venerdì 2 giugno 2017


angiolo bandinelli

UN  ATLANTICO  TROPPO  LARGO

(L’Opinione, 2 giugno 2017)



 “Il Tevere più largo” è il titolo, celebre, di un libro di Giovanni Spadolini (Longanesi, 1970) in cui lo storico, ma   anche ministro e Presidente del  Consiglio  (nonché Presidente della Repubblica ad interim) rileggeva  i complessi  rapporti intercorsi  tra  Vaticano e Stato italiano dalla breccia di Porta  Pia ai nostri giorni, o quasi.  Non so se le sue analisi, i suoi giudizi ed interpretazioni di quei  temi sarebbero ancora validi; la formula giornalistica torna  però di attualità in una diversa,  già famosa   versione: “L’Atlantico più largo”.  ll G7  svoltosi recentemente a Taormina ha reso  esplicito quanto era pur evidente,  e fu  presto  colto dagli osservtori più avvertiti: vale a dire l’allontanamento progressivo  degli  Stati Uniti dall’Europa.  Lo “America First” di Trump è  il suggello mediatico di una vicenda che covava sotto le ceneri  da un qualche tempo, già dall’epoca della presidenza Obama, con il silenzioso, lento ma inequivocabile ritiro degli USA dal palcoscenico della politica medioorientale. Con quel  ritiro, l’America rinunciava di fatto a giocare il ruolo di potenza egemone, di garante degli assetti ed equilibri a livello mondiale  incentrati  sul rapporto speciale con i Paesi dell’altra sponda dell’Atlantico, l’Europa insomma. Obama venne criticato per quella sua politica rinunciataria. Si cominciò a fare le pulci al “declino” dell’America. 

Con le scelte via via compiute da Trump il quadro si fa più chiaro. Anzi, fosco. L’America si chiude  su se stessa.  Ovviamente, l’ attenzione primaria ed  esclusiva  per  gli interessi  “nazionali” evocati dal motto  “America First” non vuol  dire che l’America  ignorerà vicende ed  eventi  senza intervenir e -  magari con i  “boots  on ground”  - qualora lo ritenga necessario;  ma lo farà, appunto, in nome del  proprio tornaconto, non a nome e con la partecipazione almeno morale  della comunità democratica, di qua come di là dell’Atlantico,  o  dei diritti umani e/o civili di cui questa  comunità si dichiarava portatrice. Trump lo ha esplicitato brutalmente:  i temi dei diritti umani e civili non lo interessano. Se dovrà intervenire -  in Medio Oriente o dove che sia – non lo farà per inseguire  le fantasie “neocon” che segnarono  le  imprese  militari di Bush in Iraq.  Con  sua visita a Riad,Trump ha delegato di fatto la gestione politica dellì area ai sunniti e ai wahabiti di Arabia Saudita, non esattamente  portatori   di democrazia e di diritti....

Vogliamo dirlo con altre parole? Quel che forse   è già morto, è il concetto di “Occidente”, come  storicamente formulato  e di cui erano considerati promotori  e  depositari  i  paesi  trans/atlantici. Nelle loro diversità, Stati Uniti ed Europa si riconoscevano,  ed  erano  riconosciuti, come la culla unitaria di un complesso di valori ben definiti e considerati  come matrici di diritto, e,  più in generale, di  una visione del mondo  a vocazione universale:  addirittura di una “civiltà”, la civiltà occidentale appunto.  Tutta questa  costruzione, eretta  in secoli di storia, sta crollando. L’America di Trump non è un episodio destinato ad essere prima o poi riassorbito. E’ l’espressione più  forte e determinante  di quel  rifiuto della storia che è all’origine di fenomeni  devastanti di cui oggi parliamo tutti, di qua come di là dell’Atlantico, e che improprimente e insufficientemente  abbiamo  definito come “populisti” o “sovranisti”. Definizioni  che non ci danno il senso complessiv o, l’ampiezza dei fenomeni  stessi. 

Sono giudizi e timori esagerati? Non so. Ma chi avrebbe  detto che le Tesi di Lutero avrebbero spaccato per sempre l’unità religiosa dell’Europa e scatenato un secolo di guerre tra le più devastanti e feroci? Da Spengler a Ratzinger, i profeti del “declino dell’Occidente”  hanno proposto i loro catastrofici allarmi, di volta in volta additando i responsabili del  declino e della fine dell’Occidente; l’ultimo sarebbe, aloro avviso,  l’Islam. Nessuno ha mai pensato che la scintilla sarebbe scoccata negli Stati Uniti d’America.. 

giovedì 11 maggio 2017

DOPO  MACRON,  OLTRE  MACRON

una “Convention” per l’Europa?

(il “Dubbio”, 9 maggio 2017)

Bene, dunque, Emmanuel Macron supera la difficilissima prova elettorale  battendo largamente una tosta Marina Le Pen. La Francia, il Paese chauvinist per antonomasia, avrà ora un Presidente nettamente europeista.

