche una lettera che abbiamo letto e poi stracciato in minutissimi pezzi, in un accesso di rabbia, anche questa arrivava di lontano. La cosa stupefacente - non c’è nessuno che non l’abbia sperimentata - è che appena l’abbiamo strappata, appena l’abbiamo gettata via, paonazzi per la stizza, e i pezzi hanno volteggiato a terra come foglie in autunno, sentiamo che quella lettera non era veramente stata inviata da quella tal persona che conosciamo bene, con la quale avevamo da tempo uno scambio di corrispondenza: no, quella era una lettera misteriosissima, partita da chissà dove, scritta e firmata da chissà chi, da un tempo e un luogo estranei. Probabilmente non era nemmeno destinata a noi. Poiché l’abbiamo rifiutata e anche stracciata, e poiché ci sentiamo per questo in colpa, ecco che cerchiamo di liberarcene, negandola. Guardiamo stupiti i frammenti, le striscioline bianche infilate e nascoste nei posti più incredibili. Non riusciamo a credere che sia la stessa lettera di prima. E’ proprio un’altra lettera. E’ stata scritta chissà quando e da chi, i caratteri sono illeggibili, impossibile ricostruire cosa vi fosse scritto.

Io sono contrario a stracciare le lettere. Le lettere vanno conservate accuratamente. “Ma le lettere conservate sono pericolose”, mi dice un tale, sono come piante esotiche, proliferanti e carnivore, di quelle che nei film dell’orrore mangiano gli uomini dopo averli strangolati o dissanguati. Va bene, lo ammettiamo, le lettere conservate sono insidiose per chi le conserva, ma perseguitano anche chi le scrisse. Gli possono ricadere addosso, lo ricattano. Hanno la straordinaria proprietà di balzare alla vista nei momenti più impensati. Quando meno te l’aspetti ecco che una lettera conservata, ma dimenticata, ti si apre dinanzi agli occhi, scricchiolando lassù nello sforzo di aprirsi (chi è che l’apre, con mani invisibili ma vendicative?). Tracciate in sbieco, ci sono parole che ti fanno sanguinare l’anima. “Non ti dimenticherò mai”, oppure: “Ti ho scoperto, con le tue bugie!”. E tu ti chiedi chi sia mai la persona che non ti dimenticherà mai, o quali bugie hai detto, e a chi, da esserti ora rinfacciate. Ma sei, ancora una volta, falso, perché come sono andate certe cose lo sai benissimo, e la coscienza ti rimorde da tempo. La lettera riesce solo a farla sanguinare di nuovo.

O meglio: quella persona tu l’hai dimenticata, hai voluto proprio dimenticartene, e ora ti opprime il pensiero che lei, da chissà quale parte del mondo, ancora ti ricordi, invece, e stia pensando a te. Vorresti tranquillizzarti, ma sai benissimo che non è vero, sai che lei sta ricordando - ricordando non te, ma quel suo momento antico - con il dolore della nostalgia, che è uno dei dolori più antichi e solenni. Hai fatto di tutto, tu, per dimenticarla, da ipocrita, ma quella persona à meglio, molto meglio di te: generosamente, elegantemente, sa ricordare, senza aver bisogno di ricordare te.

E la bugia? Quella - è davvero curioso - la ricordi benissimo. Come ricordiamo le nostre bugie! E’ incredibile. Essendo bugie, dovrebbero essere labili, perché costruite sul nulla, su ciò che non è, e dunque pronte ad annegarsi nel gran lago stagnante del tempo, dove sono sepolte le carcasse di tante cose, comprese tante verità: ah!, le immagini ferrigne, dure, pesantissime, intrasportabili, che assieme alle leggere bugie, stranamente, giacciono tranquille! Perché mai vanno e giacciono assieme, ignorandosi a vicenda, verità e bugie? E chi lo sa? Ma sì, le bugie hanno un’enorme capacità di farsi ricordare. Hanno una pelle durissima, non si lasciano consumare né digerire. Fanno male, sono spigolose.

Quel che è peggio, le lettere conservate hanno sempre una frase del tizio che tu vorresti non ti si parasse più davanti. Ecco perché io scrivo pochissime lettere, ho paura che qualcuno, solo leggendole, arrivi a detestarmi. Ci sono persone che addirittura non hanno mai scritto una lettera. Altre, invece, ne hanno scritte moltissime. C’è da giurare che non hanno mai scritto una cosa vera, una sola verità, nelle tante, tantissime lettere scritte, affrancate e regolarmente spedite. Una lettera, in fin dei conti, è fatta per nascondere la verità. Quando uno comincia a scrivere una lettera, dentro è come se gli si serrasse il cielo. Il suo spirito, umido e rugiadoso, fertile e disponibile fino a un istante prima, appena lui comincia a scrivere si dissecca e impallidisce. Invece di spaziare su prati freschi e molli come dopo una pioggia di primavera, si ricopre di polvere e ceneri vaganti, portate qua e là dal vento, aride e sperdute, che non vedranno mai spuntare sotto di sé né una immagine, né un ricordo, né un avvenimento degno di nota, di menzione. E lì, il nostro scrittore di lettere si perde, felice in definitiva di perdersi; imprecando addirittura se, per balzi e strappi, si dovesse trovare a lasciare alle sue spalle una parola, una riga, come uno di quei sassolini che Pollicino faceva cadere dietro di sé, per fuggire all’Orco e ritrovare la via di casa.

Una lettera, insomma, è davvero un mistero. Come questa lettera, ecco, che giace davanti a voi, delicata e terribile, e vi sfida. Vi sfida ad aprirla, a spezzarne la busta e insieme la trama, a penetrarvi dentro, a violentarla oppure ad abbandonarvi nelle sue pieghe, nelle sue fruscianti pagine.

Ma è solo una lettera, infine, che diamine.

Angiolo Bandinelli

2001-2006

venerdì 14 dicembre 2012


Dalla rivista "Cortocircuito", n. 11/12, ottobre 2012


E M E R G E R E


Emergere!
Eccellere!

Emergere?
Perché? Perché emergere?
Perché eccellere? Perché?”