E ora, noi che facciamo? Proprio così:  noi, che facciamo? Lui il suo compito lo ha assolto. Noi, invece, nemmeno abbiamo capito quale sia, il nostro. Certamente, Macron non è un seguace di Spinelli, forse ne ricorda appena il nome, capitatogli sott’occhio in qualche lettura poco più che giornalistica; forse il suo europeismo prevede, al massimo, il rafforzamento dei tapporti  con la Germania, auspicati non solo da Schulz ma dalla stessa Merkel: una prospettiva destinata ad aprire presto qualche dissenso con il governo italiano, o con quel Renzi che bacchetta e rimbecca il Presidente del Consiglio in carica, Gentiloni, per far capire a tutti che nella stanza dei bottoni c’è sempre lui. E lui ha una  visione dell’Europa in  notevole misura antitetica a quella di Macron. Renzi vuole aprire una bagarre pregiudiziale, invocando  la necessità di apportare cambiamenti alla attuale  governance dell’Unione, e di modificare  alcune sue linee politiche. Macron vuole rafforzare i legami con la Germania per far sì che l’Europa possa prendere inizitive “in modo più veloce e deciso”, superando l’informe ammucchiata dei ventisette Paesi aderenti. Una linea, la sua, inadeguata e insufficiente, ma “centripeta”,  interna ad una logica europea. Non mi pare che Spinelli o Pannella appartenessero al partito del “tanto peggio, tanto meglio”.  Non mi azzardo a sostenere che sarebbero oggi dei macroniani, oso però supporre che magari si darebbero da fare per accrescere il tasso di federalismo utilizzando al massimo il nuovo quadro proposto dalla vittoria di Macron, che almeno allontana il rischio di collasso del poco di Europa che ancora regge. E dunque, noi che facciamo?

In Italia (non so altrove) finora si sono viste iniziative un po’ presutuose e, diciamolo, piuttosto strumentali: convegni senza prospettive, appropriazione di slogan, piccoli presenzialismi ecc., destinati a non avere alcun seguito.  L’occasione Macron non è stata colta nella sua eccezionalità. Non si capisce che è già un fatto eccezionale che un uomo politico abbia fatto -  e in Francia! -. una campagna elettorale sollevando la bandiera dell’Europa. Quando sentiremo ancora dibattere di questo tema con pari intensità?

Credo sia stata Emma Bonino a sottolinearlo, di recente: «Sono stati americani come Obama e Kerry a ricordarci che mettere insieme 28 Stati, 24 lingue e 19 Paesi con la stessa moneta, sia stato il progetto politico più ambizioso e meglio riuscito dei nostri tempi. Peccato che non ci sia più un leader europeo che abbia la forza e il coraggio di fare questo racconto al suo popolo». Ben detto: ma c’è bisogno di un “leader” per avviare un discorso e assumere efficaci iniziative? Marco Cappato ha proposto di raccogliere  un nucleo di soggetti (militanti?) capace di porsi come il motore, o almeno il volano, della nascita di un vero “soggetto politico” federalista. Auguri, se si muoverà efficacemente  in tal senso. Ma credo che il “momento” Macron debba essere colto  mettendo  in atto ambizioni e prospettive assai più ambiziose, oltreché tempestive. L’effetto della vittoria potrebbe dileguarsi, e lo stesso Macron dimostrarsi inadeguato. Ma una grandissima parte dei suoi elettori hanno votato per l’Europa, deluderli o abbandonarli potrebbe essere catastrofico. Credo perciò si debba forzare i tempi, per esempio lanciando un appello per una sorta di “Convention” adeguatamente transeuropeo da cui fare uscire un gruppo dirigente, solidale e attivo attorno a poche, chiare proposte, operative ma anche di solido impianto teorico-politico. E lo schema potrebbe proprio essere quello di una “Federazione Leggera” di chiara ispirazione spinelliana. Con un aggancio, magari strumentale, ad un obiettivo che in questi ultimi tempi viene ripreso e riproposto anche in ambiti ufficiali e con responsabilità di governo: mettere in piedi una forza militare unica, europea, atta a fronteggiare evenienze ed emergenze.

Una”Convention” come quella che viene qui suggerita non dovrebbe contare (senza pregiudiziali nei confronti di nessuno) su personalità di governo.  Dovrebbe, in qualche modo, far intravedere il nocciolo di quel ”Popolo europeo” al quale pensò Spinelli dopo il fallimento della CED. Lui fallì, non è detto che oggi quel modello non possa riuscire. La Francia ci ha dato un responso straordinario conferendo, con bella maggioranza, responsabilità di governo a chi ha fatto campagna elettorale sotto le due bandiere, il  tricolore francese e le stelle della UE (Renzi la seconda l’aveva fatta togliere, se non sbaglio). Perché non pensare che analoghe maggioranze potrebbero risvegliarsi anche in altri Paesi?

         

giovedì 12 gennaio 2017






HEIDEGGER E CROCE

da “il dubbio”, 12/1/2017





Nella vulgata mediatica (che si esibisce non solo nel web ma  dovunque, spudoratamente occhieggiando persino di tra le pagine del più ponderoso trattato accademico di gnoseologia o di etica) il filosofo per eccellenza del '900 è Heidegger. E si capisce: è tedesco, ha insegnato a Friburgo, può essere considerato l'erede della grande tradizione egemone, tra Kant ed Hegel, del pensiero non solo tedesco ma europeo. Eppoi è oscuro, ermetico, profetico, con le sue passeggiate solitarie per scoscesi holzwege esplora orizzonti infiniti e imperscrutabili, emana un sentore demoniaco e stregonesco, dà soddisfazione a tanti piccoli superuomini che sulle sue orme si sentono accolti nella ristretta schiera degli eletti capaci di attingere alle fonti del pensiero "autentico" - lo "essere-per-la-morte" - come cavalieri del Graal lontani dal volgo di coloro che non sanno districarsi dal"chiacchericcio" dell'inautentico. Tutto un po' elitario se non proprio nazista, e dunque gratificante.

Ben diverse le fortune di un pensatore più o meno contemporaneo del grande tedesco, l'abruzzese-napoletano Benedetto Croce. Davanti a lui i sofisticati accademici storcono il naso, snobbandolo senza riguardi: troppa concretezza, niente slanci metafisici, niente fascino accattivante, troppo rompiscatole, sempre un po' rétro, ecc. Magari un po' troppo amato da non filosofi, forse per ripicca i filosofi e gli accademici gli contrapponevano e gli contrappongono, ancor prima che Heidegger, Giovanni Gentile. Personalmente invece ritengo che se c'e' un erede di - per dire - Nietzsche, l'araldo della modernità, è proprio il provinciale don Benedetto che Nietzsche non lo amava, come non amava la "décadence" che al portavoce  di Zaratustra si è sempre ispirata.



Croce arriva alla filosofia non meditando in biblioteca sui testi canonici ma  attraverso un chiuso e introverso dramma esistenziale. Nel 1883, quando aveva appena diciassette anni,  lui e la sua famiglia vennero travolti dal devastante terremoto di Casamicciola. Il ragazzo restò sepolto per ore sotto le macerie ma si salvò, i familiari morirono. L’orfano venne accolto dai cugini Silvio e Bertrando  Spaventa, ma lo choc perdurò a lungo,  e a lungo Benedetto fu tentato dal suicidio. Lui stesso ha raccontato come il ricordo della terribile esperienza lo avesse perseguitato a lungo e come  riuscì a salvarsi dal lacerante travaglio spirituale.  Nella solitudine, cominciò a meditare sui valori della vita, di una vita degna di essere vissuta positivamente. Forse per questa via -  quasi un espediente terapeutico – il non ancora filosofo abbozzò alcuni concetti destinati nel tempo a divenire i cardini del suo “sistema”, il sistema della “filosofia dello spirito”.  Croce non era credente, non si affidò a dio, ma forse allora venne scoprendo che solo la verità, la bellezza, la giustizia e l'individuale ma solido utile sono  valori/categorie costitutivi del mondo, della realtà, del pensiero che la pensa. Più che la dialettica hegeliana o le classificazioni herbartiane, i quattro “momenti” della vita dello spirito su cui poi Croce lavorò con indefesso rigore filosofico nascono dalla meditazione sulla sua esperienza personale. Questa intuizione sfociò nella teoria di una  dialettica dei distinti, caratterizzata dalla compresenza - in ognuno dei quattro “momenti” dello spirito - del positivo e del negativo: il bello e il suo contrario - il brutto -, il vero e il falso, ecc. Modernissima, anzi rivoluzinaria la sua scoperta dell’utile come “momento” autonomo della vita spirituale.



In questo pensiero non c’è alcuno snobismo, per Croce ogni uomo (o donna, si capisce) pensa e fa filosofia nel suo concreto, vario, agire quotidiano. Il  filosofare del filosofo  è solo lo sforzo continuo e tormentoso di “schiarire” il pensiero, il concreto pensare dell’uomo. E’ qui,  credo, il fondamento del suo storicismo. Sulle orme di Vico, Croce ritiene che ciò che l‘uomo può davvero conoscere è solo quel che egli stesso ha edificato, e che dunque solo la storia/storiografia può far rivivere, rendere attuale,  contemporaneo.



Per Nietzsche, se Dio è morto tutto diventa possibile: una risposta che ci consegna ad un nichilismo assoluto. Anche per Croce Dio è storicamente morto (ma il portato del cristianesimo sopravvive a quella morte) però l’uomo deve, in conseguenza, farsi responsabie del suo agire, nell’ambito di una rigorosa etica della responsabilità e del dovere cui si devono le “are” e i “templi” che segnano il percorso storico della civiltà. Per questo, Croce detesta e respinge ogni forma di “decostruzionismo”, di “denuncia” delle cosiddette “menzogne della civiltà” di cui si nutrono molte mode pseudofilosofiche, espressione di un estetismo egocentrico e narcisista, quello che impregna il pensiero del tardoromantico Heidegger.



Anche Croce ebbe le sue contraddizioni: la prima quando, nella disperazione dell’impotenza dinanzi al vittorioso dilagare delle dittature europee, si rifugiò nell’ideale di una  metastorica  “religione della libertà” comunque e sempre vittoriosa sugli accidenti della storia; la seconda quando, già ottantenne, dovette arrendersi al riconoscimento della presenza - al di là e precedentemente rispetto alle categorie dello spirito -  di un   “verde”, inconscio e inafferrabile albero della vita, di cui si nutre ogni forma dello spirito.