Per me, emergere, eccellere,
è tèndere,
tèndere bene -
tèndere sempre - fremente… -
è tessere,
tessere tele,

è essere vedente
(se tenderete,
vedrete - benché nelle tenebre).

E se…se, per certe elette belvette,
tendere
è prendere lente,
serene
vendette -
(“metterle nel sedere…”).
- ebbene, è legge!

Per me
prenderle nel sedere
è sempre essere perdente”….

Beh, perché? Se permette, prenderle nel sedere…
pere...mele… tre pere… tre mele…
se prese nelle serre, fresche…
E le pesche, ceree,
eh!, perfette perle...beh, vederle...

Che serpente, che fetente!
Per me, è repellente!”

Repellente…fetente… E perché? Se
perfette,
perché perderle? Eh?
Prendétevele, tenétevele strette!

Se le vedeste essere…
merde, dense merde, merde melense, schegge...beh!

Mentre, se le vedrete
essere semente
recente
(che bel vedere, le tènere
mele renette, le pere...)

ebbene, è bene eleggerle -
reggerle erette…
e prenderle nel sedere!
E’ decente, eccellente -
sempre -

Teh! Eccellente per te,
pezzente! Fetente!
Eh… che gente!

Se emergere è
- certe terree, nere sere! -
prenderle nel sedere…
beh… permette? E’ bene perdere.
Perché emergere?”.


Angiolo Bandinelli
Roma, 1998-2010

   

sabato 8 dicembre 2012


ALLIUM SATIVUM

Il bianco, comune o rustico,
ha dimensioni
e aromi più o meno
accentuati - a seconda
di climi e terreni.
La zona
più produttiva, il Polesine.

Quello rosa esibisce
tuniche di tal colore -
o giallo pallido. Precoce,
soffre l’umidità, non si conserva
facilmente, i bulbi
sono grandi e irregolari, il gusto
è delicato e aromatico.
Migliore, quello del sud.

Il rosso? Le coltivazioni
più importanti, a Sulmona
ed a Nubia. Tuniche esterne
bianche e interne rosse,
quello siciliano
è alla base del pesto trapanese – ma l’altro,
color porpora, e ricco
d’oli essenziali, lo usi
vestito.

Trovi diffuso
in Cina e in Giappone
il fistulosum, detto anche
aglio del Galles, di fioriture
importanti e con foglie
aromatiche.

giovedì 6 dicembre 2012



STROFETTE PER LEI

*

vorrei subito qui,
mio amore, morire,
per raggiungerti

la tua immagine, diafana,
si allontana come il vento

mi pesa il fardello
di troppe ossa,
di troppo pianto

*

mi dicono
che sei da qualche parte, in un
posto – laggiù

questo posto io non
lo trovo, nelle mie
carte – geografiche, mentali

eppure
deve essere così – se voglio
nutrire la speranza
di rivederti
ancora

*

giovedì 29 novembre 2012




COMMEMORANDO BENEDETTO CROCE
(da “Il Foglio”)

Il 20 novembre scorso ricorrevano i sessanta anni dalla scomparsa di Benedetto Croce. A Napoli, nello storico palazzo Filomarino - già residenza del filosofo ed oggi sede dell'Istituto filosofico da lui ideato - il Presidente Napolitano ha commemorato la ricorrenza, focalizzando la sua attenzione sul periodo postbellico, quando don Benedetto mostrò sagacia e determinazione anche politica contribuendo fortemente alla ripresa istituzionale del paese. Mi pare che il suo appassionato intervento sia caduto nel vuoto e nel disinteresse. L'oblio di Croce non è un fenomeno transeunte. Croce è inviso a troppi, per ragioni anche opposte. Non è amato dalla Chiesa perché coerentemente laico, ma anche dagli anticlericali o - meglio - dai laicisti, i quali non gli possono perdonare un testo coraggioso e innovativo, “Perché non possiamo non dirci cristiani”. Ma soprattutto Croce è stato detestato da una genia di cosiddetti “superatori”, ingegnatisi in ogni modo per gettarlo giù da un piedistallo egemonico ed ingombrante.

In questo paese che ama sparlarsi addosso celebrando masochisticamente, un anno sì e l'altro pure, la propria scomparsa (“...la morte della patria...”) l'occasione c'era tutta per portare all'attenzione dell'opinione pubblica quella che è invece, a mio modesto giudizio, l'operazione etico-politica più importante che il pensatore avviò e elaborò assieme a Giovanni Gentile: facendo corpo e riassumendo nel loro lavoro la grandezza dell'ambiente culturale napoletano della fine dell'Ottocento, Croce e Gentile ebbero, in parallelo, il merito di disegnare e far accettare quella che potremmo dire l'”ideologia italiana”.

Il Risorgimento e l'unificazione sono stati fenomeni assai complessi, un intreccio di spinte e controspinte, in parte endogene in parte anche esogene, al quale hanno portato i loro contributi soggetti molto diversi. Però occorre risalire ai due filosofi, allevati nella culla della cultura tardoottocentesca e primonovecentesca che si sviluppò a Napoli con Francesco De Sanctis, i fratelli Silvio e Bertrando Spaventa o Arturo Labriola, per vedere definiti e portati in piena luce i lineamenti ideali che poterono interpretare e legittimare, anche o soprattutto in sede interna, la nascita del nuovo Stato. Giovanni Gentile innalzò al livello della moderna filosofia europea, definendoli come suoi veri iniziatori, i pensatori italiani rinascimentali, Bernardino Telesio, Giordano Bruno e Tommaso Campanella, che preannunziano il più maturo Giambattista Vico. Al di là delle sue grandi opere storiche, a Benedetto Croce va il merito di aver puntigliosamente sottoposto al vaglio della critica autori, anche di seconda importanza, dell'ottocento postunitario, individuando in Giosue Carducci l'aedo simbolo di quelle generazioni risorgimentali. Così, se il Piemonte diede all'Unità l'impianto istituzionale/militare sapientemente gestito dal Cavour e Milano vi apportò la solidità di un società civile e produttiva di stampo europeo, toccò alla cultura napoletana l'enorme compito di offrire all'Italia che nasceva una impalcatura ideale d'eccellenza, tale da reggere per un lunghissimo periodo all'erosione della critica e ai colpi della storia. Togliatti ironizzava perché il ministro Croce spesso, durante le interminabili riunioni del consiglio dei ministri, sonnecchiava, svegliandosi di colpo e tendendo le orecchie solo quando si parlava di agricoltura e di riforma agraria. Ma comunisti ed excomunisti di ascendenza togliattiana non possono dimenticare che Togliatti si impadronì di quel retaggio idealistico, rivendicando una continuità storica ed ideale tra Francesco De Sanctis, Benedetto Croce e quel Gramsci che poteva far pensare ad uno sviluppo del marxismo in forma autonoma e nazionale, cui fosse aliena la strettoia leninista e stalinista. All'egemonia del proletariato Gramsci sostituiva l'egemonia dell'intellettuale. Su quelle riflessioni gramsciane Togliatti edificò una teoria per sostituire il suo comunismo, il suo PCI, all'esausto liberalismo delle residue elites politiche e culturali giolittiane, incapaci di comprendere e gestire il presente. Fu una operazione di raffinata intelligenza politica e culturale, su cui si è modellata pressoché tutta la critica letteraria del dopoguerra, tra Asor Rosa e, per dire, Giulio Ferroni. Da questa impostazione deriva, tanto per capirci, la preferenza data all'ortodosso Calvino piuttosto che a uno Sciascia radicale, e la relativa dimenticanza di scrittori di tendenza liberale o comunque non allineati al conformismo progressista, quali un Landolfi o un Flaiano. Qualche iperzelante sostituì a Benedetto Croce Giovanni Gentile, sostenendone la superiorità filosofica. Per me, invece, Croce esprime al massimo il potenziale di una riflessione antidogmatica, antispiritualista e antimetafisica. Amo vedere in lui il più coerente prosecutore - malgré lui-même - di Nietszche: per Croce, l'uomo è tutto nella sua storia, nella sua opera; secondo qualche esegeta crociano (forse Gennario Sasso), nella sua vita, nel fuoco del suo vitalismo interiore. Più laico di così.

sabato 24 novembre 2012



SCIASCIA, UN LAICO, LA CHIESA

da “Il Foglio”

Todo modo” (1974) è forse il romanzo più riflessivo e tormentoso, se non tormentato, di Sciascia: fin dall'epigrafe, quel mirabile passo di Dionigi Aeropagita che sostiene l'impossibilità di dare una definizione della “causa buona di tutte le cose”; causa che è “insieme esprimibile con molte parole, con poche e anche con nessuna”, in quanto di essa “non vi è discorso né conoscenza, poiché tutto trascende in modo soprasostanziale, e si manifesta senza veli e veramente a coloro che trapassano tanto le cose impure che quelle pure (...) e si immergono nella caligine, dove veramente sta, come dice la Scrittura, colui che è sopra tutte le cose...” e così via, negazione dietro negazione, perché quella “causa buona” “non è tenebra e non è luce, non è errore e non è verità...”. Penso che già con questa straordinaria citazione Sciascia voglia avvertirci che le pagine che seguiranno saranno intese a sciogliere un qualche mistero dell'esistere e vivere umano nel suo confronto con l'ineffabile principio “di tutte le cose”: irraggiungibile, infinitamente lontano ma anche presente e incombente. Parla di Dio? Probabile: o forse il laico ed illuminista Sciascia usa l'allucinato testo in modo allusorio, ambiguo e beffardo.

Todo modo” l'ho ripreso in mano, assieme a tutte le opere dello scrittore di Racalmuto, per discuterne ad un recente convegno, curato dalla Associazione "Amici di Sciascia" e svoltosi a Palermo, nel quale si sono affrontati interrogativi molto sciasciani: “Quid est veritas?”, “Quid est religio”?, “Quid est mors”? La trama è, come sempre nei suoi romanzi, scheletrica. Un pittore, di cui non ci è riferito il nome, durante una gita in macchina si imbatte in un “eremo”, “l'Eremo di Zafer 3”. L'eremo è in realtà un albergo, gestito da preti, dove si tengono periodicamente “ritiri spirituali” - per personalità del mondo clericale, politico o affaristico - che diventano occasione per stringere rapporti di affari, o per concedersi riservatissimi intrattenimenti erotici. Sciascia ritrae efficacemente ambienti e situazioni tipiche di quegli anni lontani, con la DC al governo e un boom economico che consentiva facili e spregiudicati arricchimenti. Tra gli ospiti, il pittore intravede anche un “Principe della Chiesa”, un ministro... Ma, ad un certo punto, uno dei partecipanti al ritiro viene ammazzato, ed ecco subito dispiegarsi tutto l'apparato del giallo sciasciano. Al primo assassinio segue un altro. Il pittore ne discute, soprattutto con il gestore dell'albergo, un prete, don Gaetano. E qui il romanzetto giallo si accende di lampi improvvisi, di altezza metafisica, perché la conversazione tra i due è un susseguirsi di sottili giudizi e splendidi concetti. Il don Gaetano affarista, manutengolo e anche un po' ruffiano, si rivela uomo colto e raffinato, ma anche cinico e sarcastico, un tra Montaigne e Rabelais: “Perché, me ne confesso, la contemplazione dell'imbecillità è il mio vizio, il mio peccato... Proprio: la contemplazione...Giulio Cesare Vanini, che è stato bruciato come eretico, riconosceva la grandezza di Dio contemplando una zolla; altri contemplando il firmamento. Io la riconosco dall'imbecille. Non c'è niente di più profondo, di più abissale, di più vertiginoso, di più inattingibile...” Don Gaetano sa di pittura, cita Montale, il “cristiano” Sade, persino Papa Pio II Piccolomini, “un eroe stendhaliano avant la lettre”...