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martedì 20 dicembre 2016


L’AMBIGUA  STORIA  DEL  PROPORZIONALE
da "Il dubbio", 20/12/2016


Allora, torneremo al sistema elettorale proporzionale? A un bel sistema proporzionale esplicito e dichiarato, senza gli equivoci e i sotterfugi del pasticciaccio in vigore? E’ possibile, forse anche probabile, la voglia è diffusa e fortissima (“...ci siamo, tranquilli...”, Giuliano Ferrara, “Il Foglio”, 14/12/2016), (“...la prossima legge elettorale rischia di essere...più proporzionale di tutte le precedenti”, Antonio Polito in una analisi politologica peraltro non proprio inappuntabile , “Corriere della Sera”,  14 dicembre 2016). Un cammino da gambero, ma sarebbe sbagliato  - oltre che inutile - prendersela (Riccardo Magi, “L’Unità”,13/12/2016)  con la “retorica” proporzionalista e i suoi “proseliti” di destra come di sinistra, sempre attenti a garantirsi perché tutti (o quasi) i 23 partiti e partitini tra cui si distribuiscono possano arraffare un seggio (almeno) in un parlamento  fatto a spicchi  come  un panettone.  La faccenda è molto più seria, ha una storia lunga, puntuale e ferratissima nelle sue motivazioni e ragioni.
Il proporzionale venne introdotto in Italia nel 1919, dal governo Nitti, su pressione del Partito Popolare Italiano - il neonato partito dei cattolici - e del Partito Socialista Italiano. Rispetto alla legge elettorale vigente dal 1912, la nuova normativa estendeva il diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 21 anni o avessero prestato il servizio militare. Il sistema tradusse in forza parlamentare il consenso delle due organizzazioni politiche di massa, che nei collegi uninominali si trovavano  in difficoltà di fronte ai candidati liberali, radicati sul territorio e quindi ben conosciuti, attraverso non la propaganda  ma il contatto diretto. Con questo cambiamento il voto non andava più al singolo, all’uomo, al candidato, ma all’anonimo partito che lo aveva designato. Non sono pochi quelli che hanno osservato come, alla fine,  dell’innovazione si sia giovato soprattutto il Partito Fascista, con la sua spregiudicata e aggressiva propaganda.
Il metodo proporzionale era stato inventato in Francia, nel 1846,  per favorire lo sviluppo dei partiti, da Victor Considerant, un acceso fourierista e socialista estremo, politico e saggista di rilievo. Il meccanismo da lui disegnato puntava a far nascere una Assemblea che esprimesse il più fedelmente e, per dire, il più fotograficamente possibile, l’immagine dell’insieme del corpo elettorale. Nato per favorire il voto delle nuove masse urbane e operaie, poco o nulla rappresentate da sistemi che privilegiavano invece ricchi e potenti, il proporzionale è dunque strettamente legato alla storia dei grandi partiti “moderni”. In Inghilterra, dove pure le masse operaie venivano acquistando un non meno forte peso, non attecchì: il sistema uninominale britannico seppe adeguarsi alle nuove necessità, in un equilibrio che mentre non ostacolava la crescita civile delle masse (basti pensare, ovviamente, al Partito Laburista) fece sì che i partiti non abbiano prevaricato coi loro apparati burocratici. In Inghilterra, il premier è anche il leader indiscusso del suo partito, l’applicazione in Europa (e particolarmente in Italia) del proporzionale ha fatto sì che il segretario del partito abbia un peso politico superiore al deputato, che non è più il rappresentate della “nazione” senza vincoli di mandato,  ma un anonimo portavoce del suo partito, e per lui si prospetti persino (accade oggi in Italia, su sollecitazione di Berlusconi) il “vincolo di mandato”. Il  deputato è - in quanto tale -  sempre più un numero, non una personalità idealmente legata ad un rapporto fiduciario con i suoi elettori. Anche il capo del governo ha un rapporto ambiguo con il segretario del partito.