Toto modo” fu criticato aspramente dagli ambienti clericali, l'immagine che dava della Chiesa era inaccettabile. Nel convegno palermitano si è convenuto che in effetti lo scrittore condanna la corruzione della chiesa e dei suoi rappresentanti, rivolgendo le sue preferenze ad una religiosità purificata, per la quale ci si è richiamati anche a Ernesto Buonaiuti, il sacerdote scomunicato e perseguitato in quanto modernista. In questo vario discorrere, Sciascia non si distingue da un comune sentire anticlericale assai diffuso tra l'intellettualità di sinistra, progressista. Ma proprio attraverso la figura di Don Gaetano lo scrittore ci dà un giudizio del ruolo della Chiesa e dei suoi rappresentanti e officianti assai più profonda. “La grandezza della Chiesa - osserva Don Gaetano - la sua transumanità, sta nel fatto di consustanziare una specie di storicismo assoluto: l'inevitabile e precisa necessità, l'utilità sicura, di ogni evento interno in rapporto al mondo, di ogni individuo che la serve e la testimonia, di ogni elemento della sua gerarchia, di ogni mutazione e successione”. Una interpretazione che sarebbe piaciuta ad Ignazio di Loyola, calibrata però subito da un inciso del più puro Pascal: ”Le mie certezze, lei questo non lo sa, sono altrettanto corrosive che i suoi dubbi”. La Chiesa è, in definitiva, “una zattera, la zattera della Medusa, se si vuole; ma una zattera”. Don Gaetano però è anche altro, la sua immagine si rovescia ancora: infatti è un assassino. E, ovviamente, viene assassinato. Il suo uccisore non viene scoperto, la sua morte resta circondata dal dubbio. Non sarà Dionigi l'Areopagita, ma in queste pagine Sciascia sprofonda nella densità del mistero. Vedi un po' in che intrico può cacciarsi un vero laico...

martedì 20 novembre 2012




RADICALI A SAN PANTALEO


Il tempo delle azioni
che ("Lo facciamo noi")
ci usura, ci stanca, ci arrazza,
ci polisce ed ecco brilliamo
stupefatti, tutti belli orgogliosi
di noi stessi, nudini nudini,

si arresta adesso, e folgora:
"Un mese fa, m'hanno letteralmente spogliato.
Ero partito per un viaggetto
(l'occasione è destino, ma però):
rientrati in casa, una borsetta
lucente in terra, soldi sparpagliati
che ti ci sei buttata sopra. A scompisciarmi
- che ne volevi cavare! -
ma sai, mi ci hai fatto divertire.

Poi, dài a litigare con la polizia
quando invece di indagare sul misfatto
mi inquisì, su due piedi, attorno al mio
stato civile, su me e te."

Voi, mo', ridete. Va bene. Ma che altro
ci rappresenta il tempo
che viviamo
e la spesa
spicciola e controversa
che tu, io, ne facciamo
con il nostro concionare
quando ci convochiamo
disutili a noi e al mondo
per fuori uscirne, a prova?

Sarà anche il nostro scontento,
io non lo nego. Ed ora
in questo luogo puro,
tra contrasti, rilassatezze,
ci ritroviamo daccapo a inventare
a Capodanno qualche tiro
"Il papa alza le braccia
sulla stampa bruciata:
tutto è mondo, tutto è Mondo".

Allora, Massimo invia
- un poco per ripicca -
lettere d'America. False
se badi al timbro, al tono
gne gne e brodolone
e contengono tanta zavorra
ma sono vere, vere, vere

perché, me lo sai dire di che
sono fatte (e da lontano, pensa)
se non delle parole inventate
se non dei discorsi promossi
qui, ogni sera rasposa;

ogni tanto - davvero
ogni tanto - scassato
dalle opposte fazioni
di amanti e di amati
(violenze che non cedono,
uniche durano, avvinte)
minaccia di piombare
un vaso dalla terrazza.

Un fiore scivola giù sulla strada:
"Ma sì! ma no! ma sì! ma no! ma sì".


1971 ca.

venerdì 16 novembre 2012


ANTICHI MESTIERI


(da "Il Foglio")

Lo scalpellino

Lo scalpellino siede per terra a gambe aperte e larghe, quasi a novanta gradi. Accanto ha i suoi strumenti, scalpello e mazzuolo, di rado la subbia. La mano sinistra pare la chela di un granchio, con l’indice, il medio e l’anulare stretti sopra lo scalpello, il pollice e il mignolo sotto. La destra impugna il mazzuolo, un massello di ferro a base quadrata di quattro centimetri circa e alto otto-nove centimetri, con un corto manico di legno. Io non ho mai visto uno scalpellino mancino, mancini sono i fannulloni, quelli che non lavorano. Sotto i colpi del mazzuolo, la testa dello scalpello è divenuta liscia, lucida, slabbrata ai bordi. I colpi hanno un suono sordo. Lo scalpello, inclinato di circa 45 gradi, incide la pietra con solchi dritti e regolari, che percorrono il rettangolo della lastra in diagonale a distanza di circa un centimetro l’uno dall’altro, e si arrestano a circa due-tre centimetri dal margine: ne risulterà un bordo continuo successivamente trattato “a bocciarda” con la subbia, che al posto della lama ha una tozza punta arrotondata ed è usata piuttosto dagli scultori. I solchi dello scalpello ricordano le onde di sabbia sulla spiaggia battuta dal vento. Le lastre così lavorate vengono collocate in incastro, a formare il piano della strada. Ora la strada sembra una pittura astratta, ma lo scalpellino questo non lo sa. Quando piove ed è tutto bagnato, gli asini e i muli che la percorrono non scivolano e non cadono col rischio di spezzarsi le zampe, dovrebbero essere abbattuti. Il ginocchio sbucciato e sanguinante di un asino caduto formicola di mosche, l’asino è una bestia triste. Passano anche, aggiogati al carro, buoi (che invece sono malinconici) col fiocco rosso pendente tra le narici. Lo zoccolo del bue è diverso da quello degli asini, dei muli e dei cavalli: ha due unghie separate, occorrono due ferri a forma di foglia, uno per unghia. I buoi perdono facilmente i ferri, e questi arrugginiscono per la campagna.