Via via, il proporzionale è venuto degenerando, grazie alle sottigliezze di un ragionamento teorico formalmente ineccepibile. Se il sistema elettorale deve “rappresentare” il più dettagliatamente possibile tutte le tendenze politiche - ma anche culturali e magari religiose - la conseguenza sarà lo sgretolamento progressivo, l’adattamento coatto del sistema alla più variegata molteplicità di soggetti,  ciascuno dei quali richiedente un suo adeguato spazio, una adeguata fettina del panettone parlamentare. L’obiettivo di Considerant era di compattare il più possibile la rappresentanza attorno ai partiti di massa e alle loro ideologie creatrici di identità collettive; il risultato finale è esattamente l’opposto, lo spappolamento elettoralistico in nome e per conto di identità spesso inesistenti, evocate con l’obiettivo, appunto, di guadagnarsi una fettina del mercato elettorale. La conseguenza, ovvia, è la debolezza del governo, preda  sovente di posticcie e labili “coalizioni” e ostaggio di un molteplicità di poteri  di veto. Secondo Polito, il formarsi di coalizioni spesso del tutto eterogenee ha dato origine, almeno in Italia, ad un leaderismo fragile e ricattabile: il che è vero, tenendo altresì presente che una coalizione eterogenea è di per sé instabile e inaffidabile; nulla a che vedere con la variegata complessità dei partiti anglosassoni, tenuti saldamente assieme dalla norma etico-politica di fondo secondo la quale al centro del sistema c’è l’esecutivo, non il parlamento. Questa norma impone compattezza sia al partito di maggioranza  dietro il suo leader (il premier) sia all’opposizione e al suo governo-ombra.  
Tra i  critici nei confronti del proporzionale Magi  cita Luigi Einaudi il quale, nel 1946, ammoniva che esso, “moltiplicando i partiti, favorisce il trionfo non delle maggioranze ma delle minoranze” e, mentre “irrigidisce” i partiti sempre più arroccati su quella pretesa di identità che viene invocata per giustificare il meccanismo, non fornisce “la valvola di sicurezza contro colpi di mano”, “come quella – ricorda Magi – del 1922”. Avrebbe anche potuto  menzionare  Pannella, con la sua “Lega per l’Uninominale”.  Peraltro, non ha nemmeno senso l’appello rivolto da Magi al PD  perché ritorni alla sua “vocazione maggioritaria”  e respinga “l’algebra proporzionalista condita con una spruzzatina di maggioritario”. L’invocazione non è valida, per il semplice motivo che il PD è anche esso un partito frammentato e disgregato tra correnti, personalizzazioni e scismi che possono far prevedere scissioni anche formali (né sarebbe la prima volta che ciò accade, sempre in nome dell’ ”unità delle masse”...).
Non si può avviare un discorso serio sul tema del sistema elettorale, sbandierare il nobile obiettivo di reitrodurre l’uninominale maggioritario , facendo riferimento a forze che sono anche esse ormai  “dentro” il sistema politico-istituzionale: se si vuole davvero che, attraverso una profonda, rivoluzionaria  riflessione storico-teorica-politica, si possa ritrovare il cammino verso una democrazia coerente e rispondente ai canoni su cui essa può reggersi e prosperare, vale a dire il chiaro rapporto tra candidati ed elettori, occorrerà  collocarsi sul fonte intransigentemente alternativista, e da questa sponda avviare una - pur essa intransigente - polemica ed una coraggiosa iniziativa di respiro transnazionale. I radicali pannelliani denunciarono la crisi delle nordiche socialdemocrazie novecentesche  ammonendo che il “socialismo in un solo paese” è una sciocchezza, oggi ci dicono che la democrazia non si salva in un solo paese, l’Italia o qualsasi altro si voglia scegliere. A suo tempo proposero  la creazione di una “Organizzazione della e delle Democrazie”. Non riuscirono, ma la via non può essere che questa.