Archeologi inglesi hanno scoperto un sito preistorico dove venivano prodotti chopper, amigdale o punte di freccia: dalla disposizione delle schegge ammonticchiate, apparve evidente che anche l’antichissimo scalpellino era seduto a terra, a gambe aperte. Gustave Courbet, nel 1849, dipinse due quadri aventi a soggetto lo spaccapietre, che però è un mestiere assai diverso dallo scalpellino: lavora infatti tenendo un ginocchio a terra, avvolto in un pezzo di ruvido sacco. A Roma, lo spaccapietre (ma forse è uno scalpellino) lavora i sampietrini, grossi ciottoli di pietra lavica a forma di piramide tronca a base quadrata, con i quali si pavimentano le strade, solo in questa città. Una volta, gli spaccapietre erano galeotti, ora non usa più. I sampietrini vengono infossati in un letto di sabbia, e un tempo erano ribattuti con il mazzapicchio. Il mazzapicchio era un grosso e pesante tronco di legno rinforzato da strisce di ferro e attraversato da due grosse sbarre, sempre di legno, di diseguale lunghezza. Arrivava all’altezza della cintura e lo si impugnava per le due sbarre. Veniva sollevato e lasciato ricadere pesantemente sul sampietrino. In genere, con il mazzapicchio lavoravano due operai: ciascuno aveva il suo, e i due si alternavano ritmicamente nel sollevare l’attrezzo e batterlo giù. E’ un mestiere sparito, anche a Roma. In Italia non si fabbricano più sampietrini, vengono importati dalla Cina, ma sono differenti, tozzi e scabrosi. Hanno sfigurato le strade di Roma.

La scala a pioli

Mariano sapeva fabbricarsi una scala a pioli: c’era una cultura contadina del legno che oggi è scomparsa. Mariano tagliava dalla macchia un tronco ben dritto e della lunghezza necessaria, del diametro di circa quindici centimetri. Con la roncola lo ripuliva della corteccia, cosicché la superficie risultasse liscia e senza asperità, che potrebbero ferire le mani di chi userà la scala. Sempre con la roncola, lo fendeva longitudinalmente, dall’alto in basso, in modo che i due semitronchi, una volta separati, risultassero perfettamente identici l’uno all’altro e potessero fungere da montanti della scala. Sulle loro facce interne, con un grosso succhiello, praticava quindi dei fori, a intervalli regolari. I fori dovevano corrispondersi sui due montanti. Da un’altra parte, intanto, Mariano aveva tagliato, da un altro arbusto, tanti rami di circa due centimetri di diametro ciascuno, della lunghezza adeguata alla larghezza della scala. Siccome questa, per lavorare tra gli ulivi, doveva essere leggera e portatile, la sua larghezza mi pare non superasse, alla base, i quaranta centimetri, restringendosi leggermente all’estremità superiore. I rami, convenientemente spellati e con le due estremità lievemente rastremate, venivano incastrati nei fori praticati nei montanti, da una parte e dall’altra. La scala era fatta, con i suoi pioli. Il legno dei montanti era diverso da quello dei pioli, avevano funzioni diverse. Non so però il nome dei due tipi di legno, Mariano è morto prima che potessi chiederglielo. A questo punto, Mariano immergeva la scala nell’acqua e ve la teneva a lungo. L’acqua faceva gonfiare i legni, che avrebbero aderito perfettamente tra loro, per sempre. Mariano non usava nemmeno un chiodo. Una buona scala a pioli non deve avere nemmeno un chiodo. La scala di Mariano era leggerissima, veniva trasportata facilmente da una pianta all’altra, penetrava delicatamente tra le fronde per la raccolta delle olive o per la potatura. L’ulivo deve essere potato, dice un proverbio, così che la rondine possa volare attraverso le sue fronde. Anni fa, in Umbria venne la gelata, e tutti gli olivi sembravano morti. Il contadino tagliò i grossi tronchi alla base del pedale, l’anno appresso spuntarono i cacchi. Il contadino ne lasciò alcuni, due o tre, o anche cinque, a seconda della grandezza del pedale. Quegli ulivi, oggi, hanno ciascuno più tronchi, ma sottili e bassi, e la raccolta ne viene avvantaggiata.

Farneta

Scale a pioli di antica fabbricazione, sottili e altissime, sono conservate nell’Abbazia di Farneta. Fondata dai benedettini tra il IX e il X secolo e dedicata alla Madonna Assunta, l’Abbazia ha una unusuale forma a T, come molte chiese preromaniche. Secondo l’antica devozione, le sue absidi sono rivolte ad oriente. Quando la scoprii era officiata da un vecchio prete, don Sante Felici, che l’aveva riportata all’antico splendore dopo secoli di incuria e di devastazioni. La facciata attuale è arretrata di quattordici metri rispetto all’originaria, che aveva anche un portico di cui restano poche vestigia. L’edificio venne ridotto alle attuali dimensioni a metà del settecento, alla fine dell’ottocento fu abbattuta la torre campanaria, altri scempi seguirono. Don Sante Felici arrivò a Farneta negli anni ’30, dandosi con amore infinito al ripristino delle sue bellezze. Quando l’ho conosciuto aveva circa ottanta anni, adesso è morto. La sua vita è stata una laboriosa, santificata solitudine. Viveva povero nel casale-canonica annesso alla chiesa, una volta alla settimana si cucinava un bel po’ di pasta, giorno per giorno scaldava quella che gli serviva. Collezionava reperti d’ogni genere trovati o scavati nella campagna intorno. Nel piccolo, bellissimo museo ordinato in nude, fredde stanzette, mostrava con fierezza urne funerarie etrusche, statue romane, terrecotte altomedievali effigianti S.Pietro e S. Paolo, un Cristo risorto del 17^ secolo, una bella acquasantiera, una tomba medievale “alla cappuccina” con tutto lo scheletro, e la copia di uno stampo di quelli usati per fondere le tipiche croci longobarde. L’originale è altrove, al sicuro, ladri hanno visitato la canonica. Lo stampo, quadrato con i lati di circa otto centimetri, ha sulle due facce, in scavo, le sagome della croce latina, con i bracci svasati. Lo scavo è profondo un tre-quattro millimetri. Gli orefici longobardi vi versavano dentro oro o argento. Queste croci longobarde erano bellissime. Nella sagrestia erano anche conservati reperti della seconda guerra mondiale, nella zona si erano avuti combattimenti con i partigiani: elmi tedeschi sforacchiati, bossoli di cannone. Alcuni di quei bossoli, che sono in ottone, erano stati lavorati in forma e per uso di vaso da fiori.