lunedì 21 novembre 2016

Ho disponibili molti numeri (anche alcune annate complete) del "N.Y. Review of book" e del "Times Review of books", per gli anni 1990.2000 circa. Disponibile a donarli, senza spese per me.

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da "Il dubbio”, 09/12/2016

Che ne  faremo della sinistra (non solo italiana)?

Le dimissioni di Matteo Renzi e - in parallelo - il gran rifiuto  di Franҁois  Hollande  sono vicende  molto diverse tra loro, nel  testo e nel contesto.  Ma qualcosa in comune lo hanno:  segnano l’uscita di scena  di due esponenti di primo piano di una sinistra comunque maltrattata e agonizzante,  se non morta e cancellata dalla cronaca ma fors’anche dalla Storia. E si parla non solo della o delle sinistre europee. Secondo Aldo Cazzullo (“Corriere della Sera”, 3 dicembre scorso), “il crollo della sinistra mondiale è pressoché completo”, dall’America  che boccia il neo-keynesiano Sanders come il “liberal” Obama (negli USA  i “liberal” sono la malvista sinistra) alla Spagna di Rajoy o alla Turchia stretta  nel pugno di ferro di Erdogan.  E molto deve dire anche il declino dei socialisti polacchi alla Kwasniewski  o dei  brasiliani Dilma e Lula.  Sempre per Cazzullo, persino la morte di Fidel Castro va intesa  come un tassello della crisi globale  delle sinistre  (e dei loro miti).  
Tutte allo sbando:  da quelle più intransigenti, dogmatiche  e nostalgico/retro a quelle populiste,  fino alle socialdemocrazie rese affabili e duttili dalle varie Bad Godesberg  succedutesi   soprattutto nel  nord-Europa. Naturalmente, la faccenda è triste e provoca comprensibili  rimpianti. Non manca però chi si ostina testardamente  a prognosticare e progettare  un futuro di rinnovamento e ripresa  dei grandi  ideali che hanno plasmato la storia per quasi due secoli: i partiti che li rappresentano o li hanno rappresentati  devono  risollevare le gloriose bandiere, ritrovare la loro identità profonda, cioè  la  difesa e promozione della uguaglianza sociale fino - secondo la componente comunista -  alla scomparsa totale delle classi.  Senza  spingersi così lontano  e anzi in contrapposizione, per Ezio Mauro (“La Repubblica”, 5 dicembre scorso), “ci sarebbe bisogno di una sinistra di governo”, certamente “moderna, occidentale, europea...”. Sul dibattito tra fautori del progressismo livellatore e quelli che auspicano invece la sana concorrenza della deregulation globale, è difficile prendere posizione: economisti e studiosi di ogni calibro e provenienza hanno detto la loro senza mai trovare un punto d’accordo comune, lasciando ai politici e al loro rude pragmatismo il compito di individuare una qualche via d’uscita, magari riesumando il vecchio e disinvolto metodo del  dare un colpo alla botte e uno  al cerchio.
Ricordo però qualche pagina del “Manifesto di Ventotene” che  aiuta a spiegare i problemi delle sinistre. Il “Manifesto” è sicuramente, in molte sue parti, invecchiato e inutilizzabile, ma ricordo bene l’impressione che mi  fece, quando lo lessi la prima volta, l’affermazione che gli Stati nazionali usciti dalla guerra sarebbero divenuti dominio delle sinistre “sindacali” (non ho il testo sottomano, ma credo di ricordare con esattezza questo termine – “sindacali” – per indicare la caratteristica saliente degli Stati usciti dalla sanguinosa prova). A lungo, in Italia fu al governo la DC, e la previsione sul predominio delle sinistre “sindacali”mi parve  non rispondente a verità. Invece, la definizione era  azzeccata. Nel secondo dopoguerra, i sindacati, socialcomunisti o cattolici, hanno goduto di un potere via via sempre più forte, come mai in precedenza. Divennero i protagonisti assoluti di una dialettica partecipativa e cogestionale nella quale erano visti come  controparte privilegiata del governo, qualunque fosse il suo colore. Fu il tempo, nei fatti se non di diritto, del “consociativismo”, in cui un progetto di legge veniva  previamente sottoposto al  beneplacito delle parti sociali, vale a dire i sindacati. Era ovvio che fosse così, il dopoguerra vide  l’esplosione, anche in Italia, di una forte  classe  operaia  legata alle grandi industrie, che trovava come suo punto di riferimento  i partiti di massa, più o meno marxisti che fossero, e alle loro avanguardie, i sindacati. Cose analoghe  accadevano anche in Francia o altrove.  Gli Stati vennero “occupati” dalle sinistre “sindacali”. Una abnorme concezione istituzionale.
Oggi la classe operaia, nel suo complesso, è sparita o ha perso gran parte del suo antico potere. Non è più la marxiana “classe generale”, portatrice ed espressione dei  valori della Storia. E’ dunque ugualmente ovvio che i partiti legati alla dialettica social/nazionale siano in forte declino: non hanno più una funzione specifica da assolvere, né possono vantare responsabilità e doveri  al di là della difesa degli interessi  particolari dei segmenti sociali  che rappresentano (o dicono di rappresentare).  La richiesta di farli rinascere, di ricostituirli o ricostruirli, è fuori  luogo, non ha senso. La vera faglia, il punto di frattura tra conservazione e innovazione, la nuova frontiera tra passato e futuro, è quella tra l’isolazionismo  nazionalista, il protezionismo, l’identitarismo (anche razzista) da una parte e, dall’altra, la flessibilità inevitabile della rivoluzione digitale e dei nuovi lavori, l’internazionalizzazione dei diritti (e dei doveri) civili e umani, l’apertura  verso l’altro, la trasversalità. Le migrazioni sono un fenomeno epocale, che deve essere governato nella sua ricchezza e fecondità, anche con il suo inevitabile meticciato culturale e antropologico.  Dunque, un socialismo possibile e auspicabile è solo quello transnazionale, il socialismo dei diritti dell’uomo 2.0. Gli appelli alla “ricostruzione” della o delle sinistre ingabbiate nei  confini degli Stati nazione sono retorica, indice di una incapacità di vedere e analizzare i problemi del nostro tempo.
Purtroppo, un partito, o partiti che li avvertano e si preparino ad affrontarli non ci sono:  tra la rovina delle vecchie élites e classi dirigenti nazionali, non si sente il vagito di un soggetto politico transnazionale adeguato alla bisogna. Siamo ancora, quando va bene, al tempo delle analisi. Speriamo che non sia una perdita di tempo.