Don Sante Felici era un autodidatta, ma esplorava con grande perizia le cave di sabbia dei dintorni e vi raccoglieva ossa preistoriche. Al Museo paleontologico di Firenze è conservato lo scheletro di un “Elephas Meridionalis” o “Antiquus” del Pleistocene, da lui riesumato. Per questo, era stato nominato sovrintendente onorario per la Toscana. Ne avevano parlato giornali tedeschi, di cui lui teneva esposta una copia. Aveva anche prodotto un dizionario del dialetto cortonese lodato dalla Crusca, e un disco di canti popolari. Quando era arrivato a Farneta, la cripta, sotto l’abside, era interrata da secoli. Lui l’aveva riportata alla luce, svuotandola della terra e degli scheletri e scacciandone le serpi che vi facevano il loro nido. Tozze colonnine d’età romana dividono la cripta in tre celle con volte a botte e a crociera. Una è di granito rosa e proviene da Assuan, due sono di un marmo orientale, un’altra ancora è di marmo ionico. Hanno interessanti capitelli e presentano, scolpiti qua e là, caratteri alfabetici e una figura del mitico Acheloo. C’è anche la stele funeraria di una “Quarta, figlia di Erennio Pompeo liberto”. Il prospetto posteriore dell’Abbazia è un capolavoro, ha tre absidi che sporgono dalla liscia superficie di pietra, nitide come opere di Brancusi, di Max Bill o di Jean Arp. L’architettura romanica creava geometrie di volumi di grande purezza. Bruno Zevi diceva che per riconoscere il romanico basta guardare se la chiesa è asimmetrica nel disegno complessivo e nelle parti: in queste chiese, sovente, gli spazi dell’intercolumnio e quindi anche gli archi tra le colonne sono diversi l’uno dall’altro. L’ottocento positivista fece delle repliche di romanico, ma simmetriche e senza dissonanze, noiosissime. Dietro ripetute, vigorose insistenze del vecchio prete, l’azienda elettrica aveva spostato e allontanato i piloni dell’alta tensione, prima piantati a pochi metri dalla facciata. Il terreno intorno è argilloso. Se ci cammini quando l’argilla è bagnata, questa si attacca alle scarpe in zolle enormi. Don Felici diceva che l’”argilla è amorosa”.

La vanga
La vanga è l’attrezzo principale dei contadini. E’ una lama di ferro triangolare appuntita, una costola verticale la irrobustisce ed evita che si pieghi per la resistenza della terra, della zolla. La costola si prolunga in una sorta di canale sporgente di una dozzina di centimetri, nel quale viene inserito un manico di legno, lungo all’incirca quanto un uomo. Nel manico, a un dieci centimetri sopra la lama, viene inserita una sbarretta di ferro che sporge per una dozzina di centimetri. Il contadino poggia la punta dell’attrezzo in terra, poi con il piede sinistro preme sulla sbarretta e la pressione fa sì che la sottile lama penetri progressivamente nel suolo. Si aiuta l’operazione tirando a sé e facendo oscillare, di tanto in tanto, il manico: così si allarga la fessura nel suolo e si facilita la penetrazione della vanga. Quando tutta la vanga è penetrata nel suolo, il contadino tira a sé con forza il manico, facendo staccare la zolla e rovesciandola, con un movimento analogo a quello che fa l’aratro. Lungo il taglio prodotto dalla vanga il suolo è compatto e lucido, sembra metallico. E’ anche profumato. Un bravo contadino sa usare la vanga in modo che il terreno lavorato abbia un aspetto uniforme, con le zolle regolarmente allineate l’una all’altra, senza accavallamenti disordinati. Se la terra non è stata vangata per lungo tempo, le zolle strappano e portano con sé anche l’erba che vi è cresciuta, e tra zolla e zolla compare un bell’effetto di colori, tra il verde e il bruno. La vanga si usa solo per piccoli orti, giardini, aiole.

Pecione
Pecione ripara le scarpe. Risuola, o rifà i tacchi, ma la maestria emerge nella riparazione delle suole, la risuolatura. Talvolta, quando l’usura è contenuta e il buco è ancora piccolo, lui stesso suggerisce l’applicazione di una pezza. Pecione gira per il quartiere, si ferma dove viene chiamato. Mia madre, soprattutto a causa mia, lo chiama spesso. Per questo, lui suona fiducioso al nostro campanello, quando si trova dalle nostre parti. Mia madre gli mostra il paio di scarpe da riparare, tira un po’ sul prezzo, e lui si posta con le sue carabattole accanto al cancello di casa nostra o all’angolo della strada, vicino alla fontanella. Per il suo lavoro, ha bisogno di acqua. Le fontanelle di Roma sono chiamate “nasoni”, perché l’acqua sgorga da un lungo cannello ricurvo. L’acqua è sempre fresca, un tempo era “Acqua Marcia”, la migliore acqua del mondo. Pecione mette a mollo, sotto il nasone, un pezzo di cuoio - un po’ più grande della suola o del tacco da riparare - ritagliato dal rotolo che porta con sé, legato a una cordicella. Lo ritaglia con la lesina, dalla lama a sguincio affilata come un rasoio. Intanto ha sistemato le cose che aveva a spalla: un seggiolino di paglia, un grosso sacco di pelle con gli attrezzi, il rotolo di cuoio, d’un color tabacco chiaro e ancora le venature superficiali della bestia viva. Ritira il pezzo ammollato, si siede sullo sgabellino e comincia a batterlo col martello su una minuscola incudine delle dimensioni di un piede, ben stretta tra le ginocchia. Il martello dei calzolai ha una forma strana e bellissima. La testa di ferro ha due ali, o penne, lievemente incurvate: una sembra proprio un becco d’anatra fessurato (il martello è detto “a granchio”) e serve per estrarre le bollette, l’altra invece termina in un disco con il quale il calzolaio batte su chiodi e bollette. Pecione batte a lungo il pezzo di cuoio per renderlo più compatto e resistente, e lo adatta alla scarpa rifilandolo tutto intorno con la lesina. Ha strappato via la suola vecchia, la nuova sta lentamente prendendo forma. Sempre con la lesina, scava una millimetrica fessura tutto in giro, a un centimetro dal suo bordo. Estrae quindi dal sacco un grosso fiocco di canapa o refe grezzo da cui separa lunghi filamenti che arrotola in due sottili spaghi passandoli e ripassandoli, con un mezzo guanto di cuoio ammorbidito dall’uso, prima su un blocco di cera rossastra e poi sul logoro grembiulone di pelle. Inserisce quindi un crine di cavallo ad una delle estremità dei due spaghi. Li farà ora scivolare - contemporaneamente, uno da una parte uno dall’altra - nei piccoli fori che viene praticando nella scanalatura con un punteruolo ricurvo. Ripete l’operazione tutto intorno stringendo a sé ogni volta, con forza, gli spaghi, finché la suola è saldamente cucita alla tomaia. Rifinisce poi il bordo con la carta vetrata. Il bambino osserva, gli occhi sgranati. La memoria è un fossile.