venerdì 14 ottobre 2016

TRUMP? COME RADIO PAROLACCIA
da "L'Opinione"
ottobre 2016


Più di 800 ore ininterrotte di bestemmie, insulti, oscenità,  provenienti  da ogni angolo del Paese. Fu  la trasmissione radiofonica più lunga e volgare della storia: quasi 50mila minuti di sconcezze  trasmesse in 35 giorni da Radio Radicale, ribattezzata per l’occasione “Radio parolaccia”. Era il 10 luglio del 1986, Radio Radicale versava  in gravi difficoltà economiche.  Di fronte a costi di gestione sempre più alti,  era arrivata al punto di rischiare la chiusura. I dirigenti  decisero di sospendere tutti i programmi, per lasciare la parola - senza filtri di sorta - agli ascoltatori: installarono 30 segreterie telefoniche, invitando gli italiani a registrare un messaggio di un minuto con le proprie opinioni sulla radio.  Successe l’imprevedibile.  Attraverso il microfono ininterrottamente aperto, migliaia di sonosciuti vomitarono scurrilità, bestemmie, insulti, in un crescendo che si nutriva e si esaltava di se stesso. Ne uscì un’immagine del paese inedita,  inaspettata, insospettabile.
Chi ricorda ancora quell’incredibile episodio non dovrebbe avere molto da meravigliarsi, oggi,  per le scurrilità profferite da Donald Trump durante i dibattiti con Hillary Cinton o in ogni altra occasione pubblica gli venga offerta. Le sue parolacce, i suoi insulti, le sue battute  sessiste  o antifemministe non sono più volgari o grevi di quelle che uscivano dai microfoni di Radio Radicale. Qualcuno, in quel lontano 1986, cercò una spiegazionedell’insolito evento (allora non c’era il web o i “social”, twitter e affini), la Lega di Bossi doveva nascere (nel 1997 o, secondo alcuni, nel 1995), ovviamente Grillo faceva ancora il capocomico, non il capopolo, e il suo linguaggio sboccato era funzionale al suo lavoro. Perciò i più dei commentatori  misero la trasmissione sul conto dell’ eccentricità attribuita a Marco Pannella, ai radicali e alle loro irridenti iniziative. Mi pare che furono in pochi ad azzardare un giudizio pienamente politico. E invece l’evento radiofonico  se non prevedeva, certo precorreva una crisi socioculturale più profonda e generale di quanto si potesse immaginare. Il fatto che oggi il candidato alla Presidenza della Repubblica Americana, nata dal pensiero di gente di raffinata cultura e comportamenti  come come  Alexander Hamilton, James Madison e John Jay (per non parlare di Benjamin Franklin) possa raccogliere una audience vastissima con  un linguaggio che fa inorridire non solo i benpensanti  è un fatto  incredibile, che trova un paragone – appunto - solo  nel precedente  di Radio Radicale.
 O meglio, sembra che sia così: in realtà anche questa vicenda si colloca in un quadro  assai vasto e profondo, quello della crisi del rapporto tra elites (non solo quelle italiane, evidentemente) e opinione pubblica. Il  rigetto della politica e delle sue classi dirigenti è un fenomeno di portata epocale, che investe soprattutto le democrazie (se non altro perché le dittature e i regimi tirannici sono molto sbrigative nel reprimerlo). E finalmente commentatori, politologi ed esperti cominciano a sospettare che non  sia da prendere sottogamba, perché potrebbe scivolare lungo  derive assai pericolose: qualcnuno è arrivato finalmente a porsi la inquietante domanda se non sia a rischio lo stesso concetto di democrazia,quella che si è plasmata,  come la conosciamo, da secoli.
Per  mero promemoria, vale la pena segnalare che i radicali di Marco Pannella da tempo vanno denunciando il pericolo. E non solo lo hanno denunciato e lo denunciano, ma  cercano quanto meno di individuare i possibili rimedi. Innanzitutto, occorre comprendere quali siano le radici della disaffezione dell’opinione pubblica verso le elites e le loro politiche: per i radicali le ragioni stanno nella inadeguatezza delle Istituzioni statuali in vigore. Basta tornare indietro di poco nel  tempo per ricordare quanto le Istituzioni “nazionali” fossero sentite come “valori” inattaccabili e creatori di consenso, di sentimenti popolari e positivi. “Dulce et decorum est pro patria mori”, scandivano i romani. Oggi, quel sentimento patriottico è scomparso. “Morire per la patria” può apparire un segno di mera follia, le cerimonie sui morti in questa o quella guerra vengono seguite sempre più distrattamente. L’uomo di oggi e di domani si sente molto più apolide, internazionale ecc., che nazionalista. Il nazionalismo dei partiti di destra estrema è solo un riflesso di antiche paure o di inconsci pregiudizi e terrori piuttosto  che indice di attaccamento positivo alla patria, alla terra “natia”, ecc. Sul piano corrente, non sono pochi quelli che osservano come la cosidetta “fuga dei cervelli”, su cui si perdono molte lamentazioni, è semplicemente la ricerca di una opportunità migliore di vita, resa possibile dalla caduta di molte barriere tra i popoli: sarebbe dunque un fatto benefico, positivo, da apprezzare. Il suo interfaccia è nella perdita di “senso” delle elites nazionali, che ancora guardano al passato, e non capiscono il presente e le sue profonde pulsioni.

La gente, contro le pretese di queste ormai vuote e inutili elites si sfoga come può, con con un comportamento riottoso, intollerante, e magari con lo sfottò, la sguaiataggine. Trump si è semplicemente fatto portavoce di queste insofferenze:  nessuno può pensare che quest’uomo stia rivendicando i grandi valori del “Federalist”. Il suo stile è diverso, ma i valori di cui si fa portatore sono – al più - quelli del Klu-klux-klan.

giovedì 11 agosto 2016





HEIDEGGER: L’ANTISEMITISMO E  E LA POLITICA
(da "Il Foglio", 12/08/2016)