Riparare il tacco è operazione molto più semplice. Si applicano sul tacco uno o due strati di cuoio, tagliati anch’essi su misura, e li si imbulletta. Pecione tiene le bollette in bocca per insalivarle e renderle più scorrevoli. Sia sulle suole che sui tacchi appena applicati, Pecione spalma il bordo con un po’ di cera e di vernice, usando un piccolo attrezzo dalla testa gonfia e curva, che ha messo a scaldare sulla fiamma di un candelotto fatto con una lattina. Il calore scioglie la cera e la vernice. L’ultima operazione consisterà nel passare sulla suola o sul tacco una rapida mano di vernice nera o marrone, lucidandola con uno straccetto. La scarpa è tornata proprio come nuova.

L’ombrellaio

L’ombrellaio ha, a tracolla, una grossa cassetta di legno, quadrata o rettangolare, lunga sessanta-settanta centimetri, larga venti-venticinque. E’ chiusa da una stringa di cuoio forato che si incastra in un qualche piolo piantato sul fianco ed è portata a tracolla grazie a una cinta di cuoio o un pezzo di nastro per le persiane. Il legno è scomparso sotto strati di sporcizia grigiastra. Dentro la cassetta, un martello, un tronchesino, due o tre pinze piccole e una un po’ più grande, con le estremità a punta arrotondata, come un becco. Poi, rocchetti di refe, qualche barattolino di colla, un rotolo di fil di ferro, striscioline di latta dei barattoli di pomodoro. Sempre a tracolla, sull’altra spalla, vecchi fusti di ombrello di varie fogge, con o senza il manico, tenuti assieme a fascio. Può anche avere, a piacimento, altri ombrelli integri, sciolti o in un altro mazzo. Gira per il quartiere, quando qualcuno gli porta l’ombrello da aggiustare, lui si siede sopra la sua cassetta dopo averne tirato fuori gli attrezzi. La maggior parte delle rotture da riparare è nelle stecche. Gli ombrelli di oggi sono piccoli, hanno stecche ripiegabili, come il mantice delle spider di lusso, sono rimasti pochi gli ombrelli lunghi, con la stecca unica, generalmente nera, terminante comunque sempre nel pirolino staccabile, che sembra il pedone di un gioco di scacchi. Le stecche possono essere in tondino di acciaio oppure in lamierino sottile, piegato ad “u” squadrato. Le rotture avvengono nelle giunture tra le stecche e le barrette che le uniscono al fusto. La riparazione consiste nell’inserire, nei forellini della giuntura, sottili segmenti di fil di ferro che poi vengono serrati. Le stecche tornano a piegarsi correttamente, evitando che la barretta si infili di nuovo nella stoffa. Qualche volta il manico si stacca dal fusto, oppure il fusto si spezza. Se è di legno, si potranno rincollare le due parti, altrimenti occorre cambiarlo con uno di quelli portati a tracolla. A volte, anche, l’ombrello perde il puntale che è in fondo al fusto. L’ombrellaio ne ha sempre qualcuno di riserva, usato, nella cassetta, da sostituire al mancante. Può anche essere necessario applicare un nuovo pirolino in cima alla stecca, per evitare che questa ti acciechi, quasi fosse diventata un fioretto da scherma. Gli ombrelli d’un tempo avevano l’impugnatura in legno, in bambù, in metallo, o anche in avorio scolpito, in foggia di testa di cane o altro. Gli ombrelli di oggi non si aggiustano, si buttano via. Sono per lo più fabbricati in Cina. L’ombrellaio è stato rovinato dall’avvento della plastica. Un tempo, faceva anche l’aggiustatore di piatti, ciotole, vasi e terrecotte. Arrivava con il suo lento passo, gridando forte: “Ombrellaio! Concoline da accomodare!” La “o” e la “e” finali venivano prolungate e tenute sospese, con una inflessione nasale caratteristica. L’inflessione nasale era l’”insegna” dell’ombrellaio. Dovevi essere un vero uomo del mestiere per saper dare quell’inflessione nasale così unica. Le donne, quando la sentivano, scendevano precipitosamente per strade, portando l’ombrello, il piatto o il coccio da accomodare. Accomodare piatti e cocci era molto difficile. Nella novella “La giara”, Pirandello racconta come si aggiustano i grandi orci da olio, ma quello è un lavoro grezzo di fronte alla sottile tecnica dell’aggiustare un piccolo piatto. L’ombrellaio d’un tempo metteva i due pezzi a combaciare, poi praticava dei forellini minuscoli sulle due parti, in corrispondenza esattissima, forellino con forellino. Per fare questi forellini usava un trapano a mano, identico a quello usato nella preistoria dall’homo habilis. Si tratta di una asticella, in cima alla quale viene saldamente applicata una punta aguzza, spesso fatta con un pezzetto di stecca d’acciaio da ombrello. A un quarto dalla estremità con la punta è incastrato un disco, di legno con bordi di piombo. Più su, c’è una sbarretta orizzontale forata, che può scorrere su e giù lungo l’asticella. Alle due estremità ha una robusta cordicella, fissata all’estremità dell’asticella. Facendo rapidamente scorrere su e giù la sbarretta, questa trasmette, grazie alla cordicella, un moto rotatorio all’asticella, e la punta può così perforare la terracotta. Nei forellini veniva infilata una grappetta di sottilissimo fil di ferro, insieme a qualche goccia di colla. Con un piccolo martello si mette in perfetta posizione la graffetta. Di queste graffette a volte sono necessarie molte. Quando la colla si è asciugata, il piatto o la concolina è aggiustato. Si fa la prova riempiendola d’acqua, che non dovrebbe uscire né filtrare.