E se qualcuno cercasse di persuaderci  che Martin Heidegger, forse l’ultimo filosofo dell’Essere, è pensatore fortemente politico? Inarcherebbero le sopracciglia i suoi ammiratori: “Ecco che ritorna fuori quella storia dell’antisemitismo”. Beh, è vero: la questione dell’antisemitismo di  Martin Heidegger è scottante e controversa. Che il filosofo  considerato tra i massimi se non il massimo  del novecento possa essersi  macchiato di una colpa così infamante appare impensabile, inaccettabile. Fino ad oggi le prove  sembravano schiaccianti, specie dopo la pubblicazione dei primi “Quaderni  neri”, taccuini nei quali  il pensatore tedesco  annotava  le idee man mano che gli si presentavano, senza altro ordine che quello puramente cronologico. I “Quaderni  neri” offrono  testimonianze ritenute  inconfutabili. Oltre a un repertorio di espressioni  ricalcate sulla più volgare iconografia dell’Ebreo avido e“calcolatore” vi  appaiono espressioni  più  pesanti che fanno dell’Ebreo un personaggio metafisico, partecipe, ma in negativo, della “storia dell’Essere”. Ne avevo  già scritto,  sul “Foglio” .
 
Ma è ora in libreria, passata finora sotto silenzio, una raccolta di saggi che si propongono di smantellare le critiche e di dimostrare l’assoluta estraneità del filosofo rispetto a quelle pesanti accuse: F.W. von Herrman – F. Alfieri: “Martin Heidegger. La verità sui ‘Quaderni  neri’ “, 459 pagg., Morcelliana 2016, 35 euro.  Francesco Alfieri è Docente presso la Pontificia Università Lateranense. Difficile riassumere questa ponderosa  silloge che si presenta con l’avallo di Hermann Heidegger e di Arnulf Heidegger, “Amministratore del Nachlass di Martin Heidegger”. I saggi recano altre  autorevoli  firme, quelle di Leonardo Messinese e di Claudia Gualdana.

Di sicuro, le argomentazioni che vi sono offerte sono molto abili e hanno un forte  crisma di credibilità; quello che è meno convincente e a mio avvio inficia le ricostruzioni è che tutti i saggisti puntano a dimostrare come le accuse rivolte a Heidegger  sono il frutto di una sorta di congiura tessuta in perfetta malafede, soprattutto da persone ignoranti di filosofia, al più pennaioli dilettanti.  Né persuade la tesi  secondo la quale i “Taccuini” sono scritture private, che non possono essere poste allo stesso livello di importanza delle grandi opere teoretiche del filosofo. Heidegger  fu sempre esplicitamente molto attento a queste sue riflessioni, seppur  d’occasione,  non sembra le abbia trattate come un “notebook”  per  insignificanti, incidentali appunti.

Ma in definitiva, per quanto sia allettante e appaia attuale, la polemica sull’antisemitismo è , nel quadro di una complessiva analisi (o critica) del pensiero heideggeriano , vicenda secondaria. I saggisti del volume di cui stiamo parlando sono unanimi nel respingere l’idea che il loro filosofo possa essere sottoposto ad una critica “in termini politico-ideologici”  invece  che “in modo puramente oggettivo e scientifico”: per loro, “Il pensiero heideggeriano della storia dell’essere o della storia dell’evento non ha nulla a che vedere con un pensiero politico-ideologico ma è (...) un pensiero fenomenologico-speculativo”. E invece, a mio (modesto) avviso di non filosofo di professione, la filosofia heideggeriana è  impregnata di politica, anche se in una formulazione ellittica, di alto stampo metafisico, e sollecita risposte politiche: anzi, ha storicamente  provocato  forti, seppur  indirette risposte politiche. 

La politicità di Heidegger è nel cuore stesso di tre  suoi temi essenziali: il rifiuto della modernità e della sua tecnica (all’interno del quale trovano posto, forse anche solo per incidens, leconsiderazioni dal tono antisemita); la condanna del  pensiero “inautentico”, legata strettamente alla tesi, centralissima nelle sue opere più importanti, dell’”essere-per-la morte”, un tema  presente in vasti  settori della “destre” estreme d’Europa, con il loro macabro élitismo. La riflessione sulla tecnica è segnata da un profondo pessimismo, dalla convinzione -   del  resto condivisa da altri pensatori, Marcuse e la Scuola di Francoforte,  Hannah Arendt, Hans Jonas, il nostro Emanuele Severino, ma anche  largamente diffusa,  almeno fino a ieri,- nella Chiesa cattolica - che  la tecnica moderna sia manifestazione  della logica nichilistica che pervade e sostanzia  il mondo industrializzato e capitalistico, non – come a me invece sembra -  l’ultimo (teleologico?) sviluppo di quella caratteristica che è propria dell’homo abilis, quella del pollice opponibile e della mano prensile, adatta a maneggiare strumenti e a fabbricare tecnologia,  caratteristica che lo distingue dalla scimmia antropomorfa dalla mano ancora atta ad un comportamento da  arboricolo.

Quante scelte concretamente politiche sono state assunte, in Europa e più latamente nell’Occidente industrializzato e globalizzato, su questa linea, magari contemporeaneamente – e contraddittoriamente - alla richiesta di liberalizzazione delle tecniche di mutazione genetica per  piante di largo uso alimentare? Non è un caso che proprio in Europa, in una cultura che direttamente o indirettamente si  rifà al pensero di Heidegger , si manifesti  la maggiore contrarietà a questa “liberalizzazione” tecnologica.