giovedì 8 novembre 2012



W IL WESTERN
(da “Il Foglio”)

Una parola è come un brillante dalle lucenti sfaccettature: a leggerla controluce, oltre a quello corrente e d'uso, rivela molti altri significati meno visibili e riconoscibili, spesso inaspettati e sorprendenti, persino lontani tra loro. Attraversando i secoli, logorandosi nell'uso, confrontandosi con il contesto, ci sono parole che hanno dato origine ad altre dal significato anche opposto alla radice originaria. Seguire queste avventure semantiche è un piacere raffinato, si fanno straordinarie scoperte, è un percorso attraverso - come dire - paesaggi mentali diversi e inconsueti. Ringraziamo la filologia che ce lo permette.

Senza far ricorso ad un aiuto così impegnativo, mi è venuto di fare queste considerazioni scorrendo, sul numero di ottobre della rivista “L'indice dei libri del mese”, il box che Bruno Bongiovanni dedica al termine “western”. Il box di Bongiovanni è una rubrica fissa - titolo: “Babele: Osservatorio sulla proliferazione semantica” - dedicata ogni numero ad una parola, un termine, di cui ci fa seguire le vicende storiche e i risvolti culturali. La parola, il termine che ha dato la stura alle mie considerazioni era “western”, cioè “occidentale”. Di “ceppo germanico”, ci spiega Bongiovanni, lo si trova già in Shakespeare e in Milton con significati “intrecciati” e “diversi”. In America, “western” è ciò che è “coming from the west”. “Vi è chi lo osserva dall'Est, da quell'area atlantica ospitante le 13 colonie che (…) danno vita agli Stati Uniti”: e costui scorge “spazi enormi” con “pionieri, avventurieri, rangers, cercatori d'oro e di altre ricchezze, mandriani, coltivatori, uomini d'affari, gente in grado di trasformare il deserto in giardino, combattenti contro le tribù indiane, outlaws, sceriffi, eroi...”. Bongiovanni vuole soprattutto evidenziare l'approdo finale della parola, il suo indicare, ormai stabilmente ed esclusivamente, quel notissimo genere di film, nato ai primi del novecento, che narra avventure o vicende accadute nel “west”, raccontate dapprima da cinematografari americani, poi anche da seguaci e imitatori: in prima fila gli italiani, creatori dello “spaghetti western”, appunto.

Lo stesso Bongiovanni ricorda che il termine era stato impiegato con altre accezioni: “l'impero occidentale sorto nel 395 d.C.” o - infine - “la parte d'Europa alleata degli USA nel corso della guerra fredda...”, ecc. Non fa menzione però (ma si capisce, è uno storico e la metafisica non è nel suo mirino) di un altro significato che a me pare fondamentale e anche stuzzicante : nella corrente (e corriva) geografia culturale europea, l'”occidente” è l'ambito, la dimensione specifica - addirittura - di un modo di essere dello spirito umano. Il termine, che nell'accezione andrà scritto con la maiuscola, definisce e ritaglia quell'ambito geografico e storico che ha come suo centro l'Europa, con qualche frangia anche al di là dell'Atlantico, ma subito salta al significato geografico ad un altro, di genitura filosofica e metafisica. In questa versione, nell'ultimo secolo all'incirca, ha goduto di pessima fama. L'”Occidente” è stato denunciato come la sede, la sorgente di tutti i mali che affliggono i nostri tempi: la scristianizzazione, il relativismo, l'individualismo, la tecnica, la “crisi dei valori”... Per queste sue negatività è destinato al tramonto, anzi - con termine usato solo in questo contesto altamente specialistico - all'Untergang”. In un suo recente saggio - “Cosa resta dell'Occidente” - Gian Enrico Rusconi rielabora puntualmente le tesi di quanti hanno indagato sul tema: in tutte, “Occidente” è termine metastorico e metafisico, maledetto come modello negativo e da ripudiare, a causa del quale sono inevitabili diagnosi ultrapessimistiche sul destino dell'intera civiltà.

Lo avrete notato anche voi, l'occidente del “western” ci parla in positivo. I suoi paesaggi ci dipingono orizzonti superbi, libertà sconfinate, una selvaggia, indomita bellezza; i suoi personaggi, lineari e quasi sempre privi di psicologia, sono eroi di una lotta nella quale il bene finisce sempre per trionfare. Per l'americano, il west - l'occidente - è il miraggio, l'ambiente eletto del suo sogno esistenziale e anche civile. Per l'europeo, l'occidente evoca invece tristezza, sconfitta, angoscia. L'occidente a cui lui si rivolge è un paesaggio ideale caro ai filosofi, a filosofi di un particolare filone, forse però esaurito o almeno in via di estinzione. Ma davvero, come costoro ci predicano, dobbiamo investire questo termine di tante responsabilità, attribuirgli un valore assoluto, metastorico? Scherzando e ironizzandoci un po', potremmo, o meglio dovremmo ricordare che l'occidente è tale - sempre e solo - in relazione ad un oriente, e può a sua volta diventare o essere visto come l'oriente di un occidente ancora più lontano, più - per capirci - ad ovest. In quest'ottica, relativizzato e storicizzato, non dovrebbe fare più paura come non fa paura - anzi - all'americano. E per intanto, tra Buffalo Bill e Schopenhauer, voi chi scegliereste